Categoria: Economia (Pagina 2 di 2)

Italia, timida voglia di autonomia – APPROFONDIMENTO

A seguito del post precedente relativo alla Costituzione Federale, ne riporto un capitolo importante.

I requisiti necessari (di Gianfranco Miglio).

 

Una “vera” Costituzione Federale deve avere i seguenti requisiti. Se non li ha, non è federale (e quindi non produce gli effetti che da essa si attendono, ma crea invece danni incalcolabili).

  1. In primo luogo le regole che seguono devono derivare da un’apposita Costituzione. Non si possono innestare “elementi di federalismo” su di una Costituzione ispirata ad altro modello. La revisione costituzionale deve poi essere soggetta a procedure molto aggravate: discussa e approvata da coloro che detengono il potere nei diversi livelli e dai cittadini di tutte le unità (Cantoni) che compongono la Federazione.
  2. Il potere deve essere diviso sul territorio: nel senso che le funzioni di governo non siano concentrate in un solo fulcro di potere ma divise stabilmente fra almeno due aree. Queste possono essere più di due ma mai meno di due: i soggetti membri della Federazione (Cantoni) e la Federazione stessa. La diffusione del potere nella Costituzione Federale fa sì che in questa non esista alcun “sovrano”. “Sovrano” (secondo la più genuina concezione del costituzionalismo europeo) è soltanto l’ordinamento nel suo complesso. In questo senso i titolari di funzioni pubbliche, sono “partecipi” della sovranità. Ma quest’ultima, nella sua accezione tradizionale e solitaria, viene superata e sostituita, da momenti di decisione funzionale diffusi nell’intera Costituzione.
  3. L’autorità federale non deve essere un potere “superiore” o comunque separato dalle autorità che governano i “Cantoni”: deve nascere dall’assemblaggio dei governi cantonali. La forma di governo più adatta ad una Costituzione Federale, è perciò quella “direttoriale” (come nella Confederazione Elvetica): un Direttorio composto dai vertici stessi dei “Cantoni” e soltanto “guidato” da un Presidente eletto da tutti i cittadini. In tal modo, autorità cantonali ed autorità federale si combinano e si compattano, rendendo immediato il confronto delle decisioni e riducendo il percorso necessario per giungere a queste ultime.
  4. I Cantoni (ordinari e principali, fatto salvo dunque il caso delle Regioni a statuto speciale) non devono essere piccoli. E ciò per tre ragioni: a) per poter gestire efficacemente le vaste esigenze del governo; b) per poter resistere alle lusinghe o alle minacce (pretese “sostitutive”) dell’autorità federale ( come invece non è accaduto in USA ed in Germania); c) per poter formare, con i propri vertici, un Direttorio federale agile e funzionale.
    Una Federazione, costituita da molti piccoli soggetti (Regioni, Lӓnder e così via) è destinata rapidamente a trasformarsi in un sistema centralizzato. Hamilton chiedeva che gli Stati Uniti fossero composti da tanti piccoli “States”, perché pensava che la Federazione fosse lo stadio di transizione verso una Repubblica nazionale centralizzata. E se la Confederazione elvetica è rimasta tale, sebbene composta da ventitré piccoli Cantoni, ciò è accaduto perché questi ultimi sono sorretti e guidati da cittadini, irriducibilmente decisi, per secolare tradizione, a difendere la loro individualità: tutto il contrario delle nostre “Regioni”.
    Una federazione, formata da grossi Cantoni, apre la sola prospettiva possibile a una integrazione europea di tipo anch’essa “federale”: perché un reticolo di contratti (trattati) fra “grandi regioni” (Cantoni) al di sopra dei confini “nazionali”, costituirà il superamento del pluralismo negativo degli “Stati sovrani” oggi ancora imperante.
  5. Mentre in uno Stato unitario e accentrato si tende a comandare con atti d’imperio (provvedimenti e decisioni presi dall’alto), in un sistema federale, a tutti i livelli, si tende a operare con il sistema del contratto, cercando sempre il consenso delle popolazioni coinvolte. In una vera Federazione non c’è posto per l’autorità carismatica di un “demiurgo”, di un “salvatore della patria”, ma soltanto per “decisioni”, le quali vengono prese, dai titolari di pubblico ufficio, dopo che si è negoziato fino al limite del possibile.
    Egualmente non si ricorre alla regola della “maggioranza” per troncare un eventuale contrasto. Perché coloro che si trovano in “minoranza” devono essere convinti prima di dover rinunciare alla loro opzione; verso coloro che sono in minoranza non si deve usare la violenza del numero ma la persuasione del negoziato.In una Federazione non c’è spazio per il principio “gerarchico”: autorità cantonale (e prerogativa municipale) da un lato e autorità federale dall’altro, non costituiscono una “gerarchia” ma sono “parimenti ordinate”. Da qui deriva che il principio di “sussidiarietà” è intimamente opposto allo spirito del federalismo, ed è invece funzionale alla creazione – o alla restaurazione – di un sistema unitario e centralizzato.Sussidiarietà e gerarchia sono sinonimi.
  6. Il punto cruciale di ogni ordinamento federale è l’esistenza di procedure, costituzionalmente organizzate e garantite, che – salvaguardata la competitività implicita del sistema, ed il suo riposare su di un confronto senza fine – producano decisioni normative e governamentali certe e in tempi ragionevolmente brevi. Dopo avere discusso fino in fondo e confrontato le posizioni divergenti, si devono operare scelte non equivoche e per quanto possibile precise. Le istituzioni della Repubblica federale devono attribuire questa responsabilità decisionale a persone e a collegi precisi, situati nei diversi livelli dell’ordinamento.
    Tali procedure controbilanciano il carattere contrattuale, competitivo e aperto del sistema federale. Discutere sempre fino in fondo ma poi, in tempi certi e prestabiliti, decidere.
  7. Un ordinamento federale è alimentato e sorretto da due vocazioni, da due inclinazioni ideali dei suoi cittadini, La prima di queste è un profondo interesse e rispetto per le diversità: per ciò che – sul piano dei costumi, delle tradizioni culturali, dello stile di vita – differenzia le persone e le loro aggregazioni. La pretesa di rendere l’umanità omogenea è profondamente estranea al vero federalista. Perché è un conto battersi affinché i diritti civici e individuali siano estesi a tutti gli uomini e le donne; un conto è invece pretendere che quest’uguaglianza giuridica sia la base per far diventare uniformi ed omogenei tutti i popoli che la natura ha reso – e continua a far diventare – diversi. Così, mentre uno Stato unitario ed accentrato, mira a rendere tutti i cittadini eguali, omogenei e diretti dall’alto, una Costituzione federale è fatta per conservare, tutelare e gestire le diversità.
  8. La seconda vocazione di una convivenza federale è il culto della concorrenza e della competizione. E ciò accade perché esiste una stretta relazione tra federalismo ed economia di mercato. Come tutte le economie “amministrate” e collettive, presuppongono una centralizzazione dei poteri ed una struttura monocratica, così al contrario l’economia di mercato, basata sul pluralismo e sulla libera iniziativa dei soggetti, trova il suo clima congeniale nei sistemi politico-amministrativi federali. Alla competizione dei soggetti economici corrisponde la competizione ed il confronto (incanalato nella Costituzione) fra i soggetti politici della Federazione (Cantoni ed altre unità legittimate).

Se si analizzano le cose con la dovuta attenzione, si deve costatare che tutti i requisiti essenziali per il successo di un moderno sistema federale, finora analizzati, sono già venuti emergendo, “di fatto”- almeno qui in Italia – negli ultimi quarant’anni; e si sono profilati nel contesto della Costituzione del 1948, man mano che questa si andava deformando. Così che l’adozione di una Costituzione federale oggi rappresenta la razionalizzazione e la traduzione in positivo, di tutti i fenomeni negativi e degenerativi che si sono venuti accumulando negli scorsi decenni. Paradossalmente la trasformazione federale è stata preparata dalla decadenza della prima Repubblica.

Condividi questo articolo

Italia, timida voglia di autonomia

Novembre 2018

Cosa pensano gli italiani dell’EURO e dell’EUROPA? Ai politici importa qualcosa?

In questo periodo convulso e confuso vari politici importanti del nuovo governo si sono affrettati a dichiarare all’Europa (che non è nemmeno una federazione) che “la moneta unica non è in discussione e nessuna uscita dall’Europa”, Giusta o sbagliata, è un’opinione dei politici, non dei cittadini. L’auspicato cambio di governo c’è stato, le nuove direttive politiche hanno creato un terremoto e la situazione merita una particolare attenzione. Tuttavia l’abitudine a immedesimarsi nei padroni del paese, si è ben presto rivelata, a costoro una domanda: ma voi sapete cosa pensano realmente gli italiani dell’EURO e dell’EUROPA? L’Inghilterra ne è uscita perché è stato il voto referendario, democratico del popolo inglese a volerlo, questa si chiama “democrazia partecipativa” di un paese maturo e civile, e ricordo per i corti di memoria, che gli inglesi per questa loro decisione sono stati insultati pesantemente da vari politici di alcuni Stati europei, la prima è stata l’Italia politica delle sinistre, non dai cittadini.
A proposito dell’EURO riporto in questo articolo di Byoblu una confessione di Giuliano Amato che ha dell’incredibile ma che si è rivelata e rivela, al presente, tutta la sua tragica verità. I veri motivi di questa sorta di “confessione” sono oscuri, certamente non per scrupoli di coscienza.
La moneta unica e l’Unione Europea, molto compromessi da politiche lontane dai cittadini, colpiscono maggiormente un’Italia sfruttata e impoverita; essa paga più di altri Stati membri la perdita della sua sovranità nazionale.

 

AMATO CONFESSA: Ecco come vi abbiamo portati nell’euro. Siamo alla follia.

pubblicato il 7 gennaio 2015 – 4.40 da Claudio Messora BYOBLU

Allucinante confessione di Giuliano Amato, deposta come se si trattasse di una marachella qualunque e non della vita di milioni di persone: sapevano, li avevano avvisati, avevano previsto tutto ma andarono avanti lo stesso! Portarono questo paese nell’euro pur consapevoli che difficilmente avrebbe funzionato. Ma non è una lezione di storia, non è il racconto della decadenza del Sacro Romano Impero. E’ qualcosa che sta succedendo adesso, qui. Andrebbe raccontato con ben altro sentimento di contrizione, non con questa nonchalance. Hanno giocato. Hanno perso, ma il debito di morte dobbiamo pagarlo noi. Siamo alla follia! Ecco le sue allucinanti parole.

“Noi abbiamo fatto una moneta senza stato. Noi abbiamo avuto la faustiana pretesa di riuscire a gestire una moneta senza metterla sotto l’ombrello di un potere caratterizzato da quei mezzi e da quei modi che sono propri dello Stato e che avevano sempre fatto ritenere che fossero le ragioni della forza, e poi della credibilità che ciascuna moneta ha.

Eravamo pazzi? Qualche esperimento nella storia c’era stato di monete senza Stato, di monete comuni, di unioni monetarie, ma per la verità non erano stati molto fortunati. Perché noi, quando ci siamo dotati di una moneta unica, abbiamo pensato che potevamo riuscirci in termini di Unione, e non facendo lo Stato europeo? Avevamo già costruito un mercato economico comune fortemente integrato. Più o meno avevamo un assetto istituzionale che non era quello di uno Stato ma certo era qualcosa di molto più robusto di quello che usualmente c’è a questo mondo: la comunità europea, l’Unione Europea, col suo Parlamento, la sua Commissione, i suoi Consigli. Abbiamo anche previsto di avere una banca centrale.

Però, sapete com’è, abbiamo deciso che trasferire a livello europeo quei poteri di sovranità economica che sono legati alla moneta era troppo più di quanto ciascuno degli stati membri fosse disposto a fare. E allora ci siamo convinti, e abbiamo cercato di convincere il mondo, che sarebbe bastato coordinare le nostre politiche nazionali per avere quella zona, quella convergenza economica, quegli equilibri economici-fiscali interni all’Unione Europea che servono a dare forza reale alla moneta.

Non tutti ci hanno creduto. Molti economisti, specie americani, ci hanno detto allora:

Guardate che non ci riuscirete! Non vi funzionerà! Se vi succede qualche problema che magari investe uno solo dei vostri paesi, non avrete gli strumenti centrali che per esempio noi negli Stati Uniti abbiamo, che può intervenire il governo centrale, riequilibrare con la finanza nazionale le difficoltà delle finanze locali. La vostra banca centrale, se non è la banca centrale di uno Stato, non può assolvere alla stessa funzione cui assolve la banca centrale di uno Stato, che quando lo Stato lo decide diventa il pagatore senza limiti di ultima istanza.

In realtà noi non abbiamo voluto credere a questi argomenti. Abbiamo avuto fiducia nella nostra capacità di autocoordinarci e abbiamo addirittura stabilito dei vincoli nei nostri trattati che impedissero di aiutare chi era in difficoltà. E abbiamo previsto che l’Unione Europea non assuma la responsabilità degli impegni degli Stati; che la Banca Centrale non possa comprare direttamente i titoli pubblici dei singoli Stati; che non ci possano essere facilitazioni creditizie o finanziarie per i singoli Stati. Insomma: moneta unica dell’Eurozona, ma ciascuno deve essere in grado di provvedere a se stesso.

Era davvero difficile che funzionasse, e ne abbiamo visto tutti i problemi.”

Nel dissesto italiano forti segnali di ritorno alla voglia di autonomia.

Da un certo tempo compaiono su internet diversi simboli politici inneggianti all’autonomia, nei post si leggono parole gravi, dure ma giustificate. Il fatto che molti cittadini non si “sentono” più  italiani ha come causa prima un numero record di fallimenti avvenuti nel nostro paese almeno negli ultimi vent’anni; un ben triste primato; come seconda causa, essere ignorati, mai interpellati attraverso consultazioni pubbliche su accadimenti importanti che nel bene e nel male coinvolgono sempre e soltanto la vita degli italiani, come la sconsiderata e costosa questione degli extracomunitari ma l’aspetto più vergognoso è il crollo nell’istruzione scolastica scesa a livelli sotto lo zero. I bambini, i giovani ci guardano, vedono e domani ci giudicheranno dall’estero, perché il loro paese non ha saputo dar loro un lavoro.

Sembra di ripercorrere la fine degli anni settanta quando i movimenti autonomisti facevano il loro ingresso nel mondo politico, in particolare nel Nord dell’Italia. A quel tempo Torino, il Piemonte, indi, il paese tutto, erano molto diversi, con cittadini di tutt’altra pasta e nonostante le sfiancanti lotte sindacali, l’economia ancora marciava contando su un importante settore artigiano e più in generale, di una manualità molto specializzata; insomma, c’era la cultura del lavoro, a partire dalla prima scuola e si pensava al futuro con ottimismo.

Ora, di tutto questo, non rimane più nulla; bugia, ci rimangono milioni di disoccupati.

Nell’odierna Italia improduttiva, facilona e canterina, senza i prestiti Europei elargiti a piene mani e senza controlli dall’italiano signor Draghi, sarebbe fallita almeno tre o quattro lustri fa; ma era imperativo accogliere gli extracomunitari e l’Italia papista e cattolica allargava le braccia e accoglieva tutti (meno il vaticano). Nel solo Piemonte si contano ben 40 (quaranta) centri di accoglienza con alcune migliaia di extracomunitari, che con la nuova legge dovranno essere rimpatriati. Orbene, oggi, a quanto ammontano i costi? Quali risposte dare ai cittadini?

Questo nuovo Governo, formato da una composizione politica invero paradossale (nato il 31 maggio 2018), tenta tuttavia di rimanere a galla in quest’oceano d’intrighi e di sabbie mobili ma ha tutti contro, dalla sconfitta maggioranza PD, che con un’opposizione improvvida, rabbiosa, critica invece di tacere per vergogna, a contro persino l’Europa plutocratica di Bruxelles. E pensare che sia una sia l’altra, dovrebbero essere indagati e messi sotto inchiesta partendo dal losco affare libico degli “scafisti mercenari da carico e scarico a mare“, veri assassini ancora oggi liberi di agire. Orrori che sono stati, di fatto, la pietra tombale della vecchia Europa, dimostrando, invero, com’essa, oramai in netto declino, sia alla fine del suo percorso storico.

Per il declino dell’Italia non servono numeri, tutte le infamie sono lì visibili, concrete, le conseguenze tutto il mondo le può costatare nella tragedia compiuta delle alluvioni che hanno mostrato, nelle crude immagini televisive, l’immane sfascio geologico con montagne di rifiuti fumanti in ogni angolo del paese. Colpevole la mancanza di adeguate strutture d’incenerimento, d’interventi manutentivi ai boschi di tutta l’area montana e di pianura, alle strade, fiumi, torrenti, ruscelli, paesi e città. Nulla sfugge al disastro ambientale e aggiungo organizzativo dei trasporti pubblici, delle ferrovie, dei nuovi edifici scolastici che crollano e fanno vittime, del sistema scolastico che deve istruire e preparare uomini, non burattini con la bandiera rossa, una giustizia che non giudica ma troppe volte assolve i colpevoli incitando a delinquere e la magistratura? Un istituto geriatrico che procede a tentoni. E che altro? Forse certe banche. Chissà…

Una catena d’intrighi, menzogne, fatti distorti coperti, corruttela; complici una stampa di parte e le istituzioni. Si tenta di manipolare, rallentare le inchieste, nascondere fatti indifendibili, opera dalla precedente maggioranza PD di governo, composta dai voltagabbana, traditori e piccoli partiti di facciata, tutti assoldati per fare numero. Compagine variegata che mascherata dietro altri simboli, fin dai primi anni’70, è la vera causa del declino di un’Italia, spolpata e impoverita. Costoro con una faccia di bronzo e un’arroganza inaudita incolpano il governo Conte, nato il 31 maggio 2018 (sei mesi fa), che causa disoccupazione e mancata creazione di posti di lavoro, sono menzogne indifendibili.

Il dramma del ponte di Genova è la prova di un continuum del sistema consolidato italiano di complicità, di corruzione, d’impunità. Un filo ininterrotto che ci riporta all’immane tragedia del Vajont, il 9 ottobre del 1963 che aveva provocato circa ben 2000 vittime. In carica c’era il Governo Leone. Com’è potuto succedere impunemente tutto questo? Quale risposta a tali domande? Altri interrogativi senza risposta, come da sempre.

Ricordo ancora, per i poveri di memoria, la storia ingarbugliata della FIAT (che non è un piccolo negozio di carabattole), uscita definitivamente dall’Italia nel più scandaloso silenzio dei politici e soprattutto, della borghesia industriale piemontese. Vedremo gli accadimenti del dopo Marchionne.

Ci ritroviamo una nuova società composta in buona parte da giovani immaturi, incapaci di affrontare responsabilità, a superare le difficoltà, inidonei a creare e fare lavoro; per loro si presenta  un futuro da disoccupati o dipendenti a vita. L’errore politico più grave è che la colpa, se si può parlare di colpa, non è tutta dei giovani. In Piemonte i nostri ragazzi sono cresciuti fin dalla scuola materna con la dottrina di stampo comunista che promuove la pianificazione, ossia, tutti uguali, tutto facile, che rifiuta l’individualismo, la competizione, la meritocrazia, niente educazione civica, tantomeno comportamentale; da loro cosa ci si può aspettare? Sono almeno due le generazioni allevate nella bambagia, grazie anche a un colpevole permissivismo, ai troppi denari spesi male dilapidando i risparmi di una vita degli improvvidi nonni.

Come salvare questa Repubblica dalla politica centralista nata dall’inganno e che nell’inganno affonda sempre più in basso? Un paese, il nostro, che è, nella realtà, da sempre diviso, volendo applicare a tutti i costi sistemi di governo unificanti in un’Italia troppo lunga, troppo diversa geologicamente, diversa nelle amministrazioni regionali, provinciali, comunali, diversa nei costumi, nel tipo di vita, nelle abitudini, nel lavoro, nello stesso sistema di fare e creare un lavoro che sia produttivo e consono alla tipologia del luogo e degli abitanti.

A questo punto, rivedendo con più attenzione la storia di questa Repubblica, come vecchio piemontese, mi si consenta di rifuggire da qualsiasi pensiero positivo sul futuro della nostra macilenta, improbabile “Unità d’Italia”. I suoi sostenitori dimostrino quali e dove sono finiti gli autentici valori patriottici. Questa cosiddetta “Unità”, una buona parte del paese non la voleva affatto e oggi ne costatiamo le profonde contraddizioni, già ben note e palesate da politici di consumata esperienza a partire dal lontano 1848.

Una sorta di puzzle di piccoli Stati che ognuno si governava a modo suo; così era l’Italia nel 1847/1848 e poi l’unificazione. E ancora ai nostri giorni, dopo 170 anni, le stesse realtà di quel tempo sono uguali, con gli stessi problemi, poco o nulla è cambiato.

Immagine da liberatiarts.it

 

Immagine da slideplayer.it

 

1848 si fa l’Unità d’Italia, un palese pretesto Risorgimentale

Il crollo della Rivoluzione francese non era stato la fine della sua ideologia, al contrario essa aveva innescato forti tendenze rivoluzionarie nelle potenti borghesie italiane, soprattutto al NORD del paese, ed erano pronte e preparate al cambiamento, promuovendo il dibattito politico sullo Stato, la forma e la gestione del potere. Un vento di libertà muoveva le classi colte e le ricche borghesie, non rivolte a smuovere l’assolutismo dello Stato sabaudo, ma protese alla ricerca di soluzioni politiche del paese che, per quei tempi, erano rivoluzionarie. L’idea era di porre un’alternanza al sistema retto dalle monarchie conservatrici, appoggiate da vetuste oligarchie aristocratiche e da una borghesia decisa a condividere il potere con i decadenti ceti nobiliari. Le monarchie, tuttavia ancora potenti, si trascinavano questa coda, dalla quale emergevano le ambizioni delle potenze economiche e da frange d’intellettuali dalle idee rivoluzionarie, pronti e decisi a gestire la situazione anche in solitudine. Un documento redatto per iscritto, o meglio, una carta costituzionale era parsa lo strumento idoneo per fissare le regole opportune per un patto fra cittadini e governo. Una scelta che non era stata invero, né difficile, tantomeno fantasiosa; la linea politica unitaria di Cavour era di una salda continuità con la monarchia sabauda, sfruttando il modello del Regno di Sardegna e quale carta costituzionale era riproposto lo Statuto Albertino del 1848, concesso forzatamente e con riluttanza da Carlo Alberto.

Una sorta di “rielaborazione”, senza compagine costituente, aveva in pratica ripresentato l’Editto Sardo del 1848, una costituzione che era un palese paradosso, poiché il documento esprimeva la volontà politica del governo a ergersi a rappresentante di tutto un popolo che, tuttavia, era completamente escluso da ogni forma di potere. Potere esercitato da una monarchia con una visione di amministrazione statuale, uniforme, omogenea e  fortemente accentrata di chiara origine giacobina. È sufficiente osservare la composizione della legge elettorale del 1848, ove la Camera rispecchiava la società subalpina del tempo, che, con il sistema elettorale fondato sul metodo “uninominale”, esercitava una sicura egemonia nel Parlamento e nel paese. Infatti, la prima Legislatura era composta in prevalenza da liberi professionisti, avvocati, uomini di legge, magistrati e funzionari di stato, pochi gli ecclesiastici (cinque in tutto) e una lieve presenza di proprietari di terre ( trenta su 204 deputati).

“Alle prime elezioni politiche generali per la formazione della Camera dei Deputati svolte il 27 gennaio 1861, sono iscritte al voto 418.696 persone pari  all’1,9% dell’intera popolazione italiana di quasi 22 milioni di abitanti. Votarono effettivamente 239.583 elettori, pari al 57,2% degli aventi diritto, meno, quindi dell’1% del popolo. Interessanti sono anche i dati sulla composizione sociale degli eletti: 85 erano principi, duchi o marchesi; 72 avvocati; 52 tra medici, ingegneri o professori universitari; 28 ufficiali militari di rango elevato”. Dati forniti Da G. Volpe, da la “Storia Costituzionale degli italiani”, cit. 21.

Emergeva, tuttavia, in tutta la sua gravità, l’enorme problema da risolvere: la questione meridionale.

C’erano le piccole e grandi borghesie arroganti e prepotenti proprietarie dei latifondi che minacciavano di far sollevare i contadini; c’era da combattere e reprimere il brigantaggio, una piaga che inaspriva i rapporti fra Nord e Sud; c’erano forti perplessità sul concedere le autonomie a Napoli e alla Sicilia e c’erano le luogotenenze che funzionavano male per l’estesa, precedente, disorganizzazione locale. A Torino, da Cavour, arrivavano sempre più frequenti i giudizi negativi degli uomini mandati in quelle zone.

«Un giudizio molto crudo espresso nel suo carteggio da Giuseppe La Farina, il Segretario della Società Nazionale, una delle centrali più attive della propaganda antiregionalistica, che auspica la chiusura definitiva delle «cloache governative di Napoli e Palermo»

Vesperini in “L’organizzazione dello Stato unitario”; nota 38 pag, 69.

Nel 1863, in una lettera inviata alla moglie, Nino Bixio scrive: «Che paesi si potrebbe chiamar dei veri porcili (…). Prima che questi paesi giungano allo stadio di civiltà in cui siamo noi (…) abbisognano anni e lunghi anni. Non strade, non alberghi, non ospedali, nulla di quanto si deve oggi nella parte meno avanzata dell’Europa: poveri paesi».

Giulio Vesperini in “L’organizzazione delle Stato unitario”, nota 39 pag. 69. Il brano è riportato in G. Ruffolo, “Un paese troppo lungo” Torino Einaudi 2009, 145.

 

(Nota personale: la prima frase “Che paesi si potrebbe chiamar dei veri porcili…” è la descrizione esatta di come sono ridotte, oggi, nell’anno 2018, molte zone di Torino; una, ad esempio è la Barriera di Milano, altra, è il Lungo Dora Agrigento. Ciò che vede l’ignaro visitatore in quel tratto di strada è uno sconcio indecente e incredibile per una città che si auto-elegge con altezzosa pomposità “Capitale della cultura”. Ero insieme a un amico inglese in visita alla città, ed è rimasto esterrefatto di cosa vedevano i suoi occhi; cose allucinanti, da non credere. Frotte di extracomunitari seduti qua e là che chiacchieravano fra sporcizia varia, lattine, bottigliette di birra vuote e rifiuti di ogni genere, mentre uno di questi, dal parapetto, orinava nella Dora. La città in declino? Torino non c’è più. Il centro storico, il cuore della città e le sue barriere; per descriverle oggi uso il termine di Bixio, che è il più appropriato; “sono un porcile”. Ma…i torinesi cosa dicono?

Impossibile, non veritiero, bugiardo? Andate e osservate. I luoghi sono in Torino, non su Marte).

 

Vari aspetti riguardanti la prevalenza del sistema centralistico, piuttosto che autonomista o regionalista, erano attinenti alla struttura sociale del paese: da un lato la società civile, in particolare al Sud, era povera e arretrata, anche se aveva dato valenti filosofi e giuristi (Mancini, Spaventa, Crispi, Pisanelli), per contro, il Nord aveva gente esperta nelle tecniche sulle proprietà rurali e altra attenta e aperta alle moderne correnti europee (Jacini, Correnti, Ricasoli, Minghetti). In sostanza, era chiaro che le necessità politiche e l’attitudine all’autogoverno erano molto diverse nelle differenti zone del paese, «…e l’unità con il Sud indeboliva, anche sotto questa forma, le tendenze liberistiche e autonomistiche che faticosamente si erano fatte strada in Piemonte, Lombardia, Toscana ed Emilia. Altro aspetto, la classe dirigente di quegli anni era ristretta e poco propensa ad allargare le basi del nuovo Stato. È anche da tener conto che i parlamentari di origine meridionale erano in gran parte esuli che avevano interrotto ogni legame con i quadri dirigenti dei rispettivi paesi di origine, per cui, la loro sorte personale dipendeva dalla continuità dell’egemonia piemontese del nuovo Stato». Giulio Vesperini in “L’organizzazione dello Stato unitario”. Interessante è da notare che la secolare borghesia del Sud, oramai ridotta a poche famiglie, ma ancora molto potenti, avevano appoggiato la politica centralistica che, insieme alle forze liberali del mezzogiorno, era rimasta l’unica forma di accentramento amministrativo per loro accettabile atta a concepire l’Unità d’Italia.

«Governo, parlamento e correnti politiche nella genesi della legge 20 marzo 1865, cit., secondo il quale, il contrasto tra i sostenitori delle istanze centralistiche e i fautori delle autonomie dura fino al 1865 ed oltre, ma si tratta di un contrasto teorico, dal momento che la minoranza s’impegna nei confronti della maggioranza a non sviluppare nel dibattito in aula le proprie tesi per arrivare quanto prima all’approvazione della legge e rendere più agevole, in questo modo, la soluzione degli elementi di turbativa esistenti in quel momento nel paese. Con questa precisazione, va ricordato, tuttavia, che nei dibattiti e nelle proposte, anche degli anni immediatamente successivi alle leggi di unificazione del 1865, è costante il riferimento alle urgenze di “discentramento”, anche nei più rigorosi accentratori». Giulio Verperini; da “L’organizzazione dello Stato unitario”, con nota di R. Ruffilli relativa alle autonomie.

L’Unità era compiuta in breve tempo, quasi con il sistema del “bastone e la carota” e questo era stato il risultato finale della lunga serie di plebisciti: dal 1860 al 1870, nei quali, come già affermato, il popolo ne era stato completamente escluso.

Vedere le tabelle sottostanti tratte da: “Storia costituzionale d’Italia 1848/1948” di Carlo Ghisalberti – Editore Laterza.

 

Immagine tratta da “Storia costituzionale d’Italia 1848/1948” di Carlo Ghisalberti – Editore Laterza

 

Immagine tratta da “Storia costituzionale d’Italia 1848/1948” di Carlo Ghisalberti – Editore Laterza

 

Le ragioni di una Federazione di Stati italiani.

Il supporre che l’Italia, divisa com’è da tanti secoli, possa
pacificamente ridursi sotto il potere d’un solo è demenza.
[…] All’incontro l’idea dell’unità federativa, non che esser
nuova agli italiani, è antichissima nel loro paese e connaturata
al loro genio, ai costumi, alle istituzioni, alle stesse condizioni
geografiche della penisola

Vincenzo Gioberti. “Del primato morale e civile degli italiani”.
(Brano tratto da RIVISTA online, anno VII n° 2- Scuola superiore dell’economia e delle finanze.

La parola “federalismo” era pressoché sconosciuta dai politici italiani di quel tempo, in genere si discuteva di “discentralizzazione”. In un discorso alla Camera del 2 luglio 1849, il Cavour, in risposta all’onorevole Josti sull’argomento della riforma amministrativa, si dichiarava d’accordo di operare una “discentralizzazione” in quel senso, precisando «che la centralizzazione amministrativa è a mio avviso una delle più funeste istituzioni dell’era moderna…». Il Cavour riconosceva le falle del sistema ma le veementi battaglie politiche seguirono, nel tempo, altre vicende e il Cavour moriva proprio nel momento decisivo più delicato. (La frase tra virgolette è presa dal primo volume dell’epistolario del Chiala da “Lettere edite ed inedite” del 1883).

È tutta una storia politica ricca di colpi di scena incalzanti e interessanti ma troppo lunga e complicata, per cui, mi limito a indicare i concetti base su forme di “federalismo” che costituivano l’opposizione alla monarchia sabauda e più recenti, alcuni progetti di qualche anno fa.

Fra i primi a usare questo termine erano stati Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari. La loro idea di federalismo prevedeva l’autonomia nel rispetto delle differenze degli Stati regionali preunitari, in senso democratico e repubblicano, mentre Vincenzo Gioberti e Cesare Balbo optavano per un federalismo  moderato che prevedeva l’unione degli Stati regionali coordinati in una lega federale con a capo il Papa. Un altro progetto federalista (in verità un misto federal-monarchico) prevedeva la formazione di tre regni: il primo con il Piemonte, il Lombardo Veneto e Parma; il secondo con la Toscana, Modena e lo Stato pontificio; il terzo con Napoli quale sede del sovrano e Palermo sede del Congresso. Uno statuto e una lega doganale avrebbero dovuto unire i tre regni. (Spunti tratti da la RIVISTA online n° 2 ANNO VII della “Scuola superiore dell’economia e delle finanze” ).

Nell’Europa delle potenti monarchie e in particolare quella sabauda, era impensabile immaginare un’idea di Stato Federale, anche se l’idea del Cattaneo, più ancora di quella del Ferrari, era molto più vicina al popolo. Infine, attraverso i plebisciti, vinse la continuità monarchica in tutta Italia, escludendo, come sempre, il popolo. Senza una pluralità d’individui, “provenienti dal basso”, espressione che piaceva e piace al potere, non c’è democrazia, tantomeno compartecipazione.

Tuttavia a questo punto credo utile un chiarimento sul termine “popolo”, che, nell’Ottocento, aveva un significato ambiguamente impreciso; in generale s’identificava la nazione tutta. L’ambito storico nel quale succedono questi accadimenti è, infatti l’Ottocento, periodo in cui non esisteva un proletariato industriale e neppure “agricolo”, quindi in questo senso il “popolo”, erano le classi sociali medie e inferiori, che tentavano di lottare per il riconoscimento della loro esistenza politica. Per Cattaneo “popolo” significa una certa maniera di essere, un certo comportamento politico ed una certa funzione storica. “Qualsiasi ceto, anche la nobiltà, quando agisce nella pluralità, è “popolo”. Da “Introduzione a Cattaneo” di U, Puccio pag. 9/11. Einaudi Editore.

Carlo Cattaneo aveva concetti politici troppo avanzati per il suo tempo; egli riteneva che la federazione fosse un mezzo per promuovere l’autonomia, l’autogoverno e nel contempo sviluppare lo spirito di unità nazionale, pur rispettando le diversità.

Sul comunismo la sua idea era severa e intransigente, soprattutto attuale: «Il comunismo è quella dottrina che demolirebbe la ricchezza senza riparare alla povertà; e sopprimendo fra gli uomini l’eredità e per conseguenza la famiglia, ricaccerebbe il lavorante nell’abiezione delli antichi schiavi, senza natali e senza onore». “Stati uniti d’Italia” pag. 106, nota 44.

Per capire lo straordinario ingegno dell’uomo, non solo politico, dovrebbesi leggere il suo libro “Stati uniti d’Italia” con prefazione di Norberto Bobbio – Editore Chiantore Torino 1945.

Cattaneo nel libro si appoggia al “Programma del Cisalpino” per un’idea di federazione, peraltro ben abbozzata ma non definita, mentre il teorico federalista Giuseppe Ferrari espone con chiarezza la sua visione di Stato federale. Eppure il federalista per antonomasia è da sempre il Cattaneo che in politica era un uomo pratico con idee chiare, autore di una monumentale produzione di scritti su vari settori scientifici.

Norberto Bobbio apre la prefazione del libro (di ben 106 pag. note comprese) con queste parole: «Le grandi crisi aprono inaspettati spiragli sulla storia degli uomini e delle idee. Volti che nella loro apparente sanità nascondevano alla vista un germe di malattia mortale, oggi appaiono consunti, recanti il pallore del disfacimento; edifici che sembravano, nella loro esteriore saldezza sfidare l’urto del tempo, oggi scricchiolano o crollano come castelli di carta. La crisi è il momento in cui l’accumularsi dei piccoli debiti differiti e non mai pagati, produce il fallimento irreparabile; è il punto in cui la piccola deviazione non arrestata a tempo si allarga in un’apertura smisurata, che nessun passo d’uomo è più in grado di varcare…». Sembra di leggere un breve saggio scritto par ieri e non nel 1945 alla fine di una lunga guerra, per i parallelismi con il dissesto politico e  finanziario dell’Italia odierna attuato da governi accentratori con il collaudato sistema di: non armi che sparano e uccidono ma uomini che uccidono con menzogne e truffe.

 

Anno 2014- Un progetto federalista del PD

Due deputati PD: Roberto Morassut e Raffaele Ranucci, hanno preso carta e penna per ridisegnare la cartina d’Italia. Ne è uscito uno stivale diviso in dodici aree omogenee per “storia, area territoriale, tradizioni linguistiche e struttura economica”. Alcune sono frutto di una semplice addizione (il Triveneto con Friuli, Trentino e Veneto, oppure l’Alpina con Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria). Altre invece mettono assieme province di Regioni diverse: il Levante “ospita” Puglia, Matera e Campobasso, mentre la Tirrenica tiene assieme Campania, Latina e Frosinone. Solo Sicilia e Sardegna manterrebbero il privilegio dello statuto speciale.
(Tommaso Ciriaco, da “la Repubblica” del 23/12/2014).


Progetto troppo semplicistico, irrealizzabile, d’ispirazione politica di sinistra, sbilanciato nei ruoli affidati alle regioni. Incomprensibile il mantenere lo statuto speciale solo a Sicilia e Sardegna e perché non le altre? Un disegno nato piuttosto come confederazione, un sistema che ne complicherebbe in modo definitivo la governabilità, in quanto, in sostanza, è mancante di un organo ufficiale centrale di coordinazione posto al di sopra dei singoli interessi dei vari Stati membri o Nazioni, come possiede una vera federazione.
Un progetto interessante del 1994 e sempre valido è quello di Marcello Pacini, nel suo libro edito dalla Fondazione Giovanni Agnelli. Esso invita a meditare su una scelta; ha per titolo “Scelta federale e unità nazionale”. Era stato ampiamente illustrato anche da “la Repubblica” del 29 ottobre 1994 (già inserito tempo addietro nel BLOG). Sotto, riporto nuovamente una parte della pagina.

Il modello federativo di Gianfranco Miglio del il 14 dicembre 1994

Dal primo dopoguerra a oggi l’Europa ha ceduto non solo in democrazia ma soprattutto sulla tutela degli stessi cittadini europei, ignorandoli; si è mutata in un centralismo plutocratico affetto da nepotismo. Intanto l’Italia, da vari decenni governata in toto dalle sinistre, si è pietrificata in un sistema accentrato, consolidando lo status di Repubblica = governo, cosa pubblica, che di pubblico ha solo una dilagante corruzione. C‘è stato un solo uomo politico convinto repubblicano, un eccezionale economista piemontese, vero “patriota”, che ha agito sempre con saggezza, esperienza e lungimiranza nel solo interesse dell’Italia, salvando la Lira nel primo dopoguerra; ed è stato Luigi Einaudi, dopo di lui, l’oscurità, le tenebre più profonde. Oggi ci ritroviamo un paese asfittico, sull’orlo del fallimento, con un debito pubblico gigantesco (supera i 2331 miliardi di euro) che ancora s’incrementa fra prebende e finanziamenti europei, in verità, meglio definiti come: “ricatti’.
L’unica soluzione a tutto questo è riprendere l’idea di Costituzione Federale già proposta dal Cattaneo, dal Ferrari, dalla chiesa cattolica e da altri. Una vecchia formula sempre riposta in un cassetto per mancanza di volontà, capacità, concretezza, da parte di una consorteria di partiti con tutt’altri interessi.
In Italia dopo Carlo Cattaneo, il pensiero federalista è caduto nell’oblio, come il concetto di “nazione”, proprio a causa della “febbre” unitaria che aveva investito il paese, sino all’avvento della LEGA NORD; ma questo è un altro argomento non trattabile in queste pagine.
«Una nuova unione di Stati liberi in una struttura “Federale”; una vera “federazione”, da non confondere con “confederazione”; perché essa è un’organizzazione incapace di superare l’anarchia. Ha la sostanza politica delle alleanze tra Stati ed ha un organo permanente per affrontare problemi comuni, che tuttavia non è subordinato agli Stati stessi e non è quindi capace di dominare le divergenti ragioni di stato. Manca in sostanza di un organo ufficiale centrale di coordinazione posto al di sopra dei singoli interessi dei vari Stati o Nazioni. Compito di grande difficoltà è l’unificazione politica di più Stati, Nazioni e/ o Regioni.
È dimostrato già in passato l’insuccesso dei tentativi per unificare le Città Stato della Grecia classica e più vicino a noi, gli Stati regionali dell’Italia alla fine del XV secolo. Non dimentichiamo che l’unificazione dei governi e dei popoli ottenuta senza guerra è avvenuta una sola volta nella storia, ed è stata quella nata con la formazione degli Stati Uniti d’America.
Da tenere presente che il pensiero federalista ha sempre combattuto su due fronti che rappresentano due esigenze diverse, causate anche da eventi storici: il federalismo “esterno”, che nasce prevalentemente da una crisi bellica, da una crisi internazionale, o da una reazione a un non corretto rapporto fra gli Stati sovrani (L‘Europa ai giorni nostri anche se non è una federazione: è un’unione di Stati non legittimata dai cittadini europei). Il federalismo “interno” nasce invece prevalentemente da una crisi interna, da una disgregazione di uno Stato accentrato, da forme di partitismo dispotico e arrogante, dalla crisi del diritto».
Il federalismo “interno”è appunto l’argomento che ci interessa, ovvero il “caso Italia” (Da appunti miei presi da incontri e conferenze di Norberto Bobbio e dalla prefazione dello stesso Prof. Bobbio dal libro “Federalismo e libertà” di Silvio Trentin). Nell’unificazione dell’Italia nulla è legittimo, poiché non c’è stata nessuna trasmissione di potere ma un sistema “consortile” che ha condiviso questi poteri con la monarchia sabauda. In pratica è cambiato poco o nulla; il popolo è stato escluso, come sempre, da ogni forma di potere.
In un sistema democratico per il progresso dello Stato e soprattutto per la sua sopravvivenza nel tempo, le regole che lo mantengono in vita vanno legittimate con la compartecipazione dei cittadini tutti, donne e uomini. È il semplice concetto del principio di legittimità.
Per precisione il diritto di voto in Italia è stato introdotto ai maschi nel 1918 e alle donne “riconosciuto” nel 1945. Una storia lunga e difficile ma che rivela ancora oggi una lacuna democratica nel paese per l’arretratezza in cui si trova ancora una parte di esso. Questo è uno dei motivi fondanti e urgenti non più dilazionabili per una sacrosanta divisione dei poteri in senso federale. Uno Stato è federale o non lo è, non esistono forme ibride o semicentraliste.

Il 17 dicembre 1994 il costituzionalista Gianfranco Miglio presentava al Circolo della stampa di Milano il “Modello di Costituzione Federale per l’Italia” e fatto proprio dall’Unione Federalista. (C’ero anch’io con alcuni federalisti torinesi).
Il Senatore Gianfranco Miglio ha un ricco e invidiabile curriculum (è stato preside per trent’anni della Facoltà di Scienze politiche di Milano), inoltre, tra molto altro, è stato anche l’ideologo della Lega Nord nel 1992, poi uscito nel 1994 per disaccordi con Umberto Bossi. Nello stesso anno fondava il Partito Federalista di cui era eletto presidente, con vicepresidente Dacirio Ghidorzi Ghizzi e segretario generale Umberto Giovine. Ha operato nell’Unione sino al 2000 anno in cui, colpito da ictus, non si riprendeva, morendo ottantatreenne a Como, sua città natale. Ad Adro è stato poi aperto un Polo Scolastico a lui intitolato. Dopo la sua morte, l’Unione Federalista è stata sciolta nel 2001.
Il Modello di Costituzione è riassunto in un fascicolo di 12 pagine di cui ne mostro la copertina e lo schema organizzativo. Se mi sarà concesso, probabilmente pubblicherò il contenuto completo. Assicuro che è di lettura molto interessante e istruttiva.

Il Modello Federale di Gianfranco Miglio è ancora oggi il miglior progetto prodotto da un costituzionalista esperto di federalismo par suo, per un paese arretrato come il nostro, le cui estremità sono “troppo lontane” le une dalle altre. Aveva studiato per oltre cinquant’anni i vari modelli di Repubbliche federali, confederali e le autonomie tanto contestate dei vari Stati europei ed extraeuropei. La sua sfortuna è stata di non aver avuto validi collaboratori nel proporre i suoi progetti federali per l’Italia. Miglio, quest’uomo determinato e intransigente, non è stato ascoltato ma soprattutto capito per le sue idee federaliste troppo avanzate, per la capacità e limitata coscienza politica dei politici di quel tempo che, a quanto pare, ancora oggi, purtroppo, non sono migliorate.
Dal suo modello di costituzione riporto parte del punto1:

Il sistema dei poteri e delle garanzie.
  1. La base di ogni Costituzione Federale è formata dalle convivenze politico-amministrative che si articolano sul territorio e che si contrappongono all’autorità “federali”: i Cantoni.
    Esistono anche ordinamenti pseudo-federali che “combinano” particolarismi non localizzati sul territorio (economico-sociali, professionali, confessionali, ecc.). Ma il vero federalismo si basa su unità territoriali: cioè, su pluralità d’individui che vivono abitualmente gli uni accanto agli altri e hanno in comune la maggior parte dei bisogni essenziali e (sopra tutto) consuetudini, tradizioni e stili di vita, che li differenziano dalle altre convivenze. Fra coloro i quali oggi in Italia temono (o considerano contraria ai propri interessi) l’adozione di una “vera” Costituzione Federale, è forte la tendenza a chiedere che la Federazione si basi sulle attuali “Regioni”, sia cioè una “Federazione Regionale”. Ora, lo “Stato Regionale” – inventato dai costituenti italiani fra il 1946 e il 1947 e consacrato nel Titolo V della Carta – rappresenta l’esperienza più fallimentare che si conosca di questo tipo di ordinamento: quando si afferma che lo “Stato Regionale” è il contrario di un sistema federale, si cita il caso italiano. Non è necessario ricordare le cause di questa disfatta: basterà rilevare che il “regionalista” non condivide intimamente nessuno dei principi (“requisiti”) di una concezione federale….

Riporto, a chiusura dell’argomento, due articoli: uno di Giancarlo Galli e un altro di Salvatore Butera (ritagliati dal giornale “Il SOLE 24 ore” del 28/11/93), presi dal mio archivio personale perché attuali e “sempiterni”.

Articolo tratto da “Il SOLE 24 ore” del 28/11/93

 

Condividi questo articolo

Trattati Europei ed immigrazione – SECONDA PARTE

18 febbraio 2010

L’economia italiana è salvata dalle “Serie Storiche”.

Sono il nostro punto fermo, l’ultimo appiglio prima di precipitare nell’ignoto. L’ISTAT(?) ha reso pubblici i dati sulla caduta delle esportazioni nel 2009, meno 20,7% rispetto al 2008. Un saldo negativo annuo di 4 miliardi 109 milioni di euro. Il dato peggiore dal 1970, da 40 anni, da quando esistono le serie storiche. Il PIL 2009 è in calo del 4,9%. Il dato peggiore dal 1971, da 39 anni, da quando esistono le serie storiche. Secondo l’ISTAT la produzione industriale nel 2009 e’ diminuita del 17,4%. Il dato peggiore dal 1991, da 19 anni, da quando esistono le serie storiche. In mancanza di serie storiche la realtà sarebbe meno tranquillizzante. Le serie storiche sono il bromuro dell’informazione economica. Senza di loro, i dati 2009 sarebbero, più semplicemente, i peggiori di sempre.
Nel corso del 2016, la situazione reale è ulteriormente peggiorata, nel 2018 il sistema arranca…

 

L’eterno dilemma politico dell’Europa sull’immigrazione

di Kenan Malik , articolo del 19 luglio uscito sul The Guardian, Regno Unito (Traduzione di Giusy Muzzopappa)

04 febbraio 2016 19:14

L’Europa affronta una crisi legata all’arrivo dei migranti, ma non la crisi che immaginiamo. Il continente, infatti, si trova di fronte a un dilemma: da un lato, qualunque politica sulle migrazioni che voglia essere morale e praticabile non godrà, per il momento, di un mandato democratico; dall’altro, qualsiasi politica che abbia sostegno popolare sarà probabilmente immorale e impraticabile.
Il dilemma non dipende dal fatto che i popoli europei sono particolarmente inclini a politiche immorali o impraticabili, ma dal modo in cui, negli ultimi trent’anni, la questione dell’immigrazione è stata presentata dai politici di tutti gli schieramenti: come una necessità e come un problema con il quale fare necessariamente i conti.
Gli stessi politici, però, non esitano a definire razzista e irrazionale l’atteggiamento delle persone di fronte agli immigrati. Quando nel 2010 il laburista Gordon Brown definì la pensionata Gillian Duffy una “donna intollerante” perché aveva espresso delle preoccupazioni sui migranti provenienti dall’Europa orientale, espresse il disprezzo dell’élite politica nei confronti delle persone comuni e dei loro timori nei riguardi dell’immigrazione.
Molte delle politiche messe in atto nell’ultimo anno trasmettono la sensazione di un continente in guerra.
Un insieme di bisogni e desideri contraddittori è quindi sfociato in una serie incoerente e inapplicabile di politiche, paradossalmente esacerbate dalle norme sulla libera circolazione all’interno dell’Unione europea (Ue). L’area Schengen, il gruppo di paesi dell’Ue che hanno abolito il passaporto e altri controlli lungo le loro frontiere comuni, è stata istituita nel 1985. Oggi comprende 22 dei 28 membri dell’Ue, e altri quattro sono in attesa di poterci entrare. Solo due paesi, Regno Unito e Irlanda, non ne fanno parte.
Il sogno della libera circolazione nell’Ue ha generato allo stesso tempo una vera paranoia al suo interno. In cambio dell’area Schengen, infatti, è stata creata una fortezza Europa, una cittadella protetta dall’immigrazione da un sistema di sorveglianza ad alta tecnologia, fatto di satelliti e droni, e da recinzioni e navi da guerra. Un giornalista del settimanale tedesco Der Spiegel in visita alla sala operativa di Frontex, l’agenzia di controllo delle frontiere esterne dell’Ue, ha osservato che sembrava di parlare con persone che si trovano lì a “difendere l’Europa contro un nemico”.
Molte delle politiche messe in atto nell’ultimo anno trasmettono la sensazione di un continente in guerra. A giugno, un vertice di emergenza dell’Ue è sfociato in un piano in dieci punti che comprendeva l’uso della forza militare “per catturare e distruggere” le barche usate per trasportare illegalmente i migranti.
Poco dopo, l’Ungheria e altri paesi dell’Europa orientale hanno cominciato a erigere barriere di filo spinato. La Germania, l’Austria, la Francia, la Svezia e la Danimarca hanno sospeso le norme di Schengen e hanno reintrodotto controlli alle frontiere interne. A novembre l’Ue ha siglato un accordo con la Turchia, promettendo al paese 3,3 miliardi di dollari in cambio di maggiori controlli alle frontiere. A gennaio la Danimarca ha approvato una legge che permette la confisca di oggetti di valore ai richiedenti asilo come forma di risarcimento per il loro mantenimento.
Una migrante vicino al villaggio di Miratovac, al confine tra Serbia e Macedonia, il 27 gennaio 2016. (Armend Nimani, Afp)
Nonostante la sensazione di essere di fronte a una crisi senza precedenti, in realtà né la crisi in sé, né l’incoerente risposta dell’Ue rappresentano una vera novità.
Da più di un quarto di secolo le persone cercano di entrare in Europa rischiando la vita. Fino al 1991, la Spagna aveva una frontiera aperta con il Nordafrica, da dove i migranti partivano per compiere lavori stagionali e dove tornavano una volta finito. Nel 1986 una Spagna solo di recente democratizzata entrava nell’Ue. In quanto membro dell’Unione, ha dovuto tra le altre cose chiudere i confini con il Nordafrica. Quattro anni dopo, è stata ammessa nel gruppo di Schengen.
La chiusura delle frontiere spagnole non ha fermato i lavoratori migranti, che hanno cominciato a usare piccole imbarcazioni per attraversare il Mediterraneo e raggiungere la Spagna.
Il 19 maggio del 1991 sono arrivati a riva i primi cadaveri di migranti clandestini. Da allora si stima che più di ventimila persone siano morte nel Mediterraneo nel tentativo di entrare in Europa.
La Spagna ha due avamposti in Marocco, Ceuta e Melilla. Dopo l’ingresso nell’area Schengen, il paese ha costruito un bastione da trenta milioni di euro per sigillare le sue enclave separandole dal resto dell’Africa. L’Ue ha cominciato a pagare le autorità marocchine per rastrellare e imprigionare qualsiasi potenziale migrante, spesso con enorme brutalità.
L’approccio spagnolo ha offerto il modello per le successive politiche dell’Ue sulle migrazioni: una strategia tripartita fatta di criminalizzazione dei migranti, militarizzazione delle frontiere ed esternalizzazione dei controlli pagando a stati che non appartengono all’Unione, dalla Libia alla Turchia, enormi quantità di soldi per fare la guardia alla frontiera dell’Europa. Ancora una volta i migranti hanno cercato tragitti diversi, spesso più pericolosi. È per questo che tantissimi di loro stanno viaggiando attraverso la Grecia e i Balcani.
Rispetto a quanto accade in altre aree del pianeta, non si può certo dire che i profughi stiano ‘inondando’ l’Europa.
Per quanto i numeri siano alti, è bene contestualizzare le cifre relative ai migranti che arrivano in Europa: nel 2015 sono stati un milione, tra profughi e migranti, cioè poco più dello 0,1 per cento della popolazione europea. Ci sono già 1,3 milioni di rifugiati siriani in Libano, il 20 per cento della popolazione del paese. In proporzione, è come se l’Europa ospitasse 150 milioni di profughi. La Turchia, il paese sul quale l’Ue vorrebbe scaricare migranti e profughi, ospita già due milioni di rifugiati.
Rispetto a quanto accade in altre aree del pianeta, non si può certo dire che i profughi stiano “inondando” l’Europa. A sopportarne il peso maggiore sono alcuni dei paesi più poveri del mondo, e questo è l’aspetto più deprecabile delle politiche dell’Ue, perché sembrano poggiare sull’idea che solo i paesi poveri dovrebbero avere a che fare con migranti e profughi.
Il secondo fattore da tenere in considerazione nell’attuale crisi migratoria è il contesto politico.
La divisione tra socialdemocratici e conservatori emersa dopo la seconda guerra mondiale in Europa non è esiste più. La sfera politica si è ristretta per lasciare spazio a una forma di gestione tecnocratica piuttosto che di trasformazione sociale. Una delle tante conseguenze è la crisi della rappresentanza, la crescente sensazione delle persone di non contare niente davanti a istituzioni politiche sempre più lontane e corrotte.

 

Ostilità e panico

L’immigrazione non ha avuto alcun ruolo nel determinare i cambiamenti che hanno causato la frustrazione di così tante persone. Non è responsabile dell’indebolimento del movimento dei lavoratori, né della trasformazione dei partiti socialdemocratici o dell’imposizione di politiche di austerità. Tuttavia, l’immigrazione è diventata una specie di capro espiatorio per questi cambiamenti. Nel frattempo, l’Ue è diventata il simbolo della distanza tra le persone comuni e la classe politica. Il tutto è sfociato in una crescente ostilità nei confronti dei migranti e nel panico diffuso tra chi deve prendere decisioni politiche.
Allora cosa bisogna fare? È possibile conciliare l’adozione di politiche etiche e praticabili sulle migrazioni con le aspirazioni democratiche dell’opinione pubblica europea? Tanti sembrano voler fare a meno di un mandato democratico, altri sembrano disposti a rinunciare a una politica giusta e praticabile. L’opinione prevalente è che l’Europa abbia bisogno di controlli più rigidi, di recinti più alti, di più pattugliamenti militari. Anche se queste misure sembrano popolari e chi le promuove si dichiara “realista”, non si tratta solo di un approccio immorale, ma anche poco praticabile.
La storia degli ultimi 25 anni ci dice che a prescindere da quanto si rafforzi la fortezza Europa, recinti e navi da guerra non fermeranno i migranti. Né controlli più rigidi modificheranno la percezione del problema tra l’opinione pubblica. Trasformare ancora di più l’Europa in una fortezza non contribuirà ad attenuare il senso di frustrazione così diffuso. Gli “idealisti”, d’altro canto, cercano di promuovere politiche sull’immigrazione più etiche, ma sembrano disposti a fare a meno della volontà democratica per applicarle. Questo approccio non è più attuabile o più etico di quello realistico. Nessuna politica a cui l’opinione pubblica è ostile potrà mai funzionare. Politiche migratorie più liberali possono essere attuate solo con il consenso dell’opinione pubblica.
Come ha scoperto la cancelliera tedesca Angela Merkel, favorire una politica liberale sulle migrazioni senza prima conquistare il sostegno dell’opinione pubblica può essere disastroso. Ad agosto la Germania ha sospeso unilateralmente il regolamento di Dublino, la normativa europea in base alla quale i migranti devono fare richiesta di asilo nel primo paese dell’Ue in cui arrivano. Merkel non si è sforzata però di convincere la Germania del valore di questo nuovo orientamento politico. Il contraccolpo è stato fortissimo e dall’oggi al domani è stata costretta a tornare sui suoi passi e a reintrodurre i controlli alle frontiere. Tutto ciò ha determinato una maggiore ostilità nei confronti dei migranti e della stessa Merkel.
Nelle politiche sull’immigrazione non ci sono soluzioni rapide che consentono di tenere assieme le istanze dell’etica, dell’attuabilità e della democraticità. La crisi dei migranti va avanti da tanto tempo e, a prescindere dalle misure che saranno prese, non si risolverà nel giro di uno o due anni. Il problema di fondo non è tanto politico, ma di atteggiamento e percezioni.
Politiche migratorie più accoglienti possono essere attuate solo con il consenso dell’opinione pubblica, non a dispetto della sua opposizione. Conquistare questo consenso non è impossibile, non c’è nessuna legge secondo cui le persone debbano necessariamente essere ostili all’immigrazione. Ampi settori dell’opinione pubblica sono diventati ostili perché hanno finito per associare l’immigrazione con cambiamenti inaccettabili.
Ecco perché, paradossalmente, il dibattito sull’immigrazione non può essere vinto solo parlando di immigrazione, né la crisi dei migranti può essere risolta solo mettendo in atto politiche sulle migrazioni. Le paure attuali sono espressione di una più ampia sensazione di non avere voce e peso nella sfera politica. Finché non sarà affrontato questo problema, l’arrivo dei migranti sui lidi europei continuerà a essere considerato come una crisi.
 

 

19 luglio 2016, ore 18. ( A oggi 14/08/2018 non è cambiato nulla; Salvini, l’unico credibile, ha tutti contro. Non mollare Matteo).

In questi giorni l’Europa e non solo, è travolta da un terrorismo spietato, inumano, assassino.
Fatti tragici non nuovi, per cui lo stato dall’erta dei servizi d’informazione doveva essere massimo; erano prevedibili altri attacchi. Ebbene, la F.I.P. oltre al mare di chiacchiere inconcludenti, tavole rotonde, quadrate, esagonali, incontri parolai, tentennamenti, convegni dei cosiddetti “grandi”, cortei di massa, commemorazioni, celebrazioni con canti e suoni, processioni, dichiarazioni coraggiose e benedizioni papaline per i “piccoli” cittadini creduloni, quest’Europa appare immobile, confusa, poco affidabile, alle prese con la sua solidarietà da ente di assistenza che è da rivedere e rimettere in discussione, mentre la democratica Turchia esegue epurazioni e vuole reintrodurre la pena di morte.
Il paese dei balocchi (l’Italia) dovrebbe svegliarsi dalla catalessi e introdurre una sorta di “Addestranento militare” e creare “ Riservisti” con i giovani rimasti in patria, togliendoli dalla strada, dalla cronica disoccupazione e reinsegnare loro che la patria va protetta e la preziosa libertà salvaguardata, insieme con l’Esercito. Cosa succederà domani? Non lo sappiamo, ma in questa situazione dobbiamo aspettarci il peggio.

Carlo Ellena

 

28 luglio 2018

Il peggio è arrivato prima del cambio di governo; staremo a vedere!

 

14/08/2018 – da Carlo Ellena

A seguire propongo due articoli che mettono in luce l’arroganza inusitata dei plutocrati europei e l’assolutismo dichiarato dei comunisti italiani e loro complici al governo, palesate nelle chiare intenzioni qui espresse con assoluto disprezzo delle più elementari regole democratiche e civili. Questi individui sono sempre troppo pericolosi e si nota in modo chiaro nel disarmante e distruttivo modo di fare opposizione.

 

Immigrati, la bozza della Ue: “Accogliere sarà obbligatorio”

Gli immigrati saranno “spartiti” tra tutti gli Stati. E i rifugiati politici potranno spostarsi liberamente in tutta l’Unione europea

di Sergio Rame , articolo del 9 maggio 2015 uscito su il Giornale

Mercoledì la Commissione europea approverà la nuova Agenda sull’immigrazione.
La bozza è già pronta e, come anticipa Repubblica, contiene una vera e propria inversione di rotta nel contrasto agli sbarchi clandestini per prevenire altre stragi nel Mediterraneo. Il documento, che potrebbe ancora essere ritoccato, introduce l’obbligo per tutti i Paesi dell’Unione europea di accogliere chi sbarca sulle coste italiane, le missioni nei porti libici per distruggere o sequestrare i barconi agli scafisti, gli aiuti economici ai Paesi africani di transito e la Blu Card europea per allargare le maglie dell’immigrazione regolare.
Una volta incassato il via libera della Commissione europea, la nuova Agenda sull’immigrazione dovrà essere approvata dal Consiglio europeo e dal Parlamento di Strasburgo. La strada, quindi, è tutta in salita. Anche perché sono molti i Paesi che preferiscono politiche più restrittive. La bozza, invece, propone di creare un sistema di quote per ripartire i clandestini già presenti sul suolo dell’Unione europea. In questo modo verrebbero, finalmente, svuotati i centri di prima accoglienza italiani che oggi sono al collasso. Se, poi, a un immigrato verrà riconosciuto lo status di rifugiato, questo potrà spostarsi liberamente all’interno dell’Unione europea. È poi allo studio della Commissione l’istituzione di una sorta di Blu Card per favorire l’immigrazione regolare identificando specializzazioni e professionalità richieste.
Nella bozza dell’Agenda sull’immigrazione c’è poi tutto un capitolo dedicato al contrasto degli sbarchi. L’Ue punta ad avviare una missione militare per sequestrare e affondare i barconi degli scafisti. Per farlo le navi europee potranno andare a stanare i mercanti di uomini fino ai porti libici, quindi in acque territoriali libiche, un’eventualità che non trova d’accordo il governo di Tripoli. L’ambasciatore libico all’Onu, Ibrahim Dabbashi, ha già fatto sapere che la Libia non avvallerò interventi europei nelle sue acque. Per ovviare a questo stop l’Alto rappresentante per la politica estera della Ue, Federica Mogherini, sta facendo pressioni sul Consiglio di Sicurezza per incassare il via libera alla missione.
Infine, c’è pure un capitolo economico. Come già annunciato nelle scorse settimane, l’Ue triplicherà i soldi da destinare a Frontex per la missione Triton nel Canale di Sicilia e stanzierà aiuti economici per Paesi, come il Sudan, l’Ehitto, il Ciad e il Niger. L’obiettivo della Commissione europea è, da una parte, evitare nuovi stragi nel Mediterraneo e, dall’altra, contrastare la fame e la povertà che, insieme alla guerra e alle persecuzioni, sono tra le cause dell’immigrazione.

 

 

Alfano obbliga tutti i Comuni ad accogliere: “25 migranti ogni mille abitanti”

Allarme sbarchi. Il governo corre ai ripari. Siglato un accordo con l’Anci per distribuire i migranti su tutto il territorio italiano. Più incentivi ai sindaci che accolgono

di Sergio Rame , articolo del 10 agosto 2016 uscito su il Giornale

Gli sbarchi non si fermano, nemmeno quando c’è brutto tempo. I ricollocamenti negli altri Paesi dell’Unione europea sono in stallo.
E gli Stati che confinano con l’Italia (la Francia, la Svizzera e la Francia) hanno chiuso definitivamente le frontiere. E così il ministro degli Interni Angelino Alfano si trova a dover sistemare 145mila migranti. Il piano concordato nei giorni scorsi con l’Anci è distribuirli su tutto il territorio. Venticinque ogni mille abitanti. E per farlo andrà a raccattare strutture ovunque.
L’Italia è al collasso. L’emergenza immigrazione non travolge più soltanto le coste del Meridione. Certo, la pressione in regioni come la Sicilia è ancora pazzesca. Ma l’allarme si è spostato anche al Nord. Città come Ventimiglia, Milano e Como sono la dimostrazione plastica di un’accoglienza che non funziona. Solo nel capoluogo lombardo stazionano oltre 3.300 migranti. Non hanno un giacilio su cui dormire né un tetto sotto cui stare. I fondi per pagar loro da mangiare, poi, sono finiti. Eppure di rimandarli indietro, il governo Renzi proprio non ha intenzione. Non caccerà nemmeno quelli che non hanno diritto a stare qui. E così Alfano ha messo a punto un piano per sistemarli tutti quanti, spargendoli qua e là su tutto il territorio italiano. In base all’accordo raggiunto con l’Anci, illustrato oggi dal Messaggero, gli ottomila Comuni della Penisola italiana dovranno accogliere “2,5 migranti ogni cento abitanti”. Per convincere i sindaci riottosi, Alfano è disposto anche a mettere sul piatto un po’ di soldi.
Il primo obiettivo del Viminale è “decomprimere” le aree più a rischio. Situazioni, come Ventimiglia per esempio, che rischiano di degenerare in tensioni tra i cittadini e i migranti. “Sono state stabilite procedure per il nuovo funzionamento dello Sprar (il Servizio centrale di protezione per i richiedenti) – si legge nel decreto – a partire dai contenuti dell’intesa tra governo, Regioni e enti locali del 10 luglio 2014 al fine di attuare un sistema unico di accoglienza dei richiedenti e titolari di protezione internazionale attraverso l’ampliamento della rete”. Il ministero della Difesa si è già fiondato a ristrutturare le vecchie caserme. Nei prossimi giorni entreranno già a pieno regime i campi di Montichiari, che ospiterà 150 extracomunitari, e Messina, che ne ospiterà ben 300. A Milano, invece, i migranti verranno accolti nella caserma di Montello, anche se il sindaco Beppe Sala non esclude la possibilità di ricorrere a una sorta di tendopoli per sistemare gli ultimi arrivati. Ma è una coperta corta. Perché dal Mediterraneo continuano ad arrivare i barconi. E, prima o poi, lo spazio a disposizione sarà finito. A meno che il governo non inizi a far uscire dal Paese gli italiani per far posto ai migranti.

 

Condividi questo articolo

Trattati Europei ed immigrazione – PRIMA PARTE

Schengen…e poi? I silenzi colpevoli dei politici europei.

Storia in sintesi dei molti Trattati sconosciuti ai cittadini europei.

L’ingannevole trasformazione dell’Accordo di Schengen dell’1 gennaio 1986, ovvero; la libera circolazione di tutti i cittadini degli Stati membri della C.E. all’interno dell’Europa, poi allargata a tutti gli extra-comunitari. Come si è arrivati a tale insensata (per noi semplici cittadini) situazione?

Trattato di Roma – Firmato il 25 marzo 1957

Il Trattato CEE, ufficialmente il “Trattato che istituisce la Comunità economica europea” ha istituito appunto la CEE. È stato firmato il 25 marzo 1957 insieme al Trattato che istituisce la Comunità europea dell’energia atomica (Trattato Euratom): insieme sono chiamati “Trattati di Roma” che insieme al Trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, ovvero la CECA, firmato a Parigi il 18 aprile del 1951, rappresentano il momento costitutivo delle Comunità europee. Il nome del Trattato è stato successivamente cambiato in Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE) dopo l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht e di nuovo cambiato in Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel dicembre 2009.

 

 

Trattato (o accordo) di Schengen creato l’1 gennaio 1986 -Definizione-

L’accordo di Schengen è stato firmato inizialmente il 19 giugno 1990 fra i Governi degli Stati dell’Unione economica Benelux, della Repubblica federale di Germania e della Repubblica francese relativo all’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni.
Di seguito i Governi del Regno del Belgio, della Repubblica federale di Germania, della Repubblica francese, del Granducato di Lussemburgo e del Regno dei Paesi Bassi consapevoli che l’unione sempre più stretta fra i popoli degli Stati membri delle Comunità europee deve trovare la propria espressione nella libertà dell’attraversamento delle frontiere interne da parte di tutti i cittadini degli Stati membri e nella libera circolazione delle merci e dei servizi.

 
 

 

Il Trattato di Maastricht, o Trattato dell’Unione europea
firmato il 7 febbraio 1992

È un trattato che è stato firmato il 7 febbraio 1992 a Maastricht nei Paesi Bassi, sulle rive della Mosa, dai 12 (dodici) paesi membri dell’allora Comunità Europea, oggi Unione europea, che fissa le regole politiche e i parametri economici necessari per l’ingresso dei vari Stati aderenti nella suddetta Unione. È entrato in vigore il 1º novembre 1993.

OBIETTIVI
Con il trattato di Maastricht, risulta chiaramente sorpassato l’obiettivo economico originale della Comunità – ossia la realizzazione di un mercato comune – e si afferma la vocazione politica.
(Questa decisione, presa uniteralmente dai politici, di fatto accantona definitivamente l’affermazione dell’Europa dei popoli per abbracciare la tesi dell’Europa politica; tesi aborrita a Ventotene da Altiero Spinelli, uno dei padri fondatori).
In tale ambito, il trattato Maastricht consegue cinque obiettivi essenziali:

  • rafforzare la legittimità democratica delle istituzioni;
  • rendere più efficaci le istituzioni;
  • instaurare un’unione economica e monetaria;
  • sviluppare la dimensione sociale della Comunità;
  • istituire una politica estera e di sicurezza comune.

 
 

 

Il Trattato di Amsterdan; firmato il 2 ottobre 1997

L’accordo di Schengen (1990) è stato fatto FUORI dal Trattato dell’Unione Europea (Maastricht).
Il Trattato di Amsterdam (firmato nel 1997) modifica il Trattato di Maastricht e codifica i valori fondanti dell’Unione stessa (libertà, democrazia ecc.). Alcune materie inserite nel Trattato di Maastricht come: visti, asilo, immigrazione e cooperazione giudiziaria in materia civile, vengono “comunitarizzate”, cioè soggette al T. di Maastricht.
(Con il T. di Amsterdam gli Accordi di Schengen vengono integrati nei Trattati europei)
Trattato di Amsterdam che modifica il Trattato sull’Unione Europea, i Trattati che istituiscono le Comunità europee e alcuni atti connessi al Trattato firmato il 2 ottobre 1997 dagli allora 15 Stati membri dell’Unione Europea (Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Svezia) ed entrato in vigore il 1° maggio 1999. Perfeziona il disegno istituzionale delineato con il Trattato di Maastricht (➔), contenente una disposizione che invitava gli Stati membri a convocare una Conferenza intergovernativa (CIG) per la sua revisione. Nel dicembre 1995, le istituzioni comunitarie avevano presentato le proprie riflessioni al Consiglio europeo di Madrid, che recepiva la volontà di «andare oltre Maastricht». La CIG, incaricata di negoziare il nuovo Trattato, diede inizio ai lavori nel corso del Consiglio europeo di Torino del 29 marzo 1996, per concluderli in occasione del Consiglio europeo informale di Noordwijk del 23 maggio 1997.
Il T. di Amsterdan procede alla semplificazione dei trattati precedenti attraverso l’abrogazione delle disposizioni diventate obsolete e la rinumerazione degli articoli. Codifica, inoltre, i valori fondanti dell’Unione, che sono i principi di libertà, democrazia e rispetto dei diritti della persona e delle libertà fondamentali, oltre che dello Stato di diritto (art. 6, par. 1). Dispone, altresì, che la loro violazione da parte di uno Stato membro possa portare alla sospensione dei diritti di voto, finanche di quello in seno al Consiglio.

All’interno del trattato di Maastricht esisteva già una disposizione che invitava gli stati membri a convocare una Conferenza intergovernativa (CIG) per la sua revisione. Nel 1995 ciascuna istituzione presenta le proprie riflessioni e chiede di “andare oltre Maastricht”: una relazione in tal senso viene presentata al Consiglio europeo di Madrid del dicembre 1995. Proprio l’insoddisfazione alle modifiche istituzionali, spinse i capi di Stato e di governo a prospettare subito un’ulteriore modifica del sistema istituzionale “prima che l’Unione conti venti membri”. I paesi membri sono consapevoli della necessità di approfondire l’integrazione, soprattutto nei due nuovi “pilastri” introdotti appunto con il trattato che ha visto nascere l’UE. La CIG si apre al Consiglio europeo di Torino del 29 marzo 1996 e si conclude al Consiglio europeo informale di Noordwijk del 23 maggio 1997. Il trattato firmato ad Amsterdam contiene innovazioni che vanno nella direzione di rafforzare l’unione politica, con nuove disposizioni nelle politiche di libertà, sicurezza e giustizia, compresa la nascita della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, oltre all’integrazione di Schengen. Altre disposizioni chiarificano l’assetto della Politica estera e di sicurezza comune, con la quasi-integrazione dell’UEO, mentre viene data una rinfrescata (insufficiente) al sistema istituzionale, in vista dell’adesione dei nuovi membri dell’est.

Le cooperazioni rafforzate

Infine, il T. di Amsterdam prevede l’importante strumento delle cooperazioni rafforzate, in virtù del quale alcuni Stati membri possono, previa autorizzazione del Consiglio e nel quadro delle competenze dell’Unione, avviare tra loro forme di integrazione più profonda in un determinato settore, con l’utilizzo di istituzioni, procedure e meccanismi stabiliti dai trattati. L’esigenza di permettere ad alcuni Stati membri di procedere a forme d’integrazione più stretta rispetto ad altri si era fatta sentire in misura sempre maggiore con l’ingresso nell’Unione di nuovi Paesi, che avevano aumentato l’eterogeneità di posizioni su politiche specifiche e, più in generale, sulla visione del futuro della UE. Il Trattato di Nizza ( Trattato di Nizza che modifica il Trattato sull’Unione Europea, i Trattati che istituiscono le Comunità europee e alcuni atti connessi), ha poi esteso la possibilità di utilizzare le cooperazioni rafforzate anche al settore della politica estera e della sicurezza.
 

 

Il Trattato di Nizza – Firmato il 26 febbraio 2001, in vigore dal 2003

Il trattato di Nizza è uno dei trattati fondamentali dell’Unione europea, e riguarda le riforme istituzionali da attuare in vista dell’adesione di altri Stati. Il trattato di Nizza ha modificato il trattato di Maastricht (TUE) e i trattati di Roma (TFUE). È stato approvato al Consiglio europeo di Nizza, l’11 dicembre 2000 e firmato il 26 febbraio 2001. Dopo essere stato ratificato dagli allora 15 stati membri dell’Unione europea, è entrato in vigore il1º febbraio 2003.L’obiettivo del trattato di Nizza è relativo alle dimensioni e composizione della commissione, alla ponderazione dei voti in consiglio e all’estensione del voto a maggioranza qualificata, e infine alle cooperazioni rafforzate tra i paesi dell’Unione europea.

Clausole dell’accordo

Il trattato di Nizza in particolare introduce:

  • nuova ponderazione dei voti nel Consiglio dell’Unione europea,
  • modifica della composizione della Commissione europea,
  • estensione della procedura di codecisione e modifica del numero di deputati al Parlamento europeo per ogni Stato membro,
  • estensione del voto a maggioranza qualificata per una trentina di nuovi titoli.
  • riforma per rendere più flessibile il sistema delle cooperazioni rafforzate
  • nuova ripartizione delle competenze tra Corte e Tribunale

Nell’ambito del Consiglio europeo di Nizza è stata solennemente proclamata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che però non è entrata a far parte del trattato.

Passi successivi

Nel dicembre 2001 il Consiglio europeo ha approvato la Dichiarazione di Laeken con lo scopo di far partire un dibattito più ampio e più approfondito sull’avvenire dell’Unione europea che è approdato nella Convenzione europea. Il trattato costituzionale europeo scaturito da questa Convenzione è abortito a causa della vittoria dei no nei referendum di Francia e Paesi Bassi nel 2005 ed è stato sostituito dal trattato di Lisbona entrato in vigore il 1º dicembre 2009.
 

 

Trattato di Lisbona, in vigore dal 1° dicembre 2009

Il Trattato di Lisbona, noto anche come Trattato di riforma – ufficialmente Trattato di Lisbona che modifica il trattato sull’Unione europea e il trattato che istituisce la Comunità europea – è il trattato internazionale, firmato il 13 dicembre 2007, che ha apportato ampie modifiche al Trattato sull’Unione europea e al Trattato che istituisce la Comunità europea. In realtà è una sorta di Costituzione Europea inserita nel Trattato di Lisbona. Un altro ben congegnato imbroglio per i cittadini europei.
Rispetto al precedente Trattato, quello di Amsterdam, esso abolisce i “pilastri”, provvede al riparto di competenze tra Unione e Stati membri, e rafforza il principio democratico e la tutela dei diritti fondamentali, anche attraverso l’attribuzione alla Carta di Nizza del medesimo valore giuridico dei trattati.
È entrato ufficialmente in vigore il 1º dicembre 2009
 

 

La Costituzione europea

Il trattato di Lisbona fu redatto per sostituire la Costituzione europea bocciata dal “no” dei referendum francese e olandese del 2005. L’intesa è arrivata dopo due anni di “periodo di riflessione” ed è stata preceduta dalla Dichiarazione di Berlino del 25 marzo 2007, in occasione dei 50 anni dell’Europa unita, nella quale il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente del Consiglio dei ministri italiano Romano Prodi esprimevano la volontà di sciogliere il nodo entro pochi mesi, al fine di consentire l’entrata in vigore di un nuovo trattato nel 2009 (anno delle elezioni del nuovo Parlamento europeo).
Nello stesso periodo nasce a tal fine il cosiddetto “Gruppo Amato”, chiamato ufficialmente “Comitato d’azione per la democrazia europea” (in inglese “Action Committee for European Democracy” o ACED) e supportato dalla Commissione europea (che ha inviato due suoi rappresentanti alle riunioni), con il mandato non ufficiale di prospettare una riscrittura della Costituzione basata sui criteri che erano emersi durante le consultazioni della Presidenza tedesca con le varie cancellerie europee. Il risultato è stato presentato il 4 giugno 2007: il nuovo testo presentava 70 articoli e 12.800 parole, circa le stesse innovazioni della Costituzione (che aveva 448 articoli e 63 000 parole) diventando così il punto di riferimento per i negoziati.
Il Consiglio europeo di Bruxelles, sotto la presidenza tedesca, il 23 giugno 2007 raggiunse l’accordo sul nuovo Trattato di riforma.
 

 

Dublino III, la convenzione europea sui migranti e le sue falle. Il regolamento di Dublino, nelle sue versioni II e III, è il testo che norma la richiesta di asilo da parte di cittadini extracomunitari che fuggono da paesi in guerra o persecuzioni di natura politica o religiosa.

di MARIA TERESA SANTAGUIDA

15:29 – Siglata per la prima volta nel 1990, la convenzione di Dublino regola la valutazione delle domande di asilo politico nel territorio europeo. Rivista e corretta nel 2003 e poi nel 2013, la sua versione in vigore dal 2014 prevede che la richiesta sia esaminata nel Paese di arrivo: visto che la maggioranza degli extracomunitari viaggia via Mare nel Mediterraneo e approda sulle coste italiane, si tratta quasi sempre dell’Italia.

Il principio ispiratore – Alla base di Dublino III c’è il principio che la richiesta di asilo debba essere fatta nel primo Paese in cui si mette piede. La norma risale alla prima stesura della convenzione nel 1990 ed era contenuta anche nel trattato di Schengen dello stesso anno. Obiettivo iniziale era che almeno uno degli Stati membri si prendesse carico delle richieste per l’ottenimento dello status di rifugiato politico in modo da regolare in modo ordinato e cooperativo i flussi.

L’imprevisto – Nel trattato, il caso di “ingresso illegale” in Ue è considerato come se fosse un’eccezione, ma nel corso dell’ultimo decennio, come insegnano le cronache, questa è diventata la regola ed è la causa primaria dei molti problemi diplomatici sul tema migranti fra gli Stati Europei.

La procedura – Teoricamente a ogni immigrato irregolare dovrebbero essere prese le impronte digitali, che poi devono essere inserite nella banca dati Eurodac. In questo caso l’obiettivo è quello di tracciare l’ingresso dei migranti in modo tale che non presentino la richiesta contemporaneamente in diversi Paesi. Se accade che la richiesta viene presentata ad una nazione diversa da quella in cui il migrante è entrato in Europa, allora può essere rimandato indietro nel Paese di primo approdo. L’uso delle impronte digitali, secondo alcune associazioni umanitarie è al limite del diritto, poiché è una procedura utilizzata solitamente con chi ha commesso un crimine, ma è il portato dell’ingresso illegale, nel 1990 ancora considerato alla stregua di un reato.

L’attuazione – Alcuni Paesi, in primis la Grecia ma anche l’Italia, oberati dai flussi migratori, per qualche tempo hanno lasciato passare i migranti senza identificarli, per fare in modo che potessero inoltrare la richiesta nel Paese in cui veramente volevano poi risiedere. Una specie di accordo tacito fra gli Stati Europei faceva in modo che, su volumi ridotti, l’infrazione della regola sottoscritta a Dublino venisse tollerata. Contemporaneamente però la prassi aumentava il sospetto reciproco tra gli Stati. L’Italia adesso ha invertito la rotta, tentando di rispettare le regole per mantenere una buona reputazione e parallelamente condurre una battaglia per la modifica di Dublino III.

La contraddizione – La rigidità del trattato ha prodotto negli anni la situazione paradossale per cui da un lato c’è un richiedente asilo che non vuole stare in un Paese e dall’altro lo stesso Paese che lo ospita che non vorrebbe o non può tenerlo. Gli Stati sanno che se salvando un migrante nelle proprie acque territoriali dovranno poi farsi carico anche della sua tutela: un ulteriore fardello soprattutto per i Paesi affacciati sul mare.

I respingimenti – Secondo le statistiche pubblicate dal ministero dell’Interno e basate su dati Eurostat lo Stato con il maggior numero di casi di respingimento è la Germania: nel 2013 sono state 4.316 le riammissioni attive, ovvero espulsioni di richiedenti asilo verso il Paese attraverso cui sono entrati in Europa; nel 2008 erano 2.112, meno della metà. Subito dopo c’è la Svezia con 2.869 riammissioni attive nel 2013. Per quanto riguarda le riammissioni passive, a guidare la classifica c’è proprio l’Italia dove nel 2013 sono state rimpatriate 3.460 persone che erano entrate in Europa attraverso il nostro Paese ma che hanno chiesto asilo da un’altra parte. Un balzo avanti enorme rispetto al 2008 quando le riammissioni passive erano state solo 996. Le riammissioni attive in Italia invece nel 2013 sono state solo 5, verso l’Austria. Dopo di noi il maggior numero di riammissioni passive c’è stato in Polonia, altro Paese di confine: 2.442 nel 2013. Il totale delle riammissioni attive in tutta l’Unione europea nel 2013 è stato di 16.014.

Sospensione parziale del regolamento nel corso della crisi migratoria del 2015

Ai sensi del regolamento di Dublino, se una persona che aveva presentato istanza di asilo in un paese dell’UE attraversa illegalmente le frontiere in un altro paese, deve essere restituita al primo stato. Durante la crisi europea dei migranti del 2015, l’Ungheria venne sommersa dalle domande di asilo di profughi provenienti dall’Asia; a partire dal 23 giugno 2015 ha iniziato a ricevere indietro i migranti che, entrati in Ungheria attraverso la Serbia, avevano successivamente attraversato i confini verso altri paesi dell’Unione europea. Il 24 agosto 2015, la Germania ha deciso di sospendere il regolamento di Dublino per quanto riguarda i profughi siriani e di elaborare direttamente le loro domande d’asilo. Altri stati membri, come la Repubblica Ceca, l’Ungheria, la Slovacchia e la Polonia, hanno di recente negato la propria disponibilità a rivedere il contenuto degli accordi di Dublino e, nello specifico, a introdurre quote permanenti ed obbligatorie per tutti gli stati membri.
 

Riflessioni sugli avvenimenti sopra-descritti (Oggi con la determinazione del Ministro dell’Interno Matteo Salvini, la situazione è molto cambiata)

Questa Convenzione, Regolamento, Trattato o Accordo, in definitiva il nome conta poco o nulla, è dato solo per confondere; invece ha molta importanza il contenuto, in quanto l’Italia, che si affaccia sul Mediterraneo, è stata lasciata sola almeno per un decennio ad accogliere i profughi, mentre gli altri stati europei, ciechi e sordi e ben contenti di scaricare le responsabilità, guardavano da un’altra parte. Si sono resi conto solo quando il problema, oramai ingigantito, ha raggiunto i loro confini. Una grossa colpa ha il ministro italiano (Alfano) che, incaricato di negoziare la convenzione, è stato incapace di battere i pugni e imporre le nostre ragioni.
Quest’Unione Europea delle convenienze e degli opportunismi ha tradito i valori iniziali della democrazia imboccando la strada della disgregazione; si sta verificando una sorta di “effetto domino”.
Il filo spinato e le barriere sono la giusta risposta di cittadini inconsapevoli ai politici e ai burocrati di Bruxelles che hanno ignorato il coinvolgimento di tutti gli europei, in specifico gli italiani.
Alla luce di questi fatti, l’aspetto drammatico e antidemocratico, è che tutti gli Accordi, Trattati, Regolamenti, Carte, dichiarazioni varie e Convenzioni, sono contenuti in decine di migliaia di cavillosi documenti che costituiscono una tale mole da rendere, in pratica, impossibile la consultazione. Tuttavia il compito che i politici responsabili di ogni Stato membro avrebbero dovuto svolgere è di rendere pubblici i contenuti, illustrarli ai rispettivi cittadini e introdurli nelle scuole.
Nella realtà sono importantissime decisioni prese all’oscuro della maggior parte dei cittadini europei, mai informati, né consultati e per i quali altri si sono arrogati impunemente il diritto di decidere violando le più elementari regole democratiche – il viatico del Trattato di Schengen del 1986. Sono queste decisioni che oggi rischiano di frantumare la già malconcia Comunità Europea e le conseguenze di questi abusi, oggi ricadono pesantemente sulle spalle delle varie popolazioni europee, alla testa ci sono gli italiani.
A partire dal Trattato di Schengen del 1989, al trattato di Lisbona del 2009, per arrivare ad oggi, anno 2016, sono stati ventisette anni di silenzi e tortuose macchinazioni. Si è mentito agli europei tirando in ballo sempre e solo gli “Accordi di Schengen”, o semplicemente citando “Schengen” (che in realtà sanciva la libera circolazione di persone e merci in Europa ma ai soli europei), come sbrigativa giustificazione a una sorta di commercio umano crudele, disorganizzato, nel nome di una falsa “solidarietà”. I cittadini europei, giustamente spaventati da questa improvvisa, interminabile massa di extracomunitari che in breve tempo hanno attraversato senza controlli le frontiere invadendo i territori, hanno opposto resistenza elevando barriere di protezione per garantire la propria sicurezza. Tutto questo, fra le violente proteste dei politici e burocrati della Comunità Europea, la quale invece di organizzarsi e prendere decisioni sull’ordine e salvaguardia dei propri territori urla insulti contro i paesi “ribelli” con insulse, minacciose e pericolose prese di posizione.
È il logico risultato di una politica burocratizzata di vertice, arrogante, autoritaria, ottusa, sorda e ceca, la quale, senza la minima visione delle conseguenze future, isolata nella sua bolla di potere, si è arrogata il diritto di decidere, escludendo i cittadini di vari stati europei a esercitare il loro diritto di voto, violando i valori fondanti dell’Unione: “i principi di libertà, democrazia e rispetto dei diritti della persona e delle libertà fondamentali”.
Oggi sono proprio i popoli europei a pagare i pesanti costi non solo in denaro ma soprattutto le cause delle profonde incomprensioni per le differenze religiose, di cultura e sistemi di vita di queste popolazioni.
La gente comune è disorientata, con ragione non comprende questa forma d’integrazione imposta quasi con violenza, spinta oltre ogni limite attraverso disposizioni venute dall’alto, in nome di una solidarietà di comodo, che obbliga i cittadini a convivere con queste genti, creando disagio e diffidenza, anche per i trattamenti di favore elargiti dallo stato a queste persone, povere fin che si vuole ma in un periodo di grave crisi per la mancanza di lavoro oramai cronica che le sinistre italiane al governo non risolveranno mai. Un’infausta e imprudente operazione sostenuta con forza anche con la complicità della chiesa di Roma in nome di una distorta solidarietà papalina.
L’Italia, immobile dai primi anni’80, da tempo è governata da un sistema centralista di sinistra di stampo catto-comunista che l’ha impoverita culturalmente, moralmente e strutturalmente, annientando, in particolare a Torino, un prezioso apparato industriale e d’impresa. Negli anni sessanta, i politici con i sindacati della sinistra hanno operato senza scrupoli un vero sfacelo nel mondo del lavoro inculcando nelle giovani generazioni la cultura del diritto, in cui tutto deve essere facile, operando inoltre una sistematica “disistruzione” scolastica verso gli studenti, relegando in un canto come formule passatiste, il senso del dovere, i veri valori del lavoro, che è fatica, della famiglia, del proprio paese e della stessa Unione Europea.
Ancora oggi nelle scuole italiane manca l’Educazione Civica, una materia che dovrebbe essere obbligatoria, essa comprende l’insegnamento della Carta Costituzionale, un documento che ogni buon cittadino è tenuto a conoscere e imparare. Introdotta dallo statista Aldo Moro nel 1958, dopo il suo assassinio questa materia è stata praticamente cassata dall’ordinamento scolastico e mai più ripresa. Neppure la riforma scolastica della Gelmini nel 2008 prevede che l’Educazione Civica sia una materia vera e propria, come molti altri aspetti alquanto discutibili. Ma statisti come Aldo Moro l’Italia non li avrà mai più, non per nulla siamo sprofondati nel vuoto assoluto della superficialità e dell’incultura. Sui veri valori dei Trattati Europei e non solo, si è sempre taciuto, in Italia poi i cittadini non sono mai stati coinvolti in consultazioni popolari; una vergogna in un paese che si proclama di fronte al mondo modello di democrazia, ma i nodi stanno arrivando al pettine. C’è un diffuso, generale malcontento e molti stati dell’Unione meditano di uscire da questa Unione Europea. L’unica alternativa possibile per salvare veramente l’Europa dal possibile fallimento, se ne convincano tutti i membri, è dare ad essa una nuova struttura politica di modello Federale, com’era stata la proposta iniziale dalla Germania e subito rifiutata; ma i tempi erano diversi e con uomini politici di ben altra statura che avevano una chiara visione del futuro…

Carlo Ellena

Condividi questo articolo

Il voto, l’Italia mostra la sua vera faccia

28 febbraio 2018

L’olimpica Italia politica mostra la sua vera faccia.

Le Olimpiadi invernali del 2018 sono uno specchio fedele di qual è la capacità del paese di produrre persone capaci e determinate a lavorare e vincere per se stessi e per la propria bandiera, ben inteso, escludendo a priori tutti gli atleti medagliati, che meritano onore e gloria.

Ciò che incombe pesantemente nella numerosa platea di atleti che si misurano nelle varie specialità di sport individuali (invernali e atletica leggera), è la mancanza di determinazione e sacrificio, qualità indispensabili per arrivare alla vittoria o prodigarsi per un piazzamento onorevole. Ho ascoltato dichiarazioni di vari allenatori e anche dirigenti sportivi, ad esempio l’ex marciatore ora dirigente Sandro Damilano, il quale dichiara, come altri, che “l’atleta deve allenarsi ma anche divertirsi”. È uno strano concetto che contrasta con lo sport di competizione, tenendo ben conto, che l’atleta, nel fare sport professionistico, che è il suo lavoro, dovrebbe avere come obiettivo la vittoria, che da sola ripaga e premia, sotto i vari aspetti morali e materiali, tutti i sacrifici fatti per conseguirla. Invece, da quanto sentito in interviste ad alcuni atleti di media e bassa classifica, costoro tergiversano, accampando pretesti di ogni genere; la neve, la pista non adatta, gli sci, la fatica, il freddo e quant’altro, poco o nulla contrariati delle loro débâcle.

Una lezione è impartita gratis dalla snowboarder praghese Ester Ledecka, che ha vinto l’oro nella sua specialità e ne ha vinto un altro nel supergigante (non succedeva deal 1928) con un paio di sci prestati da un’americana. Lei risponde così a un’intervista: “Ho solo fatto il mio lavoro…”, poche, chiare, semplici parole ma molti fatti.

Questa lunga premessa serve per introdurre un discorso sull’inefficienza e rammollimento degli italiani in questa fase nevosa del neanche troppo bizzarro inverno che stiamo vivendo.

Ascoltando gli articolati servizi RAI, con inviati sul posto che commentano con ridondante enfasi il freddo, le gelate e i pochi centimetri di neve caduta, in particolare su Roma, Napoli e dintorni, ci informano che mezza Italia si è bloccata, impossibilitata a muoversi. Una signora di Bolzano intervistata in auto sulla disastrosa situazione ferroviaria, viabilità e trasporti pubblici, rispondeva esterrefatta e incredula su quanto stava avvenendo e concludeva: ”…ma non scherziamo; per noi che cada questa poca neve è normale; non si ferma nulla, tutto funziona senza il minimo intralcio”.

È un altro evidente segnale del drammatico tracollo di un paese oramai incapace di reagire non solo di fronte alla realtà dei fatti, perché non più avvezzo, causa decenni di abulia, inazione e rassegnazione ma soprattutto per mancanza di uomini politici capaci e abili a governare. Che dire del presidente del Consiglio signor Gentiloni, che in un suo intervento di fronte alle telecamere, intuendo in pericolo la sua poltrona, liquidava in malo modo il compagno di partito Ministro dell’economia e delle finanze signor Padoan. Un mediocre economista, che ancora in carica al Ministero non ha certo brillato per idee e personalità ma che tuttavia è servito ai comunisti del PD e a Gentiloni, il quale in questo frangente di criticità, mostrava la sua totale mancanza di stile, intelligenza e classe politica.

Dal 2013, senza votazioni popolari (ma già molto prima), le sinistre hanno preso stabilmente, indisturbati e senza alcuna opposizione le leve più importanti dell’apparato statuale e subito buona parte del mondo politico si è accodato, senza distinzioni di colore, idee e simboli di partito.

Costoro, tutti insieme hanno tradito gli italiani per decenni, con promesse mai mantenute, spaventosa incapacità, menzogne e abusi tali da richiedere urgentemente una specifica Commissione d’Inchiesta. Ebbene, oggi, a pochi giorni dalle elezioni, questi signori si presentano in TV esagitati, con il volto quasi tumefatto dalla travolgente fiumana di parole che sanno esprimere ma oramai inutili per giustificare i loro fallimenti e tutto questo, con una faccia di bronzo da far impallidire una fonderia, chiedere il voto per i gran passi in avanti che loro hanno dato o portato al paese. La verità che è sotto gli occhi di tutti ci mostra che i veri nemici dell’Italia sono proprio loro.

Viviamo male in un paese che è allo stremo e prima che succeda l’irreparabile, bisogna attivarsi con posizioni ferme e legali; il moderatismo non serve a nulla.

Fra pochi giorni, il 4 marzo 2018, si terranno le elezioni per rinnovare il Parlamento italiano.

Elezioni apertamente anticostituzionali, poiché indette da un governo non votato dai cittadini e che ha svolto e svolge un ruolo provvisorio/transitorio a seguito di una grave crisi politica pregressa.

Si va a votare con una nuova legge elettorale minuziosamente preparata per non cambiare nulla comunque sia il risultato alle urne; fatta per ingannare e aggirare gli italiani; una truffa scandalosa, che fa impallidire la ben nota “legge truffa” del 31 marzo 1953.

Questa nuova legge, peggiore delle precedenti, creata da una classe politica irresponsabile e corrotta, mette in pericolo non solo l’Italia ma anche gli equilibri economici e strategici europei e euro-atlantici.

È lecito porsi un interrogativo: con questa gente è giusto andare al voto o non andare al voto?

Votare per cosa, per chi, con quali speranze? ……..

-Ne I principi fondamentali, l’Art. 1 è inosservato: chi lavora oggi in Italia se le aziende fuggono?

-Perché le aziende di Stato falliscono? È colpa dell’incapacità politica e manageriale?

-La Giustizia va riposta alla tutela dei cittadini, oggi abbandonati a se stessi.

-La Sanità sperpera enormi capitali in clientele di comodo ed è carente  nei servizi.

-La situazione geologica del paese è tragica, servono urgentemente adeguati, periodici controlli.

-Dare immediata attuazione di una nuova forma manutentiva al sistema idrografico e stradale.

-Le ferrovie ritornino allo Stato per riproporre servizi adeguati e una riorganizzazione manutentiva.

-Qual è lo stato della nostra compagnia aerea? Non è più nostra? Che fine ha fatto?

-Cancellazione immediata di tutti i sistemi del criminale, dilagante gioco d’azzardo.

-Mettere sotto controllo e un freno al pullulare delle associazioni no-profit che chiedono denaro.

-Un altro scandalo al quale rimediare: l’istituzionalizzazione della povertà dello stato.

-Ripristinare il servizio militare, un paese senza esercito è preda facile.

-La RAI? Ricostruire un servizio pubblico meno sciocco al servizio dei cittadini e non una struttura       costruita a misura del PD.

-Il Presidente del Parlamento europeo Antonio Taiani Presidente del Consiglio? Un incapace spedito in Europa che vuole civilizzare l’Africa con i soldi europei; una mossa politica sbagliata per cambiare poco o nulla.

-In merito ai migranti che sbarcano in Italia mentre l’Europa si nasconde, allora in questo caso specifico richiedere con urgenza una revisione agli Accordi di Dublino, poiché il signor Alfano, che aveva partecipato agli incontri, era stato permissivo da accettare tutto e le conseguenze ancora le subiamo.

Perché un nuovo traffico di schiavi. (Da un’analisi di Paolo G. Parovel)

Questo nuovo traffico di schiavi non ha bisogno di usare catene visibili, perché le vittime africane vengono convinte a partire con miraggi di benessere in Europa, derubate e scaricate nell’unico paese che le accoglie senza poterle integrare: l’Italia in piena recessione economica e sociale, che ha già 8 milioni di cittadini poveri, 5 milioni di disoccupati (il 40% dei giovani) e non riesce a gestire nemmeno i rifugiati di guerra dal Medio Oriente e gli immigrati dai Balcani.

In Italia perciò la massa crescente degli immigrati clandestini africani diventa la sottoclasse sociale più emarginata, discriminata, indifesa e perciò più sfruttata dai politici e dalle organizzazioni criminali per speculare sulle assistenze pubbliche, per alimentare i mercati illegali del lavoro nero ( in particolare nell’agricoltura), della prostituzione, dello spaccio di droghe (1/3 dei carcerati in Italia sono immigrati clandestini) e per aumentare i voti dei movimenti politici dei razzisti.

                                                                                                                                    Paolo P. Parovel

Il caso dell’Embraco è una triste storia iniziata alla fine degli anni ottanta ma è uno dei tanti, troppi fallimenti ed errori madornali fatti da una classe manageriale e politica, incapace e dannosa al paese.

A questo proposito riporto un articolo importante già postato tempo fa nel BLOG.

 

25 giugno 2017 – Tratto da Mezzostampa-

ITALIA TERRA DI CONQUISTA. AZIENDE STORICHE VENDUTE ALL’ESTERO

Il Made in Italy è sempre meno italiano, dato che le aziende di punta del settore dell’industria, della moda e degli alimentari vengono acquisite con preoccupante costante da holding straniere. Gli ultimi casi sono la Telecom venduta agli spagnoli che stranamente, pur essendo indebitati più di noi, hanno acquisito l’azienda italiana, e quello dei cioccolatini Pernigotti, venduti dai Fratelli Averna al gruppo Sanset della famiglia Toksoz. Pernigotti è un’azienda storica con oltre 150 anni di attività. Ma ormai siamo avviati su una china molto pericolosa per l’occupazione e per l’approvvigionamento delle materie prime, che rischiano di spostarsi in terra straniera. A tutt’oggi, solo per l’agroalimentare sono stati venduti marchi per circa 10 miliardi di euro. Ma la domanda che bisogna porsi è: “queste aziende potevano sopravvivere nel mercato globale senza far parte di grossi gruppi industriali?”.

Artigianato e tradizione spesso non vanno molto d’accordo con i ritmi e le pretese di un mercato in cui le spese di produzione si alzano e i profitti calano. Vendere è forse di vitale importanza per gli imprenditori, ma in tutto questo discorso si sente l’assenza dello Stato, che nulla sembra volere e potere fare per arrestare la dissoluzione del Made in Italy e, anzi, vessa sempre più le aziende con una pressione fiscale a livelli record. Non esiste settore che non sia stato toccato dalle mani delle ricche holding straniere. La strategia di questi gruppi è semplice: attendere il momento di difficoltà economica per appropriarsi di aziende con valore aggiunto notevole visto che, pur non più italiano al cento per cento, il prodotto italiano vende sempre e comunque, soprattutto all’estero.

Ecco così che un’opportunità di crescita per il comparto esportazioni è  ridotta al lumicino dall’esternalizzazione della proprietà e, molto spesso, anche della produzione. Il primato sul bel vivere e vestire non ci appartiene più, è meglio farsene una ragione. Ma quello che preoccupa di più è l’acquisizione di negozi, supermercati, fabbriche, ristoranti, da parte di cinesi che ormai sono l’etnia più numerosa, specie nel Sud Italia.

Vista la rapidità con la quale le aziende, oramai trasformate in pacchetti azionari, cambiano proprietà, nell’elenco potrebbe esserci stato qualche cambiamento ma conta poco, in Italia non tornano più. Qui di seguito c’è l’elenco recente di aziende vendute all’estero, ma sono solo una parte, e quelle più conosciute:

-La Telecom è stata venduta….la cosa più grave che l’hanno comprata gli spagnoli che stanno più inguaiati di noi….e il Presidente della Telecom dice: “Non ne sapevo niente” (sigh)…

La Barilla è stata venduta agli americani…

L’Alitalia ultimamente diventata Società Aerea Italiana S.P.A. è la compagnia aerea di bandiera   italiana in amministrazione straordinaria ma poi commissariata. Il suo futuro è molto incerto

-La Plasmon è stata venduta agli americani.

La Parmalat, di quel buon signore di Tanzi, è stata venduta ai francesi della Lactalis

L’Algida è stata venduta ad una società anglo-olandese

-L’Edison, antica società dell’energia, venduta ad una società francese, l’EDF

Gucci è nelle mani della holding francese Kering

BNL è controllata dal gruppo francese Bnp Paribas

-ENEL cede buona parte delle quote ai russi (il 49%)

Il marchio AR, azienda conserviera quotata in borsa, di Antonino Russo, è passata ai giapponesi della Mitsubishi.

-Lo stabilimento AVIO AEREO è passato alla Generale Eletric…

-I cioccolatini Pernigotti dei fratelli Averna venduti ai turchi della famiglia Toksoz

-L’azienda Casanova, La Ripintura, nel Chianti, è stata recentemente acquisita da un imprenditore di Hong Kong

-I baci perugina appartengono dal 1988 alla svizzera Nestlè

I gelati dell’antica gelateria del corso sempre alla Nestlè

-Buitoni: L’azienda fondata nel 1927 a Sansepolcro dall’omonima famiglia è passata sotto le insegne di Nestlè nel 1988.

-Gancia: le note bollicine sono in mano all’oligarca russo Rustam Tariko (proprietario tra l’altro della vodka Russki Standard) dal 2011.

-Carapelli è nella galassia del gruppo spagnolo Sos dal 2006, cosi come Sasso e Bertolli.

-Star. Il 75% della società fondata dalla famiglia Fossati (oggi azionisti di Telecom Italia) nel primo dopoguerra, è in mano alla spagnola Galina Blanca (entrata nel 2006 e poi salita del capitale del gruppo).

Salumi Fiorucci: sono in mano agli spagnoli di Campofrio Food Holding dal 2011.

-San Pellegrino è stata acquisita dagli svizzeri della Nestlè dal 1998.

-Peroni è stata comperata dalla sudafricana Sabmiller nel 2003.

Orzo Bimbo acquisita da Nutrition&Santè di Novartis nel 2008.

-La griffe del cachemire “Loro Piana”, fiore all’occhiello del made in Italy, è stata ceduta per l’80% alla holding francese Lvmh che già include simboli assoluti come Bulgari, Fendi e Pucci.

Chianti classico (per la prima volta un imprenditore cinese ha acquistato un’azienda agricola del Gallo nero)

-Riso Scotti (il 25% è stato acquisito dalla società alla multinazionale spagnola Ebro Foods)

Eskigel produce gelati in vaschetta per la grande distribuzione (Panorama, Pam, Carrefour, Auchan, Conad, Coop) (ceduta agli inglesi con azioni in pegno ad un pool di banche).

-Fiorucci–Salumi (acquisita dalla spagnola Campofrio Food Holding S.L.)

-Eridania Italia SpA (la società dello zucchero ha ceduto il 49% al gruppo francese Cristalalco Sas)

-Boschetti alimentare (cessione alla francese Financière Lubersac che detiene il 95%)

Ferrari Giovanni Industria Casearia SpA (ceduto il 27% alla francese Bongrain Europe Sas) 2009

Delverde Industrie Alimentari SPA (la società della pasta è divenuta di proprietà della spagnola Molinos Delplata Sl che fa parte del gruppo argentino Molinos Rio de la Plata) 2008

-Bertolli (venduta a Unilever, poi acquisita dal gruppo spagnolo SOS)

-Rigamonti salumificio SPA (divenuta di proprietà dei brasiliani attraverso la società olandese Hitaholb International)

-Orzo Bimbo (acquisita da Nutrition&Santè S.A. del gruppo Novartis)

-Italpizza (ceduta all’inglese Bakkavor acquisitions limited)

-Galbani (acquisita dalla francese Lactalis)

-Sasso (acquisita dal gruppo spagnolo SOS)

-Fattorie Scaldasole (venduta a Heinz, poi acquisita dalla francese Andros)

Invernizzi (acquisita dalla francese Lactalis, dopo che nel 1985 era passata alla Kraft) 1998

-Locatelli (venduta a Nestlè, poi acquisita dalla francese Lactalis)

-San Pellegrino (acquisita dalla svizzera Nestlè) 1995

-Stock (venduta alla tedesca Eckes A.G., poi acquisita dagli americani della Oaktree Capital Management) 1993

-La Safilo (Società azionaria fabbrica italiana lavorazione occhiali), fondata nel 1878, che oggi produce occhiali per Armani, Valentino, Yves Saint Laurent, Hugo Boss, Dior e Marc Jacobs, è diventata di proprietà del gruppo olandese Hal Holding.

-Nel settore della telefonia, a Milano nel 1999 era nata Fastweb, una joint venture tra e.Biscom e la comunale Aem che oggi fa parte del gruppo svizzero Swisscom.

Nel 2000 Omnitel è passata di proprietà del Gruppo Vodafone

-Nel 2005 Enel ha ceduto la quota di maggioranza di Wind Telecomunicazioni al magnate egiziano Sawiris, il quale nel 2010 l’ha passata ai russi di VimpelCom.

-Nel campo dell’elettrotecnica e dell’elettromeccanica nomi storici come Ercole Marelli, Fiat Ferroviaria, Parizzi, Sasib Ferroviaria e, recentemente, Passoni & Villa sono stati acquistati dal gruppo industriale francese Alstom, presente in Italia dal 1998.

-Nel 2005 le acciaierie Lucchini spa sono passate ai russi di Severstal, mentre rimane proprietà della omonima famiglia italiana, la Lucchini rs, che ha delle controllate anche all’estero.

-Fiat Avio, fondata nel 1908 e ancora oggi uno dei maggiori player della propulsione aerospaziale, è attualmente di proprietà del socio unico Bcv Investments sca, una società di diritto lussemburghese partecipata all’85% dalla inglese Cinven Limited.

-Benelli, la storica casa motociclistica di Pesaro, di proprietà del gruppo Merloni, nel 2005 è passata nelle mani del gruppo cinese QianJiang per una cifra di circa 6 milioni di euro, più il trasferimento dei 50 milioni di euro di debito annualmente accumulato.

-Nel 2003 la Sps Italiana Pack Systems è stata ceduta dal Gruppo Cir alla multinazionale americana dell’imballaggio Pfm Spa.

-In una transazione di qualche tempo fa Loquendo, azienda leader nel mercato delle tecnologie di riconoscimento vocale, che aveva all’attivo più di 25 anni di ricerca svolta nei laboratori di Telecom Italia Lab e un vasto portafoglio di brevetti, è stata venduta da Telecom alla multinazionale statunitense Nuance, per 53 milioni di euro.

Totale 54 aziende.

 

Condividi questo articolo

Nel totale caos elettorale, la palude Italia affonda nel mar Mediterraneo

Sono pensieri di un semplice cittadino, tralasciando dati statistici, false inchieste, menzogne vergognose, sondaggi truccati, grafici e percentuali gonfiate, che il cosiddetto uomo della strada non comprende ma non ne ha necessità, poiché egli  vive sulla sua pelle l’immane fatica quotidiana per la sopravvivenza.

Qual è in classifica l’attuale Repubblica Italiana? La 2°, la 3° o la 4°, abbiamo perso il conto. Sono ben 103 (centotre, incredibile, ma sarà finita? Ma 5 anni fa erano 219) i simboli presentati dai vari capi di partito. Pseudo politici che fingeranno di accapigliarsi per la scalata ai lauti stipendi, ai privilegi e la preziosa immunità. Quante facce nuove? Quasi nessuna, anche se molte di quelle nuove sono peggiori delle vecchie; e i programmi? Sono un comodo pretesto, un motivo per affrontare nelle piazze (come fanno i battitori da mercato) gli italiani. Sfrontatezza, impreparazione, nessuna visione politica della realtà e arroganza da intoccabili contraddistingue queste ultime generazioni di uomini politici. Costoro presentano programmi elettorali impossibili o copiati quasi di sana pianta da altri di triste memoria, mai realizzati dal punto più importante: il lavoro, quello vero, fatto con mani e cervello e non con parole, calcio, canzonette e banalità simili che da qualche decennio sono la cultura imperante del nostro paese.

 

Il difficile e disagiato rapporto con gli extracomunitari e la fuga da Torino

Prendiamo un esempio che fa testo per il percorso storico che ha seguito: il Piemonte, con Torino Capitale d’Italia, poi capitale industriale, capoluogo della Regione e fabbrica del lavoro per oltre un secolo a tutti gli italiani. La vecchia capitale ha subito, per volontà politiche di ultra-sinistra e in un tempo relativamente breve, la distruzione del suo apparato industriale. La bella Torino è ridotta, oggi, a una malfamata e puzzolente suburra composta da povera gente proveniente dai vari paesi africani e frotte di disoccupati-sfaccendati che non hanno patria. La decadenza della città non è casuale, è stata perseguita con manifesta volontà, sino a essere ridotta a Ente Regionale di carità e ricovero per disperati, mantenuti e coccolati, a scapito dei torinesi e piemontesi che, esasperati di essere, loro malgrado, i pagatori di questo “obbligo d’imposta”, o fuggono, o attendono che chissà, forse qualcosa cambi con le prossime votazioni politiche. Si tratta di una vera e propria fuga, che con questi ritmi, fra pochi anni Torino sarà un sottoprodotto africano; a questo punto ecco risuonare l’eco del fatidico “razzisti!”, dai falsi buonisti ma lo è esattamente al contrario e con cotanta arroganza per cui i piemontesi e torinesi emigrano. In buona parte sono pensionati, mentre molti giovani scelgono il Nord-Nord Est europeo ma anche oltre, per lavorare e trovata un’occupazione se ne vanno con la famiglia.

Alcuni giorni or sono, un amico settantacinquenne, recatosi in visita al Museo Egizio con alcuni parenti, mi ha raccontato un fatto inaudito cui è stato testimone. In coda alla biglietteria, li precedeva una coppia di africani, la quale, fra lo stupore dei presenti, pagava non due ma un solo biglietto, alla domanda dell’amico del perché di tale trattamento la laconica risposta sottotono era: “Disposizioni superiori”, ma non era finita, poiché l’amico chiedeva lo sconto applicato agli ultrasessantacinquenni la risposta era stata: “ Non c’è più, lo sconto è stato abolito”.

Lasciando a parte lo sconto, nella città di Torino il trattamento di favore riservato a questi stranieri è allargato anche nella Sanità e in molte altre strutture comunali di assistenza gratuite.

Il sistema ha un chiaro significato politico: che il cittadino è stato retrocesso in seconda, o terza classe nelle priorità rispetto agli extracomunitari. Non c’è stata mai una direttiva mirata a un sistema di regolamentazione all’entrata in Italia; tutti ma proprio tutti sono passati senza alcun controllo del flusso, tantomeno sanitario. Queste persone usufruiscono di vergognosi, quanto costosi privilegi che la città riserva loro, per cui il cittadino, che da vari anni subisce tali trattamenti e che nonostante il cambio di governo cittadino persistono, lo ripeto, se ne va per non più tornare.

 

La pessima scuola statale e i progetti della Regione Piemonte per le nuove famiglie piemontesi

Cambiare la scuola ritornando al passato.

L’Educazione civica – una materia troppo importante che deve essere ripresa in una legge e inserita com’era un tempo nei programmi scolastici. Materia che il benemerito On. Moro aveva reintrodotto nella scuola ma che dopo la sua morte è ben presto sparita.

La Costituzione italiana deve essere inclusa nell’Educazione Civica. È da seguire l’iniziativa adottata per gli studenti diciottenni nelle scuole di Cuneo d’introdurla nei programmi.

L’educazione sportiva è altrettanto fondamentale per insegnare ai giovani che non esiste solo il “calcio”; oggi non è più sport ma ricettacolo di violenza, volgarità, partite truccate e altri brogli. Lo sport agonistico autentico si può trovare nell’atletica leggera; inoltre fare sport non significa solo divertimento, poiché in questo attributo è insito lo sport stesso, esso è già, di per sé, divertimento e socialità. Mentre nelle scuole elementari torinesi, in modo astutamente perverso s’invitano i ragazzi alla solidarietà e all’accoglienza, non si fa scuola e non s’insegna affatto, si fa già politica dalla prima infanzia, a ragazzi di primo pelo, sfruttando la loro  ingenuità e capacità d’apprendimento. Ben altro trattamento è riservato agli stranieri; con il progetto Petrarca si sono avviati 300 (trecento) corsi di lingua italiana. Notizia tratta dal bollettino regionale d’informazione “Piemonte Newsletter”  n° 2 del 19 gennaio 2018.

Un declino a questo punto irreversibile per la città, che perde la parte migliore, per incamerare miseria e altro di molto peggio ma forse vi sono oscuri motivi che a noi, vecchi piemontesi educati al lavoro, paiono incomprensibili. Cosa realmente significa “innovazione sociale?”; spese improduttive per servizi inutili? Qual è il vero significato?

Riporto parte di un lungo, articolo sulle Politiche Sociali che tutti dovrebbero leggere, apparso sul periodico della Regione Piemonte “NOTIZIE” di Dicembre 2017, dal titolo “Welfare sì, ma con l’innovazione”. Nell’articolo ci paiono invece ben comprensibili alcuni Progetti Territoriali sui quali l’Assessore Ferrero afferma: “Questa prima misura mira a concepire le politiche sociali non come risposta emergenziale ai bisogni espressi dalla collettività ma come la creazione di un processo d’innovazione che consenta di generare un cambiamento nelle relazioni sociali e risponda ai nuovi bisogni ancora non soddisfatti dal mercato o crei risposte più soddisfacenti a bisogni esistenti”. Il bando di “Sperimentazione di azioni innovative di welfare territoriale”, pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione Piemonte del 2 novembre 2017, è rivolto a raggruppamenti composti da soggetti pubblici e privati costituiti e costituenti composti dai seguenti beneficiari: le Ats (Associazioni temporanee di scopo composte da soggetti pubblici), gli enti gestori delle funzioni socio-assistenziali (Distretti della Coesione sociale) e uno o più enti del terzo settore o associazioni di volontariato con sede nel territorio piemontese. La definizione dei Progetti Territoriali e delle loro finalità avviene a livello territoriale nei 30 Distretti della Coesione sociale che devono essere oggetto di una pianificazione integrata che, definendo rapporti strategici, li porti ad essere incubatori di sviluppo locale, sfruttando la ricchezza e la varietà dei settori produttivi, del lavoro, culturali, sociali e ambientali presenti sui territori. L’assessora Gianna Pentenero afferma (tra altre cose) “che attraverso i Distretti si può, ad esempio, realizzare forme innovative di welfare per il contrasto alla povertà, interventi volti a favorire l’inclusione lavorativa di persone con fragilità e misure in grado di contrastare il disagio sociale”.

Attenzione; quest’articolo abbonda di parole ampollose, fumose, che servono per concludere, alla buon’ora, con una dichiarazione d’intenti molto chiara dell’assessora Monica Cerutti: L’opportunità offerta è quella di mettere in campo innovazione nell’ambito sociale che guardi alle trasformazioni della comunità piemontese, che non sono solo il generale invecchiamento, ma anche l’evoluzione delle famiglie, non più composte secondo il modello tradizionale e con una significativa presenza di persone di origine straniera”. La chiusa è determinante: “Il bando ha rappresentato la prima tappa del piano di sperimentazioni per l’innovazioni sociale, che si articola in cinque misure diverse attuate attraverso il Fondo Sociale Europeo e il Fondo Europeo di sviluppo regionale, stanziando risorse complessive per circa 20 (Venti) milioni di Euro. Tutte le azioni dovranno avere un minimo comun denominatore: stimolare progetti sui territori, che dimostrino sostenibilità e replicabilità per promuovere coesione e inclusione sociale”.

Non un commento sulla più grave crisi di lavoro del dopoguerra, si sostiene solo la “coesione e inclusione sociale”. Un Ente Regione che sperpera somme enormi di fondi europei con l’Europa complice, che ignora i cittadini, le loro giuste proteste, le paure per il futuro, ed elargisce milioni per una causa (l’accoglienza italiana agli extracomunitari) oramai già persa e che ha diviso profondamente l’Italia e questa improbabile Grande Patria europea.

Non s’illudano i piemontesi di avere dalla Regione (e dallo Stato) trattamenti migliori, tantomeno un’attenzione particolare per le aziende e il lavoro, non per risorse in denaro, quanto per l’eliminazione dell’elefantiaco apparato burocratico che scoraggia e frena l’efficienza delle imprese supersiti, del commercio e dell’artigianato, il quale ha perso la gran parte dei maestri di mestiere; gli anziani portatori d’esperienza e dell’eccellenza artigiana. Dall’articolo è ben chiaro che la Regione Piemonte è fortemente determinata non solo nell’accoglienza agli extracomunitari (dando loro i corsi d’italiano gratuiti) ma a inserirli sempre di più nel contesto sociale e questo è l’assurdo, nelle famiglie piemontesi, considerando gli stranieri un fatto acquisito, stabile, quali nuovi piemontesi.   

Se i cittadini se ne vanno, è per mancanza di lavoro, di tutela, di buona sanità, di giustizia quale valore etico-sociale e distributiva, si sentono abbandonati, al contrario di quanto è dato gratuitamente a questa gente non per solidarietà ma per turpi interessi politici di questa sinistra, che si abbassa a tutto pur di avere il voto.

Un demagogico e costoso progetto, senza una visione futura, che non salverebbe nulla ma porterebbe il paese, le cui famiglie sopravvivono grazie a ciò che resta dei loro risparmi e delle pensioni degli anziani, al fatale fallimento.

Sotto riporto la parte finale originale dell’articolo interessato.

“Welfare sì, ma con l’innovazione” dal giornale Regione Piemonte “NOTIZIE” del Dicembre 2017

 

(Ampliando l’argomento: quando mai si è chiesto o si è pensato di chiedere, attraverso una consultazione popolare, ai cittadini italiani ed europei, se erano d’accordo di accogliere, non solo un numero adeguato, ma migliaia e migliaia di extracomunitari? Mai, la fiumana di disperati è arrivata violenta, incontrollata, irrefrenabile. Questa è democrazia partecipativa? No, ignorando la democrazia, il passo verso forme di totalitarismo è breve. E non invochiamo il primo e vero Trattato di Schengen, che non centra nulla con l’accoglienza di extracomunitari).

La situazione è gravissima; giungere a questi livelli significa abuso di potere, pura insensatezza, scollamento dalla realtà culturale regionale, depauperazione di ogni valore morale, della stessa dignità di uomini liberi e della nostra memoria storica piemontese e umana. Folle è volere una omologazione improbabile, pericolosa per gli effetti negativi scatenanti e assumendosi, inoltre, responsabilità e ruoli politici che non spettano a niuno, tantomeno a un governo temporaneo della Regione, che enormi guasti ha prodotto, poiché fin già dalle prossime consultazioni italiane del 4 Marzo, molte cose potrebbero cambiare, compreso lo Status gerarchico, certamente non inossidabile, della Regione Piemonte.

 

Ancora sull’istruzione e gli extracomunitari

Ritorno su un punto dolente che duole sempre più, ed è la gravissima mancanza d’istruzione nelle scuole italiane, argomento già trattato ampiamente nel mio BLOG (stracanen.it), che tuttavia persiste come un male pernicioso oramai inguaribile.

Giorni addietro il conduttore di RAI 1 del mattino Franco di Mare, ha mostrato e commentato, con evidente disappunto, una scena tratta dal quiz serale “l’Eredità” condotto da Fabrizio Frizzi.

In verità il quiz è da cassare, si rivela sciocco, senza capo né coda, con domande disordinate da livello 1° elementare, alle quali, troppe volte, il concorrente o la concorrente non sanno rispondere o dicono fesserie del tipo: “In che anno è morto Hitler?” Sul monitor compaiono quattro date, di cui una giusta. Il o la concorrente medita, poi risponde con una risatina: “nel 1974”. Risposte di questo tenore sono anni che le vediamo e ascoltiamo, dando un’immagine pubblica negativa dell’ignoranza italiana e di un infimo livello culturale e d’istruzione in quale che sia la materia; geografia, storia, matematica, letteratura, scienze e via così. Tuttavia, sono invece quasi tutti bene informati su cantanti di musica leggera, canzonette varie e il calcio; comunque il quiz distribuisce denaro che qualche volta premia il o la concorrente che indovina la risposta giusta. A volte capitano concorrenti anche bravi ma purtroppo, sono molto rari.

Inoltre la trasmissione dimostra di considerarsi per pochi, ovvero; i partecipanti, scelti con molta cura, sono in prevalenza studenti o giovani laureati, gli altri più maturi, svolgono professioni “nobili” o occupati in impieghi pubblici e operatori in attività artistiche, rarissimi gl’imprenditori e artigiani. Non ricordo “umili” operai metalmeccanici, o di altro genere, forse, come partecipanti, farebbero sfigurare il quiz, condotto con molto garbo dal signor Frizzi, il quale, commentando una risposta su alcune verdure, aveva usato, chissà perché, l’aggettivo “umile” per un ortaggio come la rapa.

Il quiz, come altri prodotti televisivi frutto dalla nuova RAI al servizio del potere, è uno specchio fedele di com’è malridotta l’Italia in fatto di cultura e istruzione. Tuttavia non è tutta colpa degli italiani, è anche la politica messa in campo in decenni da un modello di sinistra; quella del “tutto facile”, che premia tutti, del diritto assoluto all’eguaglianza, tutti promossi, nella consolidata, utopica pianificazione culturale di chiaro stampo marxista: ovvero, cancellare la meritocrazia, che è discriminazione.

Chiudo l’argomento rilevando che questo flusso continuo d’individui extra-comunitari deve essere fermato a tutti i costi, basta parole. Fermiamo anche questa turpe, ignobile pubblicità sui bambini gravemente ammalati che troppe associazioni pseudo umanitarie sfruttano e mercanteggiano intoccabili, libere di agire. La politica della solidarietà che si beano d’imporci è fallace, non serve; la vera solidarietà va al cuore, non passa attraverso le tasche di politici millantatori e corrotti.

Oggi le scuole sono prematuramente multirazziali, frequentate da bambini e ragazzi che nella grande maggioranza parlano poco e male l’italiano, non conoscono nulla della nostra cultura, che nessuno insegna loro e c’é l’annoso, irrisolto problema della religione. Per tutto questo non sono stati approntati programmi scolastici che normalizzino una situazione che è nella più totale disorganizzazione.

Le politiche degli attuali governanti è “improvvisazione in tutto” e tutto il paese è nel caos più totale. Costoro tappano la bocca agli italiani con gli 80 Euro, opera della monarchica magniloquenza del reuccio signor Renzi e dei suoi compagni che ne fanno un vanto, sbandierandola ovunque. Un insulto vergognoso a un popolo lavoratore che merita tutt’altro rispetto, non la carità.

Urge definire strategie contro queste sinistre e i loro complici, esse non vanno solo sconfitte ma devono essere messe a tacere.

È in ballo il nostro futuro di piemontesi, lombardi, veneti, romagnoli, abruzzesi, emiliani, napoletani, calabresi, siciliani, sardi e così tutt’insieme, ma nella salvaguardia delle nostre diversità in questo straordinario mosaico di culture che fanno unica questa penisola. Italiani, si, ma nel rispetto e la tutela delle nostre lingue, tradizioni e costumi.

 

Il bullismo

Bullismo. Immagine dal Web

 

Sinonimo oramai desueto ma ancora usato in politica per sottovalutare la delinquenza minorile che si trasforma in criminale, con giudici avvezzi a un facile buonismo nel giudicare i colpevoli; le leggi italiane sono rimaste all’epoca della “monelleria”. Usare il “pugno duro” è il minimo che si possa fare nell’attuale, grave situazione di disoccupazione che aggiunta ai migranti crea malavita. Una situazione che ha creato una diffusa sfiducia, è la totale assenza dello Stato nel salvaguardare e proteggere i cittadini, i quali, imbelli di fronte ai delinquenti, se si difendono e sparano, vanno in galera. È invero “l’Ingiustizia applicata”; una nuova laurea. Tutto il macchinoso apparato della giustizia è oramai al collasso, ed è pubblicamente riconosciuto che la troppa, inutile burocrazia blocca i processi per anni ma che nessuno vi ha posto, o non ha voluto porvi, rimedio.

Si tratta di una situazione ingarbugliata, che può avere un’origine bivalente, ovvero: l’errore catastrofico di valutazione nell’abolire il servizio militare di leva, che ha prodotto milioni di giovani, i quali, liberi da quel vincolo, hanno occupato grandi spazi vuoti nelle comunità, in un tempo relativamente breve. E la conseguenza diretta di quell’errore si è rivelata ben presto negativa e fatale per loro e per la società in cui vivono. Il troppo tempo libero senza una gran voglia di impiegarlo con dovizia, pochi controlli e soldi in tasca da spendere; il passo è breve per cedere a  tentazioni e sensazioni proibite e facilmente si arriva alla droga leggera, poi a quella pesante e per molti l’ultimo viaggio. Un’altra terribile piaga sociale che travolge le famiglie.

È imperativo occupare i giovani; si deve ritornare al Servizio militare di leva o a un periodo di Addestramento militare obbligatorio. Una rigida disciplina, conoscenza e pratica delle armi saranno salutari, preparando i giovani a essere buoni cittadini. L’Art. 52 della Costituzione Italiana recita: “La difesa della patria è sacro dovere del cittadino” e prosegue; Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalle legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici. Ecco perché è importante lo studio della Costituzione, che va riproposto a partire dalle scuole.

“Quando c’era una sentinella armata ai confini del paese”

 

Se finalmente apriamo gli occhi, ci ritroviamo in una società malata, che ha smarrito i valori identitari genuini, contagiando genitori, figli e nipoti, in un paese con governanti arretrati, inadeguati, impreparati a riceverli, che li rifiuta, togliendo loro il lavoro, l’istruzione, e la fiducia nel futuro. Tutto è provvisorio, non ci si sposa e non si hanno figli in questo clima d’insicurezza, ecco la scottante verità. Una situazione, di cui la stessa classe politica ne è stata la nefasta e feconda matrice, provocando disastri inimmaginabili in queste nuove generazioni, causando guasti che per porvi rimedio non basteranno molti decenni, ma occorre la ferma volontà di cambiare.

In questo terribile periodo storico di confusione d’idee e di ruoli, un’Europa per nulla “europea” langue, mentre nel resto del mondo avanzano le economie di grandi Stati liberi e meno liberi che mantengono alta l’efficienza dei loro eserciti, poiché essi garantiscono la pace. L’Italia, ardente europeista, sopravvive soltanto quale serbatoio europeo di migranti. Sottomessa senza avere alcun titolo a discutere progetti e decisioni è ancora la piccola Italia che mendica contributi in denaro e fa incauti debiti per non fallire, al prezzo di essere servile e sollecita a tenere aperti i suoi confini.

C’è un libro di poco più di cento pagine che tutti gli italiani ma soprattutto i nostri politici dovrebbero leggere: “IL PACIFISMO NON BASTA” di Lord Lothian, editore IL MULINO.

 

Federazione degli Stati Uniti d’Italia

Un’idea sempre viva e attuale che salverebbe il paese è il progetto di una Federazione di Stati liberi e indipendenti: gli Stati Uniti d’Italia; potrebbe essere una forza dirompente in questa Europa macilenta. In basso è la copertina del libro di 110 pagine di Marcello Pacini e pubblicato nell’Aprile del 1994. Uno studio attento e compiuto su un programma che esaminava a fondo le due scelte: Stato Federale o Stato Unitario.

“Scelta federale e unità nazionale” di Marcello Pacini

 

In quel  periodo storico la Lega Nord, con una strenua e incisiva battaglia politica, aveva portato lo scompiglio nel tremebondo e pietrificato mondo politico italiano. La lega di Bossi percorreva l’Italia da capo a fondo come un ciclone, ponendo le basi per la Lega Centro e la Lega Sud. Nascevano giornali e ovunque esplodeva l’idea del federalismo. La Fondazione Giovanni Agnelli, aveva preso a quattro mani quest’idea e in due anni di convegni, dibattiti e ricerche, aveva raccolto le riflessioni che hanno dato origine ha questo interessante volume. I quotidiani illustravano il progetto e i giornalisti discutevano e scrivevano. Senza dubbio era stato un passo che preludeva a un evento straordinario; una vera rivoluzione nell’assetto politico della Repubblica Italiana. Ma…; quando in Italia si parla di cambiamenti politici, c’è sempre un “ma”; una congiunzione grande come un palazzo, sempre e dovunque presente quando anche solo si sfiora l’assetto politico statuale italiano, per cui si deve rivoluzionare tutto per non cambiare nulla, come ben affermava a suo tempo, il Nobile siciliano Principe Salina. Con la Lega Nord, in seguito, purtroppo, ci si è arenati e persi nella sabbia del deserto per cause più o meno accettabili che richiederebbero uno spreco inutile di carta e parole. Oggi si possono ben vedere e costatare in ogni ambito della vita dei cittadini piemontesi e italiani i risultati delle lungimiranti politiche delle sinistre che si autodefiniscono “progressiste”, ovvero, nella più fedele applicazione del pensiero espresso dal nobile Principe Salina.

Parlare di federalismo oggi, a questa categoria di politici è come credere nella magia o nei maghi; ma è un madornale errore, poiché mai dal dopoguerra la situazione generale del paese è stata così seria, per quanto si è deteriorata. Una realtà che nessuno di costoro neppure si sogna di mettere in chiaro, tantomeno la maggioranza del nostro governo che presenta riprese impossibili, inesistenti, inventate per convenienze politiche su basi astratte e elettorali. Sono menzogne costruite con la complicità di un’Europa distratta, chiusa nelle proprie crisi politiche, in maggioranze di governo frutto di estenuanti trattative. Tuttavia la Germania sopporta gli scossoni perché ha un’economia solida, ed è soprattutto, uno Stato federale, ben organizzato e decentrato, con cittadini che lavorano e producono come ogni buon tedesco sa e deve fare.

L’Europa Unita si è fermata allorquando non ha saputo costituirsi in una vera Federazione Europea; imputabili in buona parte gli “stati nazionali”, pacifisti a oltranza come l’Italia, in quanto “società chiuse”.

«Lo stato nazionale è la forma compiutamente sviluppata della società chiusa, Si ritrova così una verità elementare: la pace comporta la negazione di uno degli aspetti fondamentali che la storia ha sinora sempre presentato: “la società chiusa”, ovvero, la divisione politica del genere umano. Questa negazione è determinata, il che significa anche storicamente accertabile. Per passare dalla situazione governata dalla guerra a quella governata dalla pace bisogna eliminare i rapporti di forza tra gli stati e sostituirli con rapporti pienamente giuridici; bisogna cioè sviluppare sulla base della negazione del nazionalismo, il federalismo». (Da “Il pacifismo non basta”). Quindi l’Italia vuole “l’uovo e la gallina”. Sempre più accentramento dei poteri, non negazione del nazionalismo e nessuna divisione dei poteri.

“Il federalismo? Dopo il Duemila” da la Repubblica del 29 Ottobre 1994

 

“Un buon federalismo con i piedi per terra” da la Repubblica dell’anno 1994

 

Condividi questo articolo

“…NO alle piccole patrie”

Sono parole pronunciate qualche tempo fa del Presidente del parlamento europeo Antonio Tajani (italiano), riferendosi alla Catalogna ma è anche un monito per altri. Un demagogo incapace che vorrebbe risanare l’ambiente e civilizzare l’Africa subsahariana investendo miliardi di Euro europei (da una sua dichiarazione fatta durante la visita a Norcia).

Sono improvvide, quanto sconsiderate dichiarazioni espresse da un uomo che occupa un posto chiave nella politica europea. È incomprensibile come un individuo di tal fatta possa svolgere, in Europa, un ruolo di tale importanza. Incomprensibile per noi, semplici cittadini, ignari di quanto succede in quel misterioso motore d’intrighi che muove ancora a Bruxelles la cavillosa burocrazia europea, oramai lontana dai popoli e dagli intenti dei fondatori della Comunità Europea.

L’attuale Europa si è appropriata ruoli che non ha; non è una federazione, non ha una vera Costituzione, non ha un esercito, non ha la salvaguardia sulla moneta unica, distribuisce molto denaro senza un valido controllo ma soprattutto non tutela la democrazia degli Stati membri, in quanto la stessa democrazia europea ha cambiato pelle trasformandosi in una plutocrazia autoritaria, ed è ciò che succede oggi. Appoggia un mandato di cattura europeo per Carles Pigdemont e i suoi quattro ministri catalani per ribellione, sedizione e malversazione; sono comportamenti spagnoli paritetici al fascismo franchista mai definitivamente debellato. E ancora minacce dell’Europa (con l’Italia in prima linea) all’Austria e Ungheria per un’eventuale chiusura delle frontiere per fermare il flusso degli extracomunitari, un grave problema, questo, che si sta rivelando la chiave della frattura nei rapporti di vari Stati membri con l’U.E. che rimane cieca, sorda e muta.

 

Un po’ di storia della nostra “ patria cita” ( “piccola patria”)

Il 1861, una data fatidica per la realizzazione dell’Unità che ha dato inizio a un rapporto-scontro mai sanato di Torino con il resto d’Italia.

La nostra “patria cita”; così è denominato dai piemontesi il Piemonte è, storicamente, una di quelle “piccole patrie” che oggi ha permesso a quest’uomo (Tajani, sempre lui) e a molti altri del suo livello, che comandano senza saper governare, di sedere su poltrone che mai avrebbero potuto occupare nel Parlamento della monarchia subalpina di quel tempo. Sono uomini di grande spessore quelli che dal 1859 al ’66 posero le basi per l’Unità d’Italia. Eccoli: partendo dall’estrema destra di Solaro della Margarita, Ottavio Revel e Cesare Balbo, a destra, Cavour; Azeglio e Lamarmora al centro; poi a sinistra Rattazzi, Brofferio, Valerio e molti e altri di egual valore. (Quale differenza!)

La difficile e controversa operazione unitaria descritta dall’allora Ministro dei lavori pubblici Stefano Jacini durante il Governo Cavour (1860/61), illustra le fasi critiche dell’avventura.

La chiave era stata il problema del Mezzogiorno e delle annessioni. La politica liberale non prevedeva una larga rappresentanza delle forze popolari; la contraddizione della «precarietà di uno Stato creato dal suffragio universale ottocentesco e di una legge che in un momento di rivoluzione accorda i diritti politici a un ristretto numero di persone». In sostanza lo Stato non poteva sottrarre i diritti politici e i privilegi al ceto più colto e più rivoluzionario del quale aveva estrema necessità. Il problema era stato risolto, in parte, con l’ammissione della legge. Lo Jacini aveva cercato di ammorbidire diplomaticamente la situazione ma inutilmente, il peggio era stato fatto.

I plebisciti (molto ristretti) dal 1860 al 1870, risolsero i problemi enormi delle annessioni ma avevano ignorato le forti tendenze federalistiche e di autonomia che arrivavano non solo dal napoletano ma anche da altre parti d’Italia. All’uopo, per i vari ministri sabaudi e Cavour, che incarnava l’autorità Regia, urgeva realizzare le leggi per creare i gangli vitali dell’amministrazione centrale dello Stato Sabaudo, per cui occorreva comprimere, senza troppi scrupoli, i venti di ogni autonomia. È stata un pretesto risorgimentale, l’unificazione nazionale, nata contro il volere del popolo e voluta intensamente dalla borghesia intellettuale per il proprio progresso economico e politico. È sufficiente osservare la composizione della “Legge elettorale” in Piemonte nel 1848 (residuale dallo Statuto Albertino), ove la Camera rispecchiava la Società Subalpina del tempo, che, con il sistema elettorale fondato sul metodo “uninominale” si era assicurata l’egemonia nel Parlamento e nel paese. Infatti, la prima legislatura risulta composta in prevalenza da liberi professionisti, avvocati, uomini di legge, funzionari di Stato e magistrati, pochi gli ecclesiastici (cinque in tutto), ed una lieve presenza di proprietari di terre  (trenta su 204 deputati). Una visione statuale, uniforme, dai poteri fortemente centralizzati.

Per l’ex regno di Napoli l’annessione è stata una forzatura, poiché l’inviato di Cavour, quale primo Luogotenente a Napoli Farini Luigi Carlo, aveva espresso pareri negativi sui napoletani; inaffidabili, troppo diversi e insofferenti alla disciplina per accettare le rigide regole imposte dai Piemontesi. Ancora il Farini ammatteva che « L’annessione è stata deliberata non per caldezza di affetto nazionale ma per parossismo di due paure; negli uni la paura del ritorno del borbone, negli altri la paura del garibaldismo…». Inoltre molta gente comune, inascoltata, era autonomista e antiunitaria. Tuttavia la determinazione dell’idea unitaria di Cavour e i suoi uomini avevano compiuto il miracolo; alla fine Vittorio Emanuele II diventa Re d’Italia.

Per non creare confusione, bisogna capire il vero significato di “suffragio universale” riferito al periodo storico in cui si parla. Nell’Ottocento il termine “popolo” aveva un contenuto molto vago e impreciso. In generale s’identificava il “popolo” con la nazione stessa tutta, nel senso che si dava un significato “etnico” . Ma il termine “popolo” aveva anche un’altra definizione simile, che divergeva molto dalla prima. In questa seconda interpretazione, s’intendevano indicare le classi sociali medie e inferiori, ossia quelle che lottavano per il riconoscimento della loro esistenza politica contro le classi feudali e i loro privilegi. È anche un’interpretazione di Carlo Cattaneo concernente la struttura politica del suo federalismo.

Il popolo piemontese ha avuto troppi morti per una causa unitaria che gli era stata imposta con la visione di una Torino capitale ma che invece il progetto monarchico, in realtà, l’escludeva; un torto mai sanato. Si costaterà nel tempo il madornale errore fatto dall’autorità Regia, il re, nel costituire un’Unità d’Italia che, nessuno lo vuole ammettere, non è mai realmente esistita.

Ma non è finita per il Piemonte. Nel 21 e 22 settembre del 1864 un colpo gravissimo a sorpresa era stato inferto a Torino e ai torinesi con la notizia del trasferimento della capitale a Firenze.

Un tragico avvenimento che aveva comportato uno sconvolgimento per la città, per la sua economia, per le abitudini e per il prestigio che la città si era guadagnato. Tra i torinesi e il re c’era sempre stato un forte legame ma dopo la sorpresa, la reazione era stata; “Il Re ci ha traditi!”. E non avevano torto.

La protesta dei torinesi in piazza San Carlo aveva avuto costi umani terribili: 55 morti e circa 133 feriti; la gente disarmata di fronte ai soldati schierati che, da pochi metri, sparavano ad altezza uomo. Altri morti da aggiungere alle centinaia di migliaia che questa “piccola patria”, alla conclusione della storia, aveva dato in nome dell’Italia unita.

La “Patria cita” o “piccola patria”, con tutte le sue collaudate, efficienti strutture politiche, amministrative, burocratiche e militari aveva realizzato in circa un decennio (1860/1870); un’Unità che nessuno nell’Italia di quel tempo avrebbe mai saputo e potuto realizzare.

Cavour e tutti gli altri artefici di questo “miracolo” non potevano certo prevedere gli effetti futuri dell’allargamento di questo sistema politico detto a quel tempo “piemontesismo”. Un sistema che è stato tutt’altro che un “miracolo” per Torino e il Piemonte. La visione federalistica cattaneana aveva precorso i tempi di circa un secolo scegliendo la forma di governo più idonea per l’Italia.

Ma questo è tutt’altro discorso.

 

Condividi questo articolo

Trieste e Torino; storia di un declino che, in un certo senso, le unisce

Un dettagliato articolo di Paolo G. Parovel sul giornale LA VOCE DI TRIESTE del 6 novembre, che di seguito pubblichiamo, riassume le tristi vicende della città di Trieste, dell’attuale Free Territory of Trieste, del suo Porto Franco Internazionale e la spogliazione perpetrata nei sessant’anni di amministrazione civile provvisoria del Governo italiano con l’aggressione fiscale e il saccheggio economico.

Prendo spunto dai gravi fatti esposti nell’articolo, per palesare la situazione, non eguale ma simile nel tempo, verificatisi nel Piemonte, in particolare a Torino e la sua provincia.

Torino una Nazione che ha superato i mille anni di storia, era un tempo gloriosa e combattiva. Prima capitale d’Italia, capitale industriale, capitale dell’auto, capitale della moda, capitale del lavoro, capitale delle idee per creare lavoro, capitale dei primati militari e molto altro, oggi, scomparsa dallo scenario di chi produce lavoro e benessere, affonda nel suo declino come una maledizione che la perseguita per un continuus di amministrazioni politiche ottuse e incapaci. Una città in cui gli ultimi rampolli della vecchia borghesia hanno raccolto l’eredità del passato passando indenni attraverso la monarchia, la destra liberale, la repubblica, il socialismo e oggi complici dei comunisti, alimentano ancora un sistema politico che ha portato il Piemonte al fallimento non ancora dichiarato.

Nello scorrere dei decenni si è compiuta la rapina di tutto quanto nutriva il corpo della città quand’era capitale; svuotata dei suoi valori materiali e morali, ridotta a un museo industriale in rovina e in ultimo annientata, trasformata in un’altra capitale dai tristi primati e suburra senza futuro. Capitale delle chiacchiere, dei progetti senza costrutto, dei sogni irrealizzabili e dei grandi fallimenti, oggi si prepara a un altro gigantesco costosissimo bluff; la “Città della salute”, che succederà alla dismissione dei grandi impianti invernali del 2006 e all’incompiuta area Westinghouse, progetti faraonici di centri congressi polifunzionali, di una torre-albergo da 90 metri, un altro centro commerciale e molti altri flop, in una città che si svuota.

È la storia compiuta della nuova Torino catto-comunista e quanto segue sia scolpito nella memoria dei piemontesi e degli italiani.

Segue l’articolo originale: Trieste, il 26 ottobre e gli USA di Paolo G. Parovel (26 ottobre 2017). La Voce di Trieste tratto da http://www.lavoceditrieste.net/2017/10/26/trieste-il-26-ottobre-e-gli-usa/

Trieste, il 26 ottobre e gli USA

  di Paolo G. Parovel

Trieste, 26 ottobre 1954

 

Il 26 ottobre 1954 il primo Governo provvisorio di Stato dell’attuale Free Territory of Trieste affidato ai Governi degli Stati Uniti e del Regno Unito, l’Allied Military Government Free Territory of Trieste – AMG FTT, veniva sostituito nell’amministrazione civile provvisoria dal Governo italiano, secondo un Memorandum d’intesa firmato a Londra il 5 ottobre.

L’amministrazione diretta anglo-americana, efficiente ed onesta, aveva risollevato l’economia di Trieste con un regime fiscale ragionevole e con finanziamenti allo sviluppo economico come il counterpart fund, fondo di contropartita, destinato dagli USA al Free Territory of Trieste ed agli altri Stati europei membri dell’ERP – European Recovery Program, più noto come “piano Marshall”.

I risultati erano buoni perché i 27 anni di occupazione e poi annessione italiana a seguito della prima guerra mondiale non erano riusciti ancora a distruggere la cultura economica e la capacità imprenditoriale della Trieste absburgica nell’industria, nel commercio e sui mari del mondo.

Durante l’amministrazione anglo-americana l’Italia aveva invece finanziato ed armato a Trieste i nazionalisti ed i neofascisti italiani, spendendo somme enormi che li avevano trasformati un gruppo di potere sempre più ricco, arrogante, corrotto e violento.

Il 26 ottobre 1954

Quel 26 ottobre del 1954 la propaganda nazionalista spacciava il cambio di amministrazione provvisoria come “restituzione di Trieste all’Italia” promettendo un futuro radioso per tutti, ed i fotografi e cineoperatori immortalavano una folla enorme di entusiasti e di curiosi che accoglieva le truppe italiane in Piazza Grande e sulle rive.

Ma quella folla era formata, paradossalmente, per buoni due terzi da italiani venuti a Trieste per vedere i triestini che accoglievano gli italiani. La maggioranza dei triestini era scettica o contraria e si era tenuta lontana dalle manifestazioni, mentre il poeta Biagio Marin, benché di parte italiana, scriveva profetico:

«Trieste è felice stasera. Celebra con trasporto la sua futura sventura. Perché tutte le volte che la nostra città si è concessa con sconfinato entusiasmo all’Italia amata, ha sùbito imboccato la triste strada della decadenza. Noi eravamo il gioiello dell’impero di Maria Teresa e il porto dell’Austria, eravamo la rosa profumata degli Asburgo. Con l’Italia saremo un piccolo fondaco gestito in modo sbrigativo dai burocrati e diventeremo una società strozzata e rassegnata di facili guadagni e di indomabili nostalgie. Oggi è cominciato il nostro tramonto.» 

E così è stato, perché il nuovo Governo amministratore mise subito sotto controllo l’economia locale dissanguandola illegalmente con le enormi tasse dello Stato italiano, e rendendola dipendente da finanziamenti pubblici italiani, per i quali Roma continuava in realtà ad utilizzare i fondi americani destinati al Free Territory of Trieste.

Il metodo dell’aggressione fiscale

Io sono uno dei testimoni diretti dell’inizio, quel giorno stesso, dell’aggressione fiscale italiana all’economia del Free Territory of Trieste, e della sua prosecuzione sistematica.

Nel 1954 avevo 10 anni ed miei genitori, Eugenio Parovel e Nerina Widmar, conducevano con successo la nostra agenzia di distribuzione della stampa internazionale con libreria, fondata nel 1882 con sede dietro Piazza Grande, in via del Teatro, filiale ad Istanbul, Istiklal Caddesi 495, e durante la guerra anche a Lubiana.

Di quel 26 ottobre ricordo benissimo due cose: la folla eccitata nella piazza e sulle rive, sotto la pioggia, e l’irruzione brutale immediata della Guardia di Finanza italiana nella nostra agenzia. Mio padre, nato cittadino austriaco a Trieste nel 1900, aveva lavorato anche in Francia, in Belgio, ad Alessandria d’Egitto, a New York, al Brennero e ad Istanbul, ma non aveva mai ricevuto un trattamento simile.

Era un imprenditore onesto ed i finanzieri non trovarono nulla di irregolare, ma l’allora Intendenza di Finanza italiana (l’attuale Agenzia delle Entrate) lo caricò egualmente di tasse così ingiuste ed eccessive da paralizzare l’azienda.

Lui se ne ammalò, ma non si arrese. e riuscì anche a contribuire alla riapertura nel 1957 della Galleria del Tergesteo, proprietà della società Tripcovich del barone Gottfried von Banfield, spostandovi la libreria con nuovi arredi dell’architetto Alessandro Psacaropulo ed una sala d’arte affacciata su Piazza della Borsa e gestita con Piero Florit, dove esponevano Lucio Fontana ed altri autori di fama.

Mio padre morì l’anno dopo, a soli 58 anni, e l’Intendenza di Finanza italiana ci aggredì immediatamente con tasse di successione cinque volte maggiori del dovuto. Ricorremmo alla giustizia tributaria di primo grado, che ci diede ragione, ma l’Intendenza di Finanza, pur sapendo di aver torto, ricorse in secondo grado, dove vincemmo nuovamente. Allora l’Intendenza ricorse ad una Commissione centrale di Roma, che ci dette torto senza consentirci la difesa.

Questa violenza illegale del fisco italiano ci mise in difficoltà tali che avremmo dovuto chiudere se non avessimo avuto l’appoggio dei dipendenti e di due gentiluomini formati nella Trieste austriaca: il barone Banfield ed Ugo Hirn-Irneri, fondatore del Lloyd Adriatico, che non dimenticava di essere stato aiutato dai miei genitori quand’era povero.

Dopo qualche anno dovemmo comunque cedere l’agenzia di distribuzione, e quando negli anni ’80 dovetti cedere anche la libreria il fisco italiano mi impose tasse tre volte maggiori del dovuto, che potei far annullare solo dopo 15 anni di cause legali e danni economici conseguenti.

Sei decenni di saccheggio economico

Dal 1954 l’amministrazione italiana ha applicato questo trattamento per sei decenni a migliaia di imprese di ogni genere e dimensione, vi ha aggiunto il sabotaggio del Porto Franco internazionale, il furto dei Cantieri navali, la chiusura della Borsa valori l’eliminazione graduale di quasi tutte le grandi imprese storiche triestine di terra e di mare. Anche il Lloyd Adriatico è stato venduto, e la Tripovich è stata eliminata con procedure scandalose.

In questo modo Trieste, la Filadelfia d’Europa creata dall’Austria attorno al porto franco con due secoli di immigrazione di imprenditori e lavoratori di più lingue, culture e religioni è divenuta così terra di emigrazione verso altri Paesi europei e verso le Americhe.

Gli effetti di questo saccheggio continuato erano stati coperti per alcuni anni dal boom del commercio di confine con la Jugoslavia e verso l’Est europeo, ma quando è cessata anche quella risorsa esterna Trieste si è trovata di nuovo in piena crisi, aggravata da una classe politica italiana locale sempre più inetta, avida e corrotta.

Il risultato è quello drammatico che stiamo vivendo adesso, con metà popolazione ridotta difficoltà crescenti o già in miseria ed i giovani costretti ancora ad emigrare per tentare di costruirsi un futuro mentre le vie di Trieste sono trasformate in cimiteri di negozi, ed il centro storico è sempre più degradato.

Al posto della nostra agenzia, in via del Teatro oggi c’è una paninoteca mentre la Galleria del Tergesteo, dopo un restauro senz’anima, è stata ridotta da salotto della città ad una gigantesca pizzeria caprese sgangherata e fuori posto, e la banca superstite sta per essere sostituita da una polleria.

Tutto questo, assurdamente nell’unica città d’Europa che ha diritti di Stato sovrano, di Porto Franco internazionale e di centro finanziario indipendente garantiti dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, creati per consentirle di diventare un centro di ricchezza straordinaria per sé e per tutti gli altri Stati.

Il 26 ottobre 1994

Nel 1994, quarant’anni dopo quel 26 settembre del 1954, la Trieste saccheggiata dall’amministrazione provvisoria italiana sopravviveva ai margini della guerra croato-serba che aveva dissolto la Jugoslavia, ed io mi occupavo di analisi per monitorare un’operazione segreta italiana che rischiava di internazionalizzare il focolaio di crisi ex-jugoslavo e di destabilizzare mezza Europa.

Il problema, già sotto osservazione da tempo, consisteva nel fatto che ambienti particolari profondamente infiltrati nelle istituzioni italiane volevano approfittare nella guerra croato-serba organizzando nell’Istria incidenti da attribuire a nazionalisti croati per giustificare un intervento militare “a difesa della minoranza italiana”.

L’opinione pubblica era stata preparata rilanciando come verità storica propagande antipartigiane fasciste e naziste del 1943-45 rielaborate da ambienti noti della destra nazionalista e neofascista italiana. Ma l’appoggio principale proveniva dagli ex-comunisti italiani, ed i collegamenti internazionali dell’operazione arrivavano in Germania e Russia, i due Paesi che assieme all’Italia avevano favorito la dissoluzione violenta della Jugoslavia sabotando i tentativi degli USA di impedirla.

In Italia queste attività politico-militari segrete violavano la Costituzione della Repubblica e la legge 17/1982, ma avevano coperture così forti che la Procura Militare dovette sospendere le indagini già avviate sui responsabili, e la pubblicazione di notizie sui media italiani veniva sistematicamente impedita. Ci provarono il quotidiano Liberazione e Paolo Rumiz sul Piccolo, ma vennero bloccati dopo il primo articolo.

In Slovenia e Croazia se ne poteva invece scrivere sulla stampa, ma i loro Governi non reagivano perché quello sloveno era condizionato da forti influenze italiane, e quello croato era ancora in guerra. L’onere di bloccare anche questa manovra di destabilizzazione ricadeva perciò sugli Stati Uniti, ma nel 1994 Roma tentava ancora di ignorare i loro ammonimenti riservati.

Le propagande revansciste italiane si fondavano principalmente sulla tesi falsa che il Free Territory of Trieste non fosse mai stato costituito, che l’Italia avesse perciò conservato la sovranità su di esso, e che avesse quindi diritto ad esercitarlo sia su Trieste, sia sull’accessoria “Zona B” affidata dal 1954 all’amministrazione del Governo federale jugoslavo ormai estinto, che l’aveva delegata a Slovenia e Croazia.

La questione dell’ex “Zona B” era stata chiusa dalle Nazioni Unite con le Risoluzioni che nel 1992 avevano riconosciuto le nuove Repubbliche indipendenti di Slovenia e di Croazia negli attuali confini a seguito di plebisciti.

Con questa formula sono rimasti intatti i diritti di Stato del Free Territory attuale, formato dalla sua principale ex “Zona A” con la capitale, il Porto Franco internazionale e cinque Comuni minori.

Per scoraggiare del tutto l’operazione revanscista italiana era necessario perciò ricordare con diplomazia ma con fermezza al Governo italiano che su Trieste non esercitava diritti di sovranità, ma soltanto l’amministrazione provvisoria su delega statunitense e britannica.

Così il 26 ottobre 1994 l’ambasciatore degli USA in Italia, Reginald Bartholomew, diplomatico di carriera, indirizzò alla popolazione di Trieste una lettera ufficiale di saluto «nel quarantesimo anniversario del passaggio della città all’amministrazione civile italiana», ricordando i legami storici e di amicizia tra i cittadini di Trieste e gli Stati Uniti d’America, e concludendo con un «augurio di pace e di prosperità per il cammino verso il 2000» LINK.

Il messaggio, nella sua eleganza formale, non era evidente ai profani, ma perfettamente comprensibile ai diplomatici italiani. I quali sapevano benissimo che durante la guerra fredda gli USA avevano evitato di intervenire nella conduzione delle amministrazioni italiana e jugoslava delle due zone del Free Territory of Trieste, ma avevano anche sempre curato di mantenere intatto lo status giuridico indipendente di Trieste e del suo Porto Franco, in attesa del momento strategico favorevole per attivarne le funzioni economiche internazionali.

Il 26 ottobre 2017

Ci sono voluti altri 23 anni, ma oggi, 26 ottobre 2017, quelle condizioni si sono finalmente concretate, con la modifica radicale della situazione politico-strategica dell’Europa centro-orientale e con il raddoppio del Canale di Suez, che consentono l’incremento dei traffici internazionali sugli assi ferroviari Baltico-Adriatico e Transiberiano tramite Vienna-Bratislava ed i porti adriatici nord-orientali di Trieste (Free Territory), Koper (Slovenia) e Rijeka (Croazia).

Vi sono inoltre gli strumenti giuridici per estendere, con intese tra Free Territory, Slovenia e Croazia, zone franche speciali del Porto Franco internazionale di Trieste anche al vicino porto sloveno di Koper ed ai porti croati di Rijeka e di Ploče per lo sviluppo dei traffici con l’Ungheria, la Bosnia-Erzegovina e la Serbia.

Oggi possiamo quindi ricambiare da Trieste quegli auguri del 1994 al nuovo ambasciatore degli Stati Uniti d’America a Roma, Lewis M. Eisenberg, che aggiunge a straordinarie competenze personali nel mondo della finanza internazionale l’esperienza di membro e poi Presidente del Consiglio di amministrazione della Port Authority di New York e del New Jersey, che ha relazioni con il Porto Franco di Trieste dal 1921.

 

 

Condividi questo articolo

Un ravin ancreus, sensa vёdd-ne la fin (Un precipizio profondo, senza vederne la fine).

Ѐ una frase in piemontese, la mia prima, amata lingua, con la quale manifesto l’ira, che non più contenuta, diventa “funesta”, quando le situazioni e gli eventi che ci coinvolgono sono pessimi, non provocati da noi ma imposti e subiti da cause esterne, contrarie alla nostra volontà, al buon senso.

La vecchiezza, in fondo, è il bene dell’uomo, quando egli conserva una buona memoria del tempo passato, degli accadimenti sia positivi sia negativi vissuti nel corso della propria esistenza, l’età avanzata diventa uno strumento per commisurare, sulla bilancia della vita, l’esito finale.

La scuola salesiana ci ha indicato i percorsi da seguire: il lavoro, lo studio, il dovere, l’onestà, la volontà e la determinazione nel perseguire gli obiettivi individuali e di gruppo, ma sempre nel rispetto delle regole e del prossimo. In fondo a tutto poi ci sono i “diritti”, se il tuo esercitare ha avuto ragione di pretenderli; ma solo a questi patti.

Erano le regole e la disciplina teutonica che impartiva Don Trivero attraverso il trillo del suo fischietto, con il quale scindeva i diversi momenti della giornata: la prima adunata al mattino e guai a tardare di un solo minuto, un momento di raccoglimento in chiesa, poi l’entrata a scuola, la ricreazione, il veloce rientro, il doposcuola e l’ultima adunata per il rientro a casa.

Se infliggeva una punizione o dava qualche benevolo scappellotto, avvisava in nota sul diario i genitori che firmavano rincarando la dose con sonori ceffoni.

Nel nostro tempo non c’è più tempo. Tutto è stravolto, sfalsato, finto: quale lavoro? Quale studio? Quale scuola? Che cosa sono il dovere, il rigore e l’onestà? Quali obiettivi da perseguire quando c’è un vuoto totale d’idee? Quali regole, se oramai sono ritenute inutili?

L’esito finale non può essere che il fallimento; non esistono panacee e nessun’altra possibilità.

La grande crisi reale per mancanza di lavoro è una questione venuta prepotentemente alla luce all’incirca nell’ultimo settennio, causa la caduta del PIL, uno spaventoso debito pubblico l’insolvenza dello stato nei confronti delle troppe imprese creditrici. Una vicenda che si è degradata negli ultimi venticinque anni circa, con continuo calo della produzione e del relativo mercato, il trasferimento, vendita e chiusura delle grandi e medie aziende poi l’invenzione della tragica parola “ristrutturazione”, che poi significa mobilità, licenziamenti, la C.I.G.

Un quadro molto dettagliato della situazione l’ha fatto Luciano Gallino in un suo libro che sotto riporto in copertina per il suo titolo molto eloquente. Un libro che tutti gli italiani dovrebbero leggere, in particolare i piemontesi.

L’Artigianato

Il mio riferimento sul mondo del lavoro lo rilevo dal settore artigiano, che è il polso reale dell’economia imprenditoriale; se la grande industria investe, lavora e produce, si muove anche l’artigianato, in caso contrario tutto rallenta e oramai troppo spesso, si ferma. Tuttavia questo settore, che è costituito da imprenditori che rischiano in proprio e sono a diretto contatto con il mercato, ha trovato, anche in questa grave crisi, risorse e alternative rapide ed efficaci, sono aspetti che la grande industria non può avere, proprio per la sua dimensione. Tuttavia il prezzo da pagare è stato, ed è carissimo per perdita dei posti di lavoro, chiusura d’imprese e troppi maestri artigiani anziani senza avere il valido ricambio.

Vedi tabella.

ANDAMENTO OCCUPATI NELL’ARTIGIANATO
 
Anni Imprese Autonomi Dipendenti Occupati Totale
2007 135.639 179.511 134.022 313.533
2008 136.501 181.099 133.243 314.342
2009 135.529 178.866 122.191 301.057
2010 135.355 176.995 119.563 296.558
2011 136.070 176.007 118.606 294.613
2012 133.000 173.000 114.516 287.516
2013 129.503 169.980 109.212 278.192
2014 126.142 157.572 115.211 272.783
2015 125.228 151.601 107.110 258.711
2016* 123.277 145.700 107.724 253.424

*elaborazione da ultimi dati Regione Piemonte Osservatorio dell’Artigianato 30/6/2016

 

L’andamento occupazionale di lavoratori autonomi e dipendenti nell’artigianato per gli anni 2007 – 2016 indicati nella tabella e nel grafico evidenzia una progressiva diminuzione; infatti dalle 313.533 unità lavorative del 2007 si scende a 253.424 del 2016, con una perdita complessiva di 60.109 posti di lavoro; mentre nell’anno scorso si è registrato un calo di 5.287 occupati.

 

Cassa integrazione in deroga

A seguito delle intese tra Regione Piemonte/INPS/Parti sociali, la Cig in deroga è stata estesa a tutti i settori, incluso quello artigiano, con la finalità di contribuire al superamento dell’emergenza occupazionale derivante dalla crisi economica che ha interessato tutti i comparti produttivi del Piemonte. Le domande di Cig in deroga al 30 novembre 2016 sono state 3.531 di cui 2.547 presentate da imprese artigiane. I lavoratori coinvolti complessivamente sono 10.177 di cui 5.290 dipendenti d’imprese artigiane. Le ore di Cig in deroga, per il periodo preso in esame, relativamente al comparto artigiano, si attestano a 1.893.288 sul totale di 3.659.164

La diminuzione dell’utilizzo della Cig in deroga negli anni 2014 – 2015 -2016 è dovuta anche al fatto che le regole di fruizione della stessa sono mutate, prevedendo nel 2014 il finanziamento per 11 mensilità, nel 2015 per 5 mensilità e nel 2016 per 3 mensilità.

DOMANDE CIG IN DEROGA 2016
Tipologia aziendale Domande Lavoratori Ore CIG
 Artigiane 2.547 5.290 1.893.288
 Non artigiane non cassa integr. 792 2.569 933.238
 Non artigiane cassa integr. 14 561 219.716
Altre 178 1757 612922
TOTALE 3.531 10.177 3.659.164

*elaborazione dati Regione Piemonte Osservatorio Mercato del Lavoro al mese di novembre 2016

 

Come accade da molto tempo, il settore artigianato è, come si dice, “l’ultima ruota del carro” per i vari governi succedutesi in passato ma mai come nell’ultimo settennio, pur contribuendo per l’11% al PIL. Tuttavia il settore opera come meglio può nella speranza che cambi il clima politico verso una vera libertà d’impresa.

Sugli sperperi in denaro della RAI, su immigrazione e Sanità pubblica.

Sempre e solo parole che mangiano parole, troppe e inutili come gli sperperi inverosimili e i costi spropositati in risorse e denaro pubblico della Rai TV nazionale (che tale non è) con spettacoli fantasmagorici e sciocchi, fatti per confondere i cittadini. Per i politici è indispensabile obliare gli abnormi errori perpetrati dai loro governi di sinistra per riempire spazio e tempo; confondere la gente con il calcio, le risate, le canzonette, i ridicoli film TV, i programmi boccaceschi, i quiz diseducativi, sciocchezze di ogni genere e per finire i canti delle sirene. In pochi anni il livello è sceso sotto zero; quasi mai all’ascolto la buona musica e il bel canto, come, ad esempio, ripresentare l’operetta, sconosciuta ai giovani. La televisione, oramai strumento di proprietà della sinistra, fa solo politica; una macchina mangiasoldi tutta da rifare. C’è da riflettere sull’ultima, pasticciata puntata della “PROF”, che nell’aula di una scuola, in modo neanche troppo sottinteso, la scolaresca rigorosamente multietnica, taccia italiani e piemontesi di razzismo, quando extracomunitari e africani li abbiamo ogni dove e molti di loro non sanno neppure perché sono qui.

Si sta iniziando a pagare lo scotto della colpevole sottovalutazione del problema immigrazione extracomunitaria a livello sanitario.

Un problema enorme per la disastrata sanità pubblica, oramai inerme di fronte di migliaia d’immigrati africani che entrano in Italia senza nessun controllo medico, mentre i nostri figli e nipoti sono costretti a digerire cocktail di vaccini vari, purtroppo resi necessari per premunirsi dalle infezioni.

Da un’intervista al Dott. Alfredo Guarino sul “Corriere del mezzogiorno” di Napoli del settembre 2017; l’argomento è la poca attenzione rivolta ai casi di malaria e tubercolosi.

Il fatto della bambina di 4 anni morta di malaria a Trento, ha scatenato preoccupazioni e paure per il contagio di questa pericolosa malattia creduta scomparsa.

Il dott. Guarino, specialista di malattie infettive nell’ospedale di Napoli, spiega che nella sua lunga carriera ha visto migliaia di bambini colpiti da queste malattie infettive, e che oramai dobbiamo fare l’abitudine ed essere preparati di fronte  a queste masse d’individui che arrivano da aree a rischio. Il problema è serio, per cui la situazione che si è rapidamente creata, va affrontata in modo radicale per evitare il contagio. Tuttavia il medico afferma che c’è un altro dato preoccupante: Ho visto più casi di tubercolosi negli ultimi due anni nel mio reparto, di quanti abbia registrato nei trent’anni precedenti; e spiega che in Francia tutti si vaccinano contro la tubercolosi; purtroppo in Italia la soluzione sarebbe bocciata in partenza. I pazienti affetti da queste malattie infettive sono da curare, aspetto molto difficile, in particolare per i bambini che vivono nei campi Rom, perché questi sono migranti senza una dimora stabile. E racconta la storia di un bambino Rom affetto da tubercolosi,  che il medico voleva curare e gli aveva chiesto dove abitasse per portare le medicine. Il bambino aveva dato un’indicazione approssimativa del campo, che poi il medico non era riuscito a trovare. In seguito aveva poi saputo che il ragazzino era morto.

L’immigrazione africana oramai ha altri interessi; si è trasformata nella nuova cultura economica post-industriale italiana; un affare probabilmente redditizio, molto pubblicizzato e sponsorizzato dalla TV nazionale mediante decine di sedicenti associazioni che chiedono continuamente denaro.

Del fenomeno migrazione s’interessano anche le più grandi banche d’affari del mondo.

 

Zero Hedge 22 agosto 2017

Un nuovo studio appena pubblicato da Goldman Sachs potrebbe adesso aggiungere ancora più benzina al fuoco: in esso si legge che, esattamente come denunciato da Roma, l’Italia è il paese meno adatto ad assorbire i migranti. Ciò si deduce sulla base di tre indici di integrazione: (1) integrazione economica; (2) integrazione sociale; e (3) efficacia delle politiche.

Non sarà una novità per i lettori abituali, ma la Goldman espone il problema in questi termini:

“I flussi migratori verso l’Europa sono in evoluzione, e i paesi non hanno tutti la stessa capacità di integrare i nuovi arrivati. I migranti che attraversano il Mediterraneo provengono in misura sempre maggiore dall’Africa sub-sahariana piuttosto che dalle zone di guerra del Medio Oriente. I paesi di destinazione sono sempre più l’Italia e la Spagna, mentre i flussi attraverso Grecia e Balcani occidentali verso la Germania si sono ridotti, soprattutto a seguito dell’accordo UE-Turchia e l’imposizione di controlli più stringenti alle frontiere.”

Su quest’aggrovigliata situazione una buona parte di responsabilità è da attribuire alla Cancelliera Dr. Angela Merkel per la sua esplicita, quanto improvvida dichiarazione fatta sul finire del 2015 alla TV tedesca; nel suo intervento si era espressa con queste parole: «…siamo ricchi, quindi possiamo accogliere questi emigranti…». E arrivarono a migliaia.

Non era ben chiaro se a essere ricchi, si riferiva alla Germania o all’Europa, comunque il governo italiano e la chiesa si erano lanciati subito a tutta velocità nell’accoglienza sfrenata senza minimamente curarsi della quantità da accogliere e sistemare e soprattutto chiedere, in qualche modo, un parere ai cittadini, anche in questo caso, scavalcati.

Il governo, in quest’affare, aveva intravisto delle convenienze politiche e non solo: sull’acquisizione di numerosi, facili voti e nel frattempo forti contributi europei da incassare sulle spalle di questa povera gente e guai all’Austria che voleva fermarli; subito Gentiloni si era unito alle minacce contro la stessa Austria. Circa un paio di mesi prima delle votazioni in Germania questi toni minacciosi della fanfara di governo italiana e del Papa si erano alquanto abbassati, riconoscendo utile un rallentamento e maggior rigore alle frontiere ma i madornali errori erano già stati fatti.

 

Condividi questo articolo

Italia terra di conquista. Aziende storiche vendute all’estero

25 giugno 2017 – Tratto da Mezzostampa

Il Made in Italy è sempre meno italiano, dato che le aziende di punta del settore dell’industria, della moda e degli alimentari vengono acquisite con preoccupante costante da holding straniere. Gli ultimi casi sono la Telecom venduta agli spagnoli che stranamente, pur essendo indebitati più di noi, hanno acquisito l’azienda italiana, e quello dei cioccolatini Pernigotti, venduti dai Fratelli Averna al gruppo Sanset della famiglia Toksoz. Pernigotti è un’azienda storica con oltre 150 anni di attività. Ma ormai siamo avviati su una china molto pericolosa per l’occupazione e per l’approvvigionamento delle materie prime, che rischiano di spostarsi in terra straniera. A tutt’oggi, solo per l’agroalimentare sono stati venduti marchi per circa 10 miliardi di euro. Ma la domanda che bisogna porsi è: “queste aziende potevano sopravvivere nel mercato globale senza far parte di grossi gruppi industriali?”.

Artigianato e tradizione spesso non vanno molto d’accordo con i ritmi e le pretese di un mercato in cui le spese di produzione si alzano e i profitti calano. Vendere è forse di vitale importanza per gli imprenditori, ma in tutto questo discorso si sente l’assenza dello Stato, che nulla sembra volere e potere fare per arrestare la dissoluzione del Made in Italy e, anzi, vessa sempre più le aziende con una pressione fiscale a livelli record. Non esiste settore che non sia stato toccato dalle mani delle ricche holding straniere. La strategia di questi gruppi è semplice: attendere il momento di difficoltà economica per appropriarsi di aziende con valore aggiunto notevole visto che, pur non più italiano al cento per cento, il prodotto italiano vende sempre e comunque, soprattutto all’estero.

Ecco così che un’opportunità di crescita per il comparto esportazioni è  ridotta al lumicino dall’esternalizzazione della proprietà e, molto spesso, anche della produzione. Il primato sul bel vivere e vestire non ci appartiene più, è meglio farsene una ragione. Ma quello che preoccupa di più è l’acquisizione di negozi, supermercati, fabbriche, ristoranti, da parte di cinesi che ormai sono l’etnia più numerosa, specie nel Sud Italia.

Vista la rapidità con la quale le aziende, oramai trasformate in pacchetti azionari, cambiano proprietà, nell’elenco potrebbe esserci stato qualche cambiamento ma conta poco, in Italia non tornano più. Qui di seguito c’è l’elenco recente di aziende vendute all’estero, ma sono solo una parte, e quelle più conosciute:

  • La Telecom è stata venduta….la cosa più grave che l’hanno comprata gli spagnoli che stanno più inguaiati di noi….e il Presidente della Telecom dice:”Non ne sapevo niente” (sigh)…
  • La Barilla è stata venduta agli americani…
  • L’Alitalia ultimamente diventata Società Aerea Italiana S.P.A. è la compagnia aerea di bandiera   italiana in amministrazione straordinaria ma poi commissariata. Il suo futuro è molto incerto
  • La Plasmon è stata venduta agli americani
  • La Parmalat, di quel buon signore di Tanzi, è stata venduta ai francesi della Lactalis
  • L’Algida è stata venduta ad una società anglo-olandese
  • L’Edison, antica società dell’energia, venduta ad una società francese, l’EDF
  • Gucci è nelle mani della holding francese Kering
  • BNL è controllata dal gruppo francese Bnp Paribas
  • ENEL cede buona parte delle quote ai russi (il 49%)
  • Il marchio AR, azienda conserviera quotata in borsa, di Antonino Russo, è passata ai giapponesi della Mitsubishi
  • Lo stabilimento AVIO AEREO è passato alla Generale Eletric…
  • I cioccolatini Pernigotti dei fratelli Averna venduti ai turchi della famiglia Toksoz
  • L’azienda Casanova, La Ripintura, nel Chianti, è stata recentemente acquisita da un imprenditore di Hong Kong
  • I baci perugina appartengono dal 1988 alla svizzera Nestlè
  • I gelati dell’antica gelateria del corso sempre alla Nestlè
  • Buitoni: L’azienda fondata nel 1927 a Sansepolcro dall’omonima famiglia è passata sotto le insegne di Nestlè nel 1988
  • Gancia: le note bollicine sono in mano all’oligarca russo Rustam Tariko (proprietario tra l’altro della vodka Russki Standard) dal 2011
  • Carapelli è nella galassia del gruppo spagnolo Sos dal 2006, cosi come Sasso e Bertolli
  • Star. Il 75% della società fondata dalla famiglia Fossati (oggi azionisti di Telecom Italia) nel primo dopoguerra, è in mano alla spagnola Galina Blanca (entrata nel 2006 e poi salita del capitale del gruppo)
  • Salumi Fiorucci: sono in mano agli spagnoli di Campofrio Food Holding dal 2011
  • San Pellegrino è stata acquisita dagli svizzeri della Nestlè dal 1998
  • Peroni è stata comperata dalla sudafricana Sabmiller nel 2003
  • Orzo Bimbo acquisita da Nutrition&Santè di Novartis nel 2008
  • La griffe del cachemire “Loro Piana”, fiore all’occhiello del made in Italy, è stata ceduta per l’80% alla holding francese Lvmh che già include simboli assoluti come Bulgari, Fendi e Pucci
  • Chianti classico (per la prima volta un imprenditore cinese ha acquistato un’azienda agricola del Gallo nero)
  • Riso Scotti (il 25% è stato acquisito dalla società alla multinazionale spagnola Ebro Foods)
  • Eskigel (produce gelati in vaschetta per la grande distribuzione (Panorama, Pam, Carrefour, Auchan, Conad, Coop) (ceduta agli inglesi con azioni in pegno ad un pool di banche)
  • Fiorucci–Salumi (acquisita dalla spagnola Campofrio Food Holding S.L.)
  • Eridania Italia SpA (la società dello zucchero ha ceduto il 49% al gruppo francese Cristalalco Sas)
  • Boschetti alimentare (cessione alla francese Financière Lubersac che detiene il 95%)
  • Ferrari Giovanni Industria Casearia SpA (ceduto il 27% alla francese Bongrain Europe Sas) 2009
  • Delverde Industrie Alimentari SPA (la società della pasta è divenuta di proprietà della spagnola Molinos Delplata Sl che fa parte del gruppo argentino Molinos Rio de la Plata) 2008
  • Bertolli (venduta a Unilever, poi acquisita dal gruppo spagnolo SOS)
  • Rigamonti salumificio SPA (divenuta di proprietà dei brasiliani attraverso la società olandese Hitaholb International)
  • Orzo Bimbo (acquisita da Nutrition&Santè S.A. del gruppo Novartis)
  • Italpizza (ceduta all’inglese Bakkavor acquisitions limited)
  • Galbani (acquisita dalla francese Lactalis)
  • Sasso (acquisita dal gruppo spagnolo SOS)
  • Fattorie Scaldasole (venduta a Heinz, poi acquisita dalla francese Andros)
  • Invernizzi (acquisita dalla francese Lactalis, dopo che nel 1985 era passata alla Kraft) 1998
  • Locatelli (venduta a Nestlè, poi acquisita dalla francese Lactalis)
  • San Pellegrino (acquisita dalla svizzera Nestlè) 1995
  • Stock (venduta alla tedesca Eckes A.G., poi acquisita dagli americani della Oaktree Capital Management) 1993
  • La Safilo (Società azionaria fabbrica italiana lavorazione occhiali), fondata nel 1878, che oggi produce occhiali per Armani, Valentino, Yves Saint Laurent, Hugo Boss, Dior e Marc Jacobs, è diventata di proprietà del gruppo olandese Hal Holding
  • Nel settore della telefonia, a Milano nel 1999 era nata Fastweb, una joint venture tra e.Biscom e la comunale Aem che oggi fa parte del gruppo svizzero Swisscom
  • Nel 2000 Omnitel è passata di proprietà del Gruppo Vodafone
  • Nel 2005 Enel ha ceduto la quota di maggioranza di Wind Telecomunicazioni al magnate egiziano Sawiris, il quale nel 2010 l’ha passata ai russi di VimpelCom
  • Nel campo dell’elettrotecnica e dell’elettromeccanica nomi storici come Ercole Marelli, Fiat Ferroviaria, Parizzi, Sasib Ferroviaria e, recentemente, Passoni & Villa sono stati acquistati dal gruppo industriale francese Alstom, presente in Italia dal 1998
  • Nel 2005 le acciaierie Lucchini spa sono passate ai russi di Severstal, mentre rimane proprietà della omonima famiglia italiana, la Lucchini rs, che ha delle controllate anche all’estero
  • Fiat Avio, fondata nel 1908 e ancora oggi uno dei maggiori player della propulsione aerospaziale, è attualmente di proprietà del socio unico Bcv Investments sca, una società di diritto lussemburghese partecipata all’85% dalla inglese Cinven Limited
  • Benelli, la storica casa motociclistica di Pesaro, di proprietà del gruppo Merloni, nel 2005 è passata nelle mani del gruppo cinese QianJiang per una cifra di circa 6 milioni di euro, più il trasferimento dei 50 milioni di euro di debito annualmente accumulato
  • Nel 2003 la Sps Italiana Pack Systems è stata ceduta dal Gruppo Cir alla multinazionale americana dell’imballaggio Pfm Spa
  • In una transazione di qualche tempo fa Loquendo, azienda leader nel mercato delle tecnologie di riconoscimento vocale, che aveva all’attivo più di 25 anni di ricerca svolta nei laboratori di Telecom Italia Lab e un vasto portafoglio di brevetti, è stata venduta da Telecom alla multinazionale statunitense Nuance, per 53 milioni di euro.

Totale 54 aziende.

Condividi questo articolo
Articoli più recenti »

© 2024 Il mio blog

Tema di Anders NorenSu ↑