Sono parole pronunciate qualche tempo fa del Presidente del parlamento europeo Antonio Tajani (italiano), riferendosi alla Catalogna ma è anche un monito per altri. Un demagogo incapace che vorrebbe risanare l’ambiente e civilizzare l’Africa subsahariana investendo miliardi di Euro europei (da una sua dichiarazione fatta durante la visita a Norcia).
Sono improvvide, quanto sconsiderate dichiarazioni espresse da un uomo che occupa un posto chiave nella politica europea. È incomprensibile come un individuo di tal fatta possa svolgere, in Europa, un ruolo di tale importanza. Incomprensibile per noi, semplici cittadini, ignari di quanto succede in quel misterioso motore d’intrighi che muove ancora a Bruxelles la cavillosa burocrazia europea, oramai lontana dai popoli e dagli intenti dei fondatori della Comunità Europea.
L’attuale Europa si è appropriata ruoli che non ha; non è una federazione, non ha una vera Costituzione, non ha un esercito, non ha la salvaguardia sulla moneta unica, distribuisce molto denaro senza un valido controllo ma soprattutto non tutela la democrazia degli Stati membri, in quanto la stessa democrazia europea ha cambiato pelle trasformandosi in una plutocrazia autoritaria, ed è ciò che succede oggi. Appoggia un mandato di cattura europeo per Carles Pigdemont e i suoi quattro ministri catalani per ribellione, sedizione e malversazione; sono comportamenti spagnoli paritetici al fascismo franchista mai definitivamente debellato. E ancora minacce dell’Europa (con l’Italia in prima linea) all’Austria e Ungheria per un’eventuale chiusura delle frontiere per fermare il flusso degli extracomunitari, un grave problema, questo, che si sta rivelando la chiave della frattura nei rapporti di vari Stati membri con l’U.E. che rimane cieca, sorda e muta.
Un po’ di storia della nostra “ patria cita” ( “piccola patria”)
Il 1861, una data fatidica per la realizzazione dell’Unità che ha dato inizio a un rapporto-scontro mai sanato di Torino con il resto d’Italia.
La nostra “patria cita”; così è denominato dai piemontesi il Piemonte è, storicamente, una di quelle “piccole patrie” che oggi ha permesso a quest’uomo (Tajani, sempre lui) e a molti altri del suo livello, che comandano senza saper governare, di sedere su poltrone che mai avrebbero potuto occupare nel Parlamento della monarchia subalpina di quel tempo. Sono uomini di grande spessore quelli che dal 1859 al ’66 posero le basi per l’Unità d’Italia. Eccoli: partendo dall’estrema destra di Solaro della Margarita, Ottavio Revel e Cesare Balbo, a destra, Cavour; Azeglio e Lamarmora al centro; poi a sinistra Rattazzi, Brofferio, Valerio e molti e altri di egual valore. (Quale differenza!)
La difficile e controversa operazione unitaria descritta dall’allora Ministro dei lavori pubblici Stefano Jacini durante il Governo Cavour (1860/61), illustra le fasi critiche dell’avventura.
La chiave era stata il problema del Mezzogiorno e delle annessioni. La politica liberale non prevedeva una larga rappresentanza delle forze popolari; la contraddizione della «precarietà di uno Stato creato dal suffragio universale ottocentesco e di una legge che in un momento di rivoluzione accorda i diritti politici a un ristretto numero di persone». In sostanza lo Stato non poteva sottrarre i diritti politici e i privilegi al ceto più colto e più rivoluzionario del quale aveva estrema necessità. Il problema era stato risolto, in parte, con l’ammissione della legge. Lo Jacini aveva cercato di ammorbidire diplomaticamente la situazione ma inutilmente, il peggio era stato fatto.
I plebisciti (molto ristretti) dal 1860 al 1870, risolsero i problemi enormi delle annessioni ma avevano ignorato le forti tendenze federalistiche e di autonomia che arrivavano non solo dal napoletano ma anche da altre parti d’Italia. All’uopo, per i vari ministri sabaudi e Cavour, che incarnava l’autorità Regia, urgeva realizzare le leggi per creare i gangli vitali dell’amministrazione centrale dello Stato Sabaudo, per cui occorreva comprimere, senza troppi scrupoli, i venti di ogni autonomia. È stata un pretesto risorgimentale, l’unificazione nazionale, nata contro il volere del popolo e voluta intensamente dalla borghesia intellettuale per il proprio progresso economico e politico. È sufficiente osservare la composizione della “Legge elettorale” in Piemonte nel 1848 (residuale dallo Statuto Albertino), ove la Camera rispecchiava la Società Subalpina del tempo, che, con il sistema elettorale fondato sul metodo “uninominale” si era assicurata l’egemonia nel Parlamento e nel paese. Infatti, la prima legislatura risulta composta in prevalenza da liberi professionisti, avvocati, uomini di legge, funzionari di Stato e magistrati, pochi gli ecclesiastici (cinque in tutto), ed una lieve presenza di proprietari di terre (trenta su 204 deputati). Una visione statuale, uniforme, dai poteri fortemente centralizzati.
Per l’ex regno di Napoli l’annessione è stata una forzatura, poiché l’inviato di Cavour, quale primo Luogotenente a Napoli Farini Luigi Carlo, aveva espresso pareri negativi sui napoletani; inaffidabili, troppo diversi e insofferenti alla disciplina per accettare le rigide regole imposte dai Piemontesi. Ancora il Farini ammatteva che « L’annessione è stata deliberata non per caldezza di affetto nazionale ma per parossismo di due paure; negli uni la paura del ritorno del borbone, negli altri la paura del garibaldismo…». Inoltre molta gente comune, inascoltata, era autonomista e antiunitaria. Tuttavia la determinazione dell’idea unitaria di Cavour e i suoi uomini avevano compiuto il miracolo; alla fine Vittorio Emanuele II diventa Re d’Italia.
Per non creare confusione, bisogna capire il vero significato di “suffragio universale” riferito al periodo storico in cui si parla. Nell’Ottocento il termine “popolo” aveva un contenuto molto vago e impreciso. In generale s’identificava il “popolo” con la nazione stessa tutta, nel senso che si dava un significato “etnico” . Ma il termine “popolo” aveva anche un’altra definizione simile, che divergeva molto dalla prima. In questa seconda interpretazione, s’intendevano indicare le classi sociali medie e inferiori, ossia quelle che lottavano per il riconoscimento della loro esistenza politica contro le classi feudali e i loro privilegi. È anche un’interpretazione di Carlo Cattaneo concernente la struttura politica del suo federalismo.
Il popolo piemontese ha avuto troppi morti per una causa unitaria che gli era stata imposta con la visione di una Torino capitale ma che invece il progetto monarchico, in realtà, l’escludeva; un torto mai sanato. Si costaterà nel tempo il madornale errore fatto dall’autorità Regia, il re, nel costituire un’Unità d’Italia che, nessuno lo vuole ammettere, non è mai realmente esistita.
Ma non è finita per il Piemonte. Nel 21 e 22 settembre del 1864 un colpo gravissimo a sorpresa era stato inferto a Torino e ai torinesi con la notizia del trasferimento della capitale a Firenze.
Un tragico avvenimento che aveva comportato uno sconvolgimento per la città, per la sua economia, per le abitudini e per il prestigio che la città si era guadagnato. Tra i torinesi e il re c’era sempre stato un forte legame ma dopo la sorpresa, la reazione era stata; “Il Re ci ha traditi!”. E non avevano torto.
La protesta dei torinesi in piazza San Carlo aveva avuto costi umani terribili: 55 morti e circa 133 feriti; la gente disarmata di fronte ai soldati schierati che, da pochi metri, sparavano ad altezza uomo. Altri morti da aggiungere alle centinaia di migliaia che questa “piccola patria”, alla conclusione della storia, aveva dato in nome dell’Italia unita.
La “Patria cita” o “piccola patria”, con tutte le sue collaudate, efficienti strutture politiche, amministrative, burocratiche e militari aveva realizzato in circa un decennio (1860/1870); un’Unità che nessuno nell’Italia di quel tempo avrebbe mai saputo e potuto realizzare.
Cavour e tutti gli altri artefici di questo “miracolo” non potevano certo prevedere gli effetti futuri dell’allargamento di questo sistema politico detto a quel tempo “piemontesismo”. Un sistema che è stato tutt’altro che un “miracolo” per Torino e il Piemonte. La visione federalistica cattaneana aveva precorso i tempi di circa un secolo scegliendo la forma di governo più idonea per l’Italia.
Ma questo è tutt’altro discorso.