1) Stato del Vaticano
Monarchia miliardaria catto/comunista, governata da un re-prete, capo della chiesa cattolica, detto “papa”, il quale dall’alto dell’Empireo in cui risiede invia a piene mani benedizioni gratuite alla plebe terrena in preghiera. Costui, non sborsa un euro, non paga le tasse, lancia anatemi agli italiani ingenerosi e razzisti, fa proclami a favore degli extra-comunitari, che la sua chiesa accetta ma non in Vaticano, bensì in altri luoghi e a spese degli italiani. Viaggia gratis non su aerei di linea ma a servizio solo suo e del suo seguito, come si addice a un re, ed è risaputo che (il suo Stato) è luogo delle peggiori nefandezze che l’essere umano possa immaginare. Eppure costui è venerato da eserciti di credenti. Esiste una succursale in terra che applichi la giustizia divina? No; per cui sarebbe tempo che il suo Dio ne creasse una, anche piccolina e si preoccupasse, alla buon’ora, in nome dell’anzidetta giustizia, di portare la chiesa cattolica a fare ammenda dei suoi peccati mortali e prendere finalmente la via della penitenza e avviarsi verso sentenze di tribunali terreni bisognosi di verità e giustizia (non divina).
Il 7 giugno 1929, entrarono in vigore i Patti Lateranensi, firmati l’11 febbraio dello stesso anno da Mussolini, in nome dello stato fascista e la Santa Sede, retta da Papa Pio XI e negoziati dal cardinale Pietro Gasparri . Nasceva così lo Stato di Città del Vaticano.
Non è più rinviabile la decisione di rivedere in toto questi Patti, ormai desueti e il punto terzo del Concordato, che ancora nel “nuovo” Concordato del 1984, su patti scritti e non scritti, persiste come un male incurabile, il “potere temporale” della Santa Sede. Sarebbe da ripresentare il programma di Cavour, salvo lievissimi aggiustamenti sulla divisione fra Stato e chiesa, ovvero ”più Stato e meno chiesa”. La proposta di Cavour prevedeva una politica ecclesiastica rivoluzionaria per l’Europa del suo tempo. Egli poneva al centro della questione la fine dell’interferenza della chiesa negli affari di Stato (il celebre motto: libera chiesa in libero Stato), libertà religiosa e un insegnamento scolastico più aperto, più “liberale”, con meno vincoli religiosi. Com’è ancora ai giorni nostri: che la Santa Sede tolga finalmente le mani dallo Stato italiano.
Per quanto riguarda il catto-comunismo papista d’Italia, il connubio politico fra comunismo e chiesa ha una lunga storia. In un luogo segreto della Svizzera, c’era stato già nel 1938, un incontro fra due esuli del partito comunista con un monsignore della Curia. Costoro rassicuravano il religioso che i Patti non erano da rivedere; solo il Concordato era in discussione. A parte i successivi accadimenti, nel 1938 i comunisti e la chiesa già mestavano per i propri interessi; loro concordavano tutto, ecco il motivo per cui sapevano già tutto “prima”… degli altri ingenui. (Leggere il Concilio di Verona).
1184 – Il Concilio di Verona istituisce L’INQUISIZIONE per gli eretici.
Di tutte le invenzioni della chiesa cattolica, questa è quella più immensamente lontana sia dallo spirito e dalla lettera del vangelo sia da ogni minimo spirito umanitario. Si tratta di una bolla pontificia promulgata da papa Lucio III in occasione del Sinodo o Concilio di Verona appunto nel 1184, nel quale, in un apposito decreto, si prevedeva di combattere senza alcuna pietà l’eresia. Il decreto venne poi ripresentato nel 1215, nel Concilio Lateranense IV. Era sufficiente un semplice sospetto o una spiata per essere messi sotto processo; chi era a conoscenza di un’eresia, anche solo presunta e non la denunciasse, era considerato responsabile e posto anch’egli sotto processo come l’eretico.
Da questa data, per oltre 5 secoli, la storia della chiesa cattolica sarà una storia criminale, fatta di ossessiva ricerca del potere, di intrighi politici ed economici, di stermini, di torture, di roghi, di repressione di ogni atteggiamento di sia pur vaga opposizione, ma soprattutto la religione sarà usata per sfruttare le istintive paure dell’uomo e per sottomettere la gente semplice ed umile.
Qualche ragguaglio sull’accoglienza dei migranti da parte del mecenate mercante di schiavi: il “ Santo Padre Francesco”. Segue un articolo scritto quasi due anni fa ma ancora attuale e in peggioramento.
Migranti, la Cei predica accoglienza (ma la fa a spese dello Stato italiano)
di Giuseppe De Lorenzo , articolo del 07 agosto 2017 uscito su Il Giornale
Oltre 23mila migranti ospitati dalla chiesa, ma solo 4mila sono pagati con fondi ecclesiastici, il 79% lo paga il governo italiano.
Il segretario generale della Cei, monsignor Nunzio Galantino, lo ha detto in tutte le salse: bisogna accogliere i migranti. Posizione legittima, per carità. Ma a spese di chi? Già, perché a conti fatti lo slancio caritatevole della Chiesa non lo sostengono le casse del Vaticano, Ma gli italiani.
A documentarlo sono i dati dell’ultimo rapporto della Caritas sulla “Protezione internazionale in Italia”: a giugno 2016, il 17% degli stranieri accolti nel Belpaese erano presi in carico dalla Cei. Mica male. Anche perché di questi 23.201 immigrati che risultano nelle strutture religiose, solo 4.929 mangiano grazie a fondi ecclesiastici o donazioni. I restanti 18.272 (il 79%) la Chiesa li accoglie sì, ma usando i soldi dello Stato.
Difficile fornire una somma precisa. Galantino ad aprile li quantificava in 150 milioni di euro all’anno. Il Def (Documento di economia e finanza) parla invece di 1,8 miliardi dati alle confessioni religiose, principalmente la Chiesa, alla voce “Missione 27”. Capitolo che l’Ufficio bilancio del Senato cita in cima alle spese per l’accoglienza.
A far man bassa di appalti sono le diocesi e la Caritas. L’ente della Cei compare come aggiudicatario in almeno 26 diverse prefetture attraverso le sue diramazioni locali o le fondazioni direttamente controllate. Sondrio, Latina, Pavia, Terni e via dicendo per un importo ben oltre i 30 milioni di euro l’anno. I dati risalgono a tutto il 2016: tra le più ricche la Caritas di Udine, con i suoi 2,7 milioni di euro. Poi la Mondo Nuovo Caritas di La Spezia (1,7 milioni) e infine quella di Firenze (664mila euro). Un capitolo a parte lo merita Cremona, città che ha dato i natali a Monsignor Gian Carlo Perego, direttore Generale di Migrantes (l’ufficio per le migrazioni della Cei). Qui la Chiesa ha fatto bottino pieno: oltre 3 milioni di euro alla diocesi cittadina e 1,6 milioni assegnati alla gemella di Crema. L’attuale vescovo di Ferrara, soprannominato “il prelato dei profughi”, quando guidava la Caritas cremonese lasciò in eredità la cooperativa “Servizi per l’accoglienza” degli immigrati. Coop che ovviamente non si è fatta sfuggire 1,2 milioni di euro di finanziamento nel circuito Cas e altri 2,4 milioni per la rete Sprar 2014/2016 da spartire con altre due associazioni.
“La Chiesa accolga gratis i migranti”, ha chiesto più volte Matteo Salvini invitando i vescovi a dichiararsi pure ospitali, ma senza pesare sui contribuenti. Parole al vento. E così per capire il variegato mondo cristiano nella gestione dell’immigrazione, bisogna pensare al sistema solare: al centro la Caritas (che di solito si occupa solo di coordinare) e tutt’intorno un’immensa galassia di organizzazioni più o meno collegate. Vicine al sole ruotano decine di cooperative nate in seno alle diocesi e operative su suo mandato. Spiccano tra le altre la Diakonia onlus di Bergamo, che ha incassato 8,1 milioni. Oppure la Intrecci Coop di Milano, con i suoi 1,2 milioni di euro per l’accoglienza straordinaria a Varese. Dove non arriva la curia ci pensano i seminari, le parrocchie, gli ordini religiosi e le fondazioni. Come la “Madonna dei bambini del villaggio del ragazzo”, che l’anno scorso ha festeggiato l’assegnazione di 1,5 milioni di euro.
A poca distanza dal cuore del sistema si posizionano invece centinaia di associazioni che si richiamano a vario titolo alla dottrina sociale della Chiesa. Qualche esempio? Tra un coro dello Zecchino d’Oro e l’altro, la Antoniano onlus di Bologna ha accolto pure un piccolo gruppo di migranti. E con il sottofondo del “Piccolo coro” si è vista liquidare 129mila euro in un anno. Alla faccia di Topo Gigio. E ancora la cooperativa Edu-Care di Torino (2,6 milioni assegnati), la San Benedetto al Porto di Genova (fondata dal prete “rosso” Don Gallo), le Acli e via dicendo. L’elenco è sconfinato.
Papa Francesco l’ha detto chiaramente: “Chi non accoglie non è cristiano e non entrerà nel regno dei cieli”. Molti fedeli si sono adeguati, facendo il possibile per non perdere un posticino in Paradiso. E così si sono attivate pure una lunga serie di grandi cooperative bianche, gli ultimi tasselli che completato il puzzle. Al banchetto caritatevole partecipano tutte, dalle coop citate nelle carte di Mafia Capitale fino ad arrivare alla diffusa rete delle Misericordie d’Italia. La sezione più famosa è quella che gestisce il Cara di Isola di Capo Rizzuto, finito nella bufera con l’accusa di collegamenti con la mafia e trattamenti inumani verso i migranti. Ma le maglie della Venerabile Confraternita sono fitte e le sue affiliate non si fermano in Calabria. Alcune sezioni controllano diversi Cas tra Arezzo, Firenze, Ascoli, Pisa (e non solo). In Toscana l’introito complessivo per il 2016 è succulento: 6,2 milioni di euro. E pensare che nel vademecum dei vescovi c’è scritto che l’ospitalità può essere anche “un gesto gratuito”. Alcuni non devono essersene accorti.
Oggi, i vescovi con il Papa in testa, chiedono pubblicamente perdono per le loro nefandezze come se avessero rubato la cioccolata. Quest’esercito di togati in vesti multicolori, una mascherata propiziatoria giusto in tempo di carnevale, è uno spettacolo pietoso, Costoro, immersi nel loro illimitato potere temporale, terreno, non si rendono nemmeno lontanamente conto di cosa sono colpevoli; colpe quali l’idolatria, le menzogne, le ruberie, le violenze, i tradimenti, il tutto collusi con lo Stato e consumate per millenni.
No! Nessun perdono, non basterà mai la cenere di tutto il mondo per coprire le loro teste.
2) Lo Stato della Mafia e la Mafia di o dello Stato
Potentissime (concorrono con la chiesa), non si sa la data della loro nascita, tanto è millenaria, è insita nel DNA italiano, prospera in particolare negli Stati del SUD d’Italia ed è indistruttibile, immortale.
Vive anche e soprattutto di finanziamenti pubblici. È come un partito politico, un parassita che si nutre attraverso i diversi governi al potere, di qualsiasi colore essi siano. Sulle Mafie, in superficie, sappiamo tutto o quasi, ma nei secoli non è cambiato nulla, anzi è in continuo sviluppo. La TV esulta e incalza; è stata sgominata un’importante cosca mafiosa! Solo parole vuote, l’uomo non cambia, è corrotto fino al midollo. Si tratta solo di una questione di prezzo, l’abominio a questo punto neppure lo sfiora, purché abbia le tasche ben gonfie, inoltre si sente sicuro perché il “sistema” lo protegge.
Dobbiamo concludere che il sistema mafioso si rigenera in modo autonomo con la filo-genesi??
3) Uno Stato nello Stato: La Magistratura e l’In-giustizia
L’incultura, la disistruzione scolastica sistematica, la censura e il silenzio-strampa sempre più attento a chiudere le porte all’informazione, mantengono, per sistema, buona parte di questo paese allo stato feudale. L’esempio di Trieste è unico per il criminale silenzio su questa bella città ridotta a una discarica di rifiuti dalla politica italiana corrotta che la governa. Due banche venete sono fallite, fine dei prestiti, dei mutui dei fidi, si parla di mille disoccupati. Come si è arrivati e questo?
Ladrocinio, banditismo e delinquenza comune dilagante in un clima di palese impunità, segnano il fallimento della Giustizia e della Magistratura; una Casta ebbra di potere, oramai soggetta a una sorta di arretratezza, come dire, professionale. Un connubio con il partito comunista (PD) che ha condotto per mano l’Italia verso un’irreversibile arretratezza.
La Magistratura ha esteso il suo dominio in qualsiasi settore del pubblico e del privato: economia e finanza, enti pubblici amministrativi e politici, istruzione, imprese, banche. Persino la corte costituzionale ne è in qualche modo interessata, essa interagisce con il sistema giudiziario, aspetto di cui ogni giorno ne subiamo le conseguenze. Ora è il turno della cultura e dell’università. Qualche anno fa, in un convegno a Bologna, Sabino Cassese commentava la deriva che stava prendendo il sistema universitario affermando che: «Qui rischiamo che i prossimi professori universitari li decideranno i giudici». La nefasta profezia si è rivelata vera, ma addirittura per difetto. Cassese si riferiva infatti al più che probabile fiume di ricorsi che sarebbero seguiti alla procedura di abilitazione. (cosa che si è puntualmente verificata; della serie: se non si possono più bocciare gli allievi, perché mai si dovrebbero bocciare i professori?). Da alcune considerazioni di Francesco Di Donato, prof. Ord. a Napoli- Fondazione Luigi Einaudi.
Vale la pena un breve commento sulla sporca faccenda Diciotti. Molti buoni italiani si sono chiesti (un po’ in ritardo): allora chi comanda (non governa) in Italia è la Magistratura non il Parlamento. L’anarchia domina il nostro paese; prima il procuratore di Catania, oggi i giudici, poi ci saranno altri, con i comunisti in prima fila: abbattere questo governo a tutti i costi.
Sono decenni che questo accade proprio in Italia; oramai un malato terminale che resiste con false speranze in attesa della fine.
Sulla scuola
Sulla scuola in generale, a partire dal 1962, con il sistema di pianificazione e l’avvento della scuola di massa, venivano emanati nel 1973/74 i “decreti delegati”, con l’esclusione delle università e in pratica lasciati nelle mani di CGIL, CISL, UIL che nel 1972 avevano stretto il patto federativo.
I propositi erano ambiziosi per la scuola ma in breve tempo la sinistra comunista se ne appropriava diventando uno strumento politico lasciato e gestito dai sindacati, che, ben presto, trasformarono le strutture scolastiche in sedi di partito. A tutt’oggi il metodo d’insegnamento è ancora peggiorato e lo costatiamo ogni qualvolta entriamo in una scuola. Il risultato è invero disastroso per l’inconsistenza dell’educazione civica, dell’istruzione e preparazione culturale (via gli esami, nessun bocciato, tutti promossi), che, con l’abolizione della meritocrazia e dello spirito di competizione, ci troviamo di fronte a giovani immaturi, inadatti ad affrontare il mondo del lavoro d’oggi duro, che pretende, che seleziona attentamente capacità e intelligenza, ancor più all’estero.
Qualche tempo fa Ernesto Galli della Loggia, in un editoriale del Corriere della Sera scriveva: «Dagli anni ottanta i poteri dei ministri sono passati agli esperti, cancellando nei programmi ogni valenza formativa, così che per gli alunni l’insegnamento è stato insignificante… La classe politica del tempo è responsabile di questa “abdicazione”, che ha fatto venir meno l’apporto della scuola pubblica che le forze liberali avevano creato, al tempo dell’unità d’Italia, per sottrarre la formazione dei giovani dall’egemonia fin lì esercitata dalla religione, in particolare dalla “chiesa cattolica”. In mancanza di forti ideali dei partiti, questi stessi, hanno poi finito per lasciare spazio al sindacato, il solo potere che di lì in poi avrebbe dominato la scuola italiana. E dunque, nella grande crisi della politica, che, a partire dagli anni ottanta, ha annunciato e poi accompagnato massicciamente la globalizzazione – con la conseguente ritirata della politica stessa e dello Stato dalla società – l’istruzione è stata la prima trincea ad essere abbandonata».
Legge 4 agosto 1977, n. 517. La legge che ha sancito la fine dell’istruzione scolastica.
“Norme sulla valutazione degli alunni e sull’abolizione degli esami di riparazione nonché altre norme di modifica dell’ordinamento scolastico”
(Pubblicata nella G.U. 18 agosto 1977, n. 224)
Restando sull’argomento “scuola” in senso lato; se in quegli anni aveva perso ogni importanza la vera “istruzione”, aveva, al contrario preso forza, un altro tipo d’istruzione; quella alla quale mirava la sinistra politica, che “istruiva”, all’inizio, gli studenti con i principi pseudo-rivoluzionari del PC. Tuttavia molti fattori contribuirono a cambiare il corso degli avvenimenti, già nel giugno del 1975 erano emanati i cosiddetti “Decreti delegati” nelle scuole, una macchina ben oliata dal PC e studiata con astuta preveggenza. Nel giugno del 1976, in prossimità delle elezioni, la situazione sociale era drammatica: il terrorismo nero alimentava la strategia della tensione con sparatorie e stragi (Nel 74’ c’erano state Brescia e l’Italcus, dall’altra seminavano terrore le “Brigate Rosse” con sequestri, assassini e processi sommari). Nelle elezioni del giugno 1976 vinceva ancora la DC ma il PC, con un forte incremento di voti, dovuto al grande apporto dei diciottenni (con la legge del 7 marzo 1975 che abbassava a 18 anni la maggiore età), era sicuro di vincere e la delusione dei suoi militanti era stata cocente, rabbiosa. In breve tempo il suo potente apparato organizzativo si rimetteva in moto; crescevano e proliferavano gruppi e circoli politici di sinistra che si muovevano ben oltre la scuola, che era comunque, la preda più ambita, ossia, coltivare i ragazzi nel seme del comunismo (iniziazione in realtà attiva nelle scuole già nel ’68). Tuttavia alcuni di questi circoli erano in contrasto fra loro; a Torino i “Circoli del Proletariato Giovanile”, in contrasto con “Lotta Continua”, che era incline allo scontro e alla violenza, la “FGCI” ( Federazione Giovanile Comunista Italiana) che era entrata nei Licei. Alcuni di questi circoli, con militanti dalle teste calde che miravano allo scontro e alla violenza, erano in aperto contrasto con la forza governativa che frenava; il PC. La rottura definitiva di alcuni movimenti studenteschi con il PC era avvenuta il 17 febbraio 1977 con la contestazione in un comizio al sindacalista Lama protetto dalla polizia di Stato.
Intanto a fine gennaio 1977, a Torino il movimento studentesco si era già mobilitato contro la circolare Malfatti, che per gli studenti “…è un progetto che tende ad annullare una serie di conquiste ottenute nel ’69…” Il gruppo coordinatore era il Comitato di Agitazione; un “contenitore” di molti studenti che convivevano pur avendo idee politiche diverse. Secondo i ben informati il movimento universitario, era una sorta “tripartito” politico composto da Lotta Continua, Circoli del Proletariato Giovanile, e Federazione Giovanile Comunista Italiana (FGCI).
La componente Lotta Continua torinese era ben organizzata, con una politica chiara, determinata, aggressiva e contava un numero notevole di militanti attivi. Accusata da La Stampa e da Rinascita di non avere idee chiare se non essere ben determinati a distruggere l’Università, Lotta Continua rispondeva con un articolo sul suo giornale il 17 gennaio 1977. Lo scritto usciva per puro caso il giorno stesso della contestazione a Lama da parte degli studenti e studentesse de La Sapienza di Roma che manifestavano contro la riforma Malfatti, ma intendevano inoltre spiegare che il movimento aveva altre prospettive ben più motivate sul diffuso disagio sociale. Ecco che il cerchio si allargava, abbracciando ampi contenuti politici, dichiarando la propria autonomia ben oltre la scuola, “…nel senso che gli studenti partecipano alla lotta, a partire dalla propria situazione all’interno e fuori dall’Università e questo costituisce la base irrinunciabile di ogni confronto politico…”
Il 18 marzo 1977 il movimento dei Circoli del Proletariato Giovanile di Torino distribuiva un volantino in cui erano scritti gli obiettivi che il movimento intendeva perseguire e dai quali erano chiare le intenzioni di cosa ci si doveva aspettare:
«Noi abbiamo fatto le autoriduzioni nei cinema pagando solo ciò che potevamo e abbiamo deciso di occupare dei locali per trovarci, per discutere, per divertirci, perché non abbiamo ville al mare o in montagna […] I giornali borghesi ci accusano di essere provocatori e violenti per dividerci dagli operai delle fabbriche […] usano i carri armati per fermare i nostri cortei, quando sparano nella schiena del compagno Lorusso, quando si preparano con la complicità astensionistica del PCI a togliere le libertà costituzionali, quando parlano delle nostre sedi come covi pericolosi…»
La lotta per un’università che fosse effettivamente accessibile a tutti e strumento di crescita sociale, politica e culturale dei giovani, doveva necessariamente collegarsi a quella del lavoro.
Il comitato di Agitazione di Palazzo Nuovo di Torino specificava i punti del progetto di riforma dell’università con il quale tutti i partiti avrebbero dovuto confrontarsi. Era tutta una serie di richieste ben documentate in 8 punti, in cui l’ottavo chiedeva: l’elettività di tutti componenti degli organi di governo accademici in un corpo elettorale e presenza maggioritaria degli studenti e del corpo non docente.
Nelle proposte del movimento era chiara l’intenzione di unirsi ad altre forme di lotta operaie.
« Questo movimento esploso così inaspettatamente nelle università, ha legami sotterranei profondi con i nuovi bisogni maturati all’interno della crisi. Quei giornali che parlano tanto del ’68, più che al vecchio movimento studentesco, dovrebbero forse guardare al femminismo e al movimento dei giovani; capirebbero meglio alcune tematiche rispetto al modo di fare politica e di esprimersi di questo movimento. Su questo terreno è possibile ricercare un rapporto con tutti quei movimenti di massa che si oppongono all’attuale gestione politica e ideologica della crisi capitalistica; dai lavoratori precari, ai giovani che si organizzano contro la miseria, agli operai in lotta per una migliore condizione…»
Nelle università, nei licei e nelle scuole in generale, i movimenti politici si muovevano oramai con un’autonomia sorprendentemente spregiudicata. A Torino, il 4 febbraio 1977, all’Istituto Regina Margherita, gli studenti lavoratori attuavano il blocco delle lezioni per 3 giorni. Il 7 febbraio il preside chiedeva l’intervento della polizia per far entrare i “crumiri”. Per il 14 e il 15 febbraio era indetta una mobilitazione nazionale e il 16 un corteo di 15.000 studenti percorreva il centro della città. Un migliaio di giovani dei Circoli Proletari Giovanili bloccavano le strade intorno la stazione ferroviaria. Si era perso il senso della misura; i manifestanti volevano arrivare alla sede di Comunione e Liberazione e il Comune, che erano presidiati dalla FGCI la quale, con una sorta di servizio d’ordine, intendeva evitare violenze. In quest’occasione si consumava la frattura della FGCI con i Circoli Proletari e i movimenti di massa. Un’assemblea all’università chiudeva la giornata.
Verso fine febbraio e i primi di marzo erano occupati il liceo Einstein, il VII Istituto, il magistrale Gramsci e altri istituti superiori.
La protesta entrava anche nelle fabbriche; cortei e violenze, contraddistinsero il 1977.
Il 19 febbraio gli studenti attuavano il blocco della didattica nelle scuole contro la circolare Malfatti, proseguivano in un confronto con il consiglio di fabbrica della Singer. Il 12 marzo, dopo l’assassinio di Francesco Lorusso a Bologna, in tutta Italia si svolgevano manifestazioni studentesche con scontri violentissimi. A Torino sfilavano in migliaia, anche a Ivrea più di mille studenti marciavano in centro città, portandosi minacciosi davanti ai cancelli della Montefibre e dell’Olivetti: per rompere immediatamente con i fatti l’isolamento in cui il governo delle astensioni (il PC), cerca di chiudere la lotta degli studenti e dei giovani.
Il 1° marzo era convocato un coordinamento degli studenti medi e universitari per dare una risposta alla sparatoria fascista contro gli studenti del liceo Mamiani di Roma e il giorno successivo si formava un corteo di 5000 studenti, fra i quali gruppi dei circoli proletari giovanili. Si dava alle fiamme la sede di Democrazia Nazionale ed era assaltato l’hotel “Suisse”, che sovente aveva ospitato convegni del MSI; nel frattempo c’erano stati altri tentativi di incendiare la sede di Comunione e Liberazione. Duri scontri erano successi fra gruppi della FGCI, Autonomi e giovani dei Circoli, durante i quali era stata ferita gravemente una studentessa dell’ala radicale dei Circoli.
Il 3 marzo era convocato di nuovo il coordinamento operai-studenti per organizzare la manifestazione prevista per il 5 marzo contro il “governo delle astensioni” e il Comitato di agitazione aveva deciso di formare un servizio d’ordine per impedire provocazioni.
Nella realtà dei fatti, il PC si sostituiva alla polizia, con il muto assenso della stessa e a questo punto, scattava l’azione violenta organizzata di circa 250 funzionari del PC, tra i quali, erano stati riconosciuti Giuliano Ferrara, Piero Fassino e parecchi altri. Una vera battaglia seguiva con un nutrito lancio di pietre, intanto, Bruno Mantelli, presente con altri due studenti, vedeva Giuliano Ferrara, proprio lui, che stava scaricando da un’auto manici di piccone mentre gli studenti si avviavano in corteo verso l’Istituto Tecnico Avogadro per protestare contro l’aggressione. C’erano stati altri tafferugli con una decina di studenti feriti; ancora Bruno Mantelli ricorda che la polizia aveva lasciato «libera una via di deflusso verso l’uscita secondaria di Palazzo Nuovo su via Rossini, lasciando però mano libera a Ferrara di intervenire». Il giornale di “Lotta Continua” dell’8 marzo 1977 pubblicava, come prova, 4 foto in cui si vedeva chiaramente le “mazze” che venivano scaricate da un’auto FIAT in sosta nei pressi di Palazzo Nuovo, le stesse impugnate dai funzionari del PC governativo nel tentativo di dividere lo schieramento degli studenti.
I mesi di giugno e luglio furono caratterizzati da altre iniziative dure e provocatorie dei giovani e da studenti vicini all’Autonomia e ai circoli del Proletariato Giovanile che occuparono la mensa universitaria di via Principe Amedeo 47, adiacente a Palazzo Nuovo, chiedendo l’estensione del prezzo politico anche ai precari e ai disoccupati, mentre era riservato solo agli iscritti all’università.
Piero Fassino, parlamentare ex sindaco di Torino che a tutt’oggi pascola nei greggi del PD (exPC); un ex funzionario del PC, ovvero un incapace nullafacente che vive nel partito e di partito.
Giuliano Ferrara, un comunista intelligente che da anni dirige un giornale finanziato dal PC.
Due personaggi oscuri che hanno sempre preso e mai dato.
Nel 1983 (mio figlio frequentava il primo anno all’Einstein a Torino) i vari movimenti studenteschi si erano, in pratica, sgonfiati. Il PC, primo fomentatore di cortei e violenze, li aveva attaccati; abbandonati dai sindacati e dai capi e dirigenti di queste organizzazioni giovanili e movimenti di protesta oramai allo sbando, si erano dileguati. Questi loschi individui erano stati pronti a estraniarsi e darsi alla fuga per altri lidi; gente che aveva vigliaccamente creato un terreno colmo di rovine e poi lasciato ai soli militanti, studenti e altri che avevano, peraltro in buona fede, creduto in una nuova società, in una nuova scuola forse più giusta, più equa.
Il decennio violento 1969/79, dove il PC e la triplice sindacale (che ancora oggi imperversano) ne sono i maggiori responsabili, hanno portato in Italia disastri tali che ancora oggi e in futuro ne pagheremo gli altissimi costi materiali, morali, civili, educativi e la fuga della imprese, che con il tragico e ancora poco chiaro, assassinio di Aldo Moro, hanno aperto una ferita non rimarginabile a questo paese arretrato e illiberale.
a) Fonte per le informazioni e scritti in corsivo tratti dalla tesi di Alberto Pantaloni: “La dissoluzione di Lotta Continua nella Torino della seconda metà degli anni ‘70”. Univerità degli Studi di Firenze. Facoltà di lettere e Filosofia a.a. 2010-2011.
b) “IL PUZZLE MORO” di Giovanni Fasanella – Edizione Chiare Lettere di marzo 2018.
c) “Per una storia della scuola a Torino” a cura di Walter Pucci – Editore SEI Torino.
d) “Storia della scuola” -Dalla scuola al sistema formativo. Di Saverio Santamaita- Edit. Bruno Mondadori 1999.
Inserisco la prima pagina de LA STAMPA di Torino del 05/03/2019 che pubblica, all’interno, un lungo articolo sul programma PD del nuovo segretario signor Zingaretti. In sostanza si tratta di propositi di seconda mano; un rimestare vecchi principi e progetti mai applicati e che oggi “il partito” ripropone attraverso un uomo del PD per i suoi tesserati, non per tutti gli italiani. Un “piatto” riscaldato con il sentore di sola propaganda elettorale.
LA STAMPA, un giornale liberale con una grande storia, precipitato a far da stampella ad altri quotidiani sostenuti dalla facoltosa famiglia della sinistra italiana.
4) Il 4° Stato- La RAI del PD, azienda di sperperi del denaro pubblico
Potrebbe essere una potentissima macchina produttrice di cultura, arte, musica, canto, ad esempio riproporre seriamente l’operetta, il teatro e un importante supporto di conoscenze per studenti, giovani, ancora una scuola (purtroppo trascurata e negletta) d’artigianato d’arte e di tradizioni locali. Insomma, uno specchio per le bellezze non solo panoramiche del nostro paese ma un viaggio attraverso lo straordinario mosaico di lingue e tradizioni che l’Europa intera ci invidia. Ma per fare bene tutto questo servono uomini e donne con idee, non mercanti di parole vuote, gente che un’ottusa “casta” al comando da oltre un quarantennio ha collocato nei posti giusti solo per obbedire a “manager” allevati nei pollai dell’attuale generazione politica. Finanziamenti e sovvenzioni a pioggia a Enti fantasma, organismi pubblici creati su misura e partecipate che sfuggono dalle maglie degli ancor blandi controlli, se avvengono. Il tutto mirato a ben altro che all’oculatezza e all’efficienza ma un’allegra finanza a spese dei cittadini contribuenti. La RAI conta oltre 1500 “giornalisti” e un vero esercito di parassiti, presentatori mediocri senza il “mestiere”, volgari e parlanti non un buon italiano ma una sottolingua italo-romanesca.
Abbiamo visto (per fortuna nostra), solo a tratti lo scandaloso baccanale sanremese (con vecchie glorie che dovrebbero stare in salamoia), indegno a essere chiamato “festival”. Forse divertente per i soli attori urlanti sul palco e i vari intrattenitori ciarlieri, prodighi di una comicità banale, rumorosa, boccaccesca e volgare. Compartecipi della “festa” presentatori e presentatrici paludate ma dai comportamenti esacerbanti, mancanti di stile, ben lontani da quel savoir faire , accattivante degli indimenticabili Enzo Tortora, Corrado, l’inimitabile uomo dei quiz Buongiorno e l’abilità e il mestiere di Pippo Baudo. Tutti campioni di eleganza, buona educazione e veri padroni della magia del piccolo schermo.