25 ottobre 2021

Il discorso è tratto da un opuscolo che precisa: Estratto da Mondo Occidentale n° 86, luglio-agosto 1962. In calce, UNITED STATES INFORMATION SERVICE ROMA.

Titolo dell’opuscolo:

Indipendenza e interdipendenza- di John F. Kennedy

 

Indipendenza e interdipendenza di John F. Kennedy

Philadelphia 4 luglio 1962

In occasione delle celebrazioni per la ricorrenza del 186° “Independence Day”, il presidente John F. Kennedy ha pronunciato a Philadelphia, nel vasto spiazzo davanti all’edificio della Independence Hall, dove il 4 luglio del 1776 venne firmata e proclamata la famosa “Dichiarazione d’Indipendenza” delle tredici colonie americane originarie, un discorso di vasta apertura e significato storico di cui riproduciamo il testo.

Per qualsiasi cittadino della nostra grande Repubblica è un alto onore parlare in questa “Hall of Independence” in occasione della «Giornata dell’Indipendenza». Parlare come Presidente degli Stati Uniti ai Governatori dei nostri 50 Stati è, al tempo stesso, un’opportunità e un impegno. La necessità di una solidarietà operante tra il Governo nazionale e i vari Stati è un insegnamento incancellabile della nostra storia.

Poiché il nostro sistema mira a incoraggiare sia la diversità che il dissenso, poiché i “controlli e contrappesi” di cui esso è fornito sono intesi a preservare i diritti dell’individuo e dell’amministrazione locale contro il parere dell’autorità centrale, voi ed io ci rendiamo entrambi conto di come dipendiamo gli uni dagli altri per quanto riguarda il buon funzionamento della nostra eccezionale e felice forma di governo. Il nostro sistema e la nostra libertà permettono che occasionalmente il Potere Legislativo si trovi a misurarsi con l’Esecutivo, lo Stato con il Governo Federale, la città con lo Stato, la Provincia con la città, un partito con un altro partito, dati interessi con altri interessi, tutti in competizione o in contesa l’uno con l’altro. Il nostro compito – il vostro nel Palazzo del Governo degli Stati, il mio alla Casa Bianca – è di interesse da tutti questi intricati stami una trama di leggi e di progresso, Altri possono limitarsi ai dibattiti, alle discussioni e a quel supremo lusso che è l’esprimere liberamente il proprio parere.  Ma la nostra è una responsabilità di decisione, ché governare è scegliere.

Pertanto, in senso molto concreto, voi ed io siamo gli esecutori del testamento che ci è stato tramandato da coloro che qui ci riunirono in questa storica sede 186 anni or sono. Essi si riunirono, infatti, per apporre la loro firma a un documento che era, principalmente, un documento non di retorica ma di audace decisione. Era, è vero, un documento di protesta ma anche in precedenza erano state formulate proteste. Esso enunciava con eloquenza le loro rivendicazioni ma anche prima si era udita una eloquenza del genere. Quello che distingueva tale pezzo di carta da ogni altro era – tuttavia – la decisione estrema, irrevocabile che essi avevano presa e così veniva sancita: di affermare l’indipendenza come Stati liberi di quelle che erano state colonie e di consacrare a questo scopo le loro vite, i loro averi e il loro sacro onore.

Oggi a 186 anni di distanza, quella Dichiarazione – la cui pergamena ingiallita e i cui caratteri sbiaditi, quasi illeggibili, ho riesaminato la settimana scorsa agli Archivi di Stato – è tutt’ora un documento rivoluzionario. Rileggerla oggi è come ascoltare uno squillante appello di tromba. Ché tale Dichiarazione dette il via non solo una rivoluzione contro gli inglesi ma ad una rivoluzione nelle umane vicende. I suoi autori erano profondamente consapevoli delle sue ripercussioni mondiali; e George Washington ebbe a dichiarare che la libertà e l’autogoverno in ogni parte del mondo erano «in definitiva legati all’esperimento affidato alle mani del popolo americano».

Questa profezia si è avverata per 186 anni. Questa dottrina dell’indipendenza nazionale ha sconvolto il globo e tuttora rimane la forza più poderosa ovunque esistente nel modo di oggi. Ci sono uomini che lottano per strappare una grama esistenza ad una terra amara e che non hanno mai udito parlare della libera iniziativa, eppure essi hanno cara l’idea dell’indipendenza. Ci sono uomini alle prese con formidabili problemi di analfabetismo e di igiene e che non sono attrezzati per indire libere elezioni, eppure essi sono fermamente risoluti a mantenere la loro indipendenza. Persino coloro che non vogliono o non possono partecipare ad una lotta tra l’Est e l’Ovest, sono risolutamente dalla parte dell’indipendenza. Se c’è un problema che oggi divide il mondo, è quello dell’indipendenza: l’indipendenza di Berlino o del Laos o del Vietnam, l’anelito all’indipendenza, al di là del sipario di ferro, il pacifico passaggio all’indipendenza in quelle regioni oggi in fase di ascesa, le cui difficoltà taluni cercano di sfruttare. La teoria dell’indipendenza – antica quanto l’uomo stesso – non fu inventata in questa sede. Ma è qui che tale teoria venne tradotta in pratica; è da qui che venne diffuso in tutto il mondo il verbo che «quel Dio che ci ha dato la vita ci ha dato al tempo stesso la libertà». E oggi questa nazione – concepita nella rivoluzione, nutrita nella libertà, maturata nell’indipendenza – non ha alcuna intenzione di abdicare alla sua funzione di guida in questo movimento mondiale per l’indipendenza a vantaggio di qualsiasi nazione o società dedita ad una sistematica oppressione.

Per quanto vitale e applicabile sia oggi questa storica Dichiarazione d’Indipendenza, faremmo tuttavia bene a rendere onore anche all’altro storico documento che venne stilato in questa stessa sede: la Costituzione degli Stati Uniti. Ché esso sottolineò non l’indipendenza ma l’interdipendenza, non la libertà individuale del singolo ma libertà indivisibile di tutti.

Nella maggior parte del vecchio mondo coloniale, la lotta per l’indipendenza sta ora giungendo al suo termine. Anche nelle zone al di là del sipario di ferro, quello che Jefferson chiamava: «il male contagioso della libertà», sembra ancora oggi diffondersi. Col tramontare di antichi imperi, oggi meno del due per cento della popolazione mondiale vive in territori ufficialmente definiti “dipendenti”. E mentre questo sforzo per l’indipendenza – informato allo spirito della Dichiarazione americana – si avvicina ad una felice conclusione, un grande, nuovo sforzo –  quello per l’interdipendenza – va trasformando il mondo intorno a noi. E lo spirito che informa questo nuovo sforzo è quello dello stesso spirito che dette origine alla Costituzione americana.

Questo spirito si manifesta oggi nella maniera più evidente al di là dell’Oceano Atlantico. Le nazioni dell’Europa Occidentale, a lungo divise da lotte intestine ben più aspre di quelle che mai si produssero fra le tredici Colonie, si stanno ora unendo insieme e cercano, come cercarono i nostri padri, di trovare la libertà nella diversità e la forza nell’unità.

A questa vasta impresa gli Stati Uniti guardano con speranza e ammirazione. Noi non consideriamo un’Europa forte ed unita come un rivale, bensì come un socio ed amico. Aiutarne il progresso è stato uno degli obiettivi fondamentali della nostra politica estera da diciassette anni a questa parte. Riteniamo che un’Europa unita sarà in grado di svolgere una più grande funzione della difesa comune, di rispondere più generosamente ai bisogni delle nazioni più povere, di unirsi agli Stati Uniti e ad altri paesi nel ridurre le barriere commerciali, risolvere i problemi di carattere monetario e merceologico, ed elaborare direttive coordinate in tutti gli altri settori economici, diplomatici e politici. Noi vediamo in un’Europa del genere un socio col quale poter trattare su una base di piena eguaglianza in tutti i grandi e onerosi compiti concernenti l’edificazione e la difesa di una comunità di nazioni libere.

Sarebbe prematuro, in questo momento, far qualcosa di più che manifestare l’alto valore che attribuiamo e la soddisfazione con la quale vedremo il formarsi di questa associazione. La prima cosa in ordine di tempo è che i nostri amici europei proseguano nello sforzo per creare quella perfetta unione che un giorno renderà questo possibile.

Un grande, nuovo edificio non può essere costruito da un giorno all’altro. Dalla Dichiarazione d’Indipendenza alla stesura delle Costituzione trascorsero undici anni. La costruzione di istituti federali efficienti richiese ancora un’altra generazione. Le opere maggiori dei fondatori della nostra nazione non consistono di documenti e dichiarazioni, bensì in un’azione creatrice e risoluta. La costruzione della nuova casa dell’Europa ha seguito questo stesso corso pratico e determinato. L’edificazione dell’Associazione Atlantica non potrà essere compiuta a buon mercato o con facilità. Ma desidero dire, in questa sede e in questa giornata dell’Indipendenza, che gli Stati Uniti si terranno pronti per una Dichiarazione di Interdipendenza, che noi saremo preparati a discutere con un’Europa Unita i modi e i mezzi per costituire una concreta associazione atlantica, un’associazione de reciproco vantaggio tra la nuova Unione che va ora formandosi in Europa e la vecchia Unione americana che venne qui fondata poco meno che due secoli fa.

Tutto questo non sarà portato a termine nel giro di un anno ma che il mondo sappia che questa è ora la nostra meta.

Nel sollecitare l’approvazione della Costituzione, Alexander Hamilton invitò i suoi concittadini dello Stato di New York a «pensare in termini continentali». Oggi gli americani debbono imparare a pensare in termini intercontinentali. Operando da soli non possiamo instaurare la giustizia in tutto il mondo. Non possiamo garantirne la tranquillità interna, o provvedere alla sua comune difesa, o promuoverne il benessere generale, o assicurare le benedizioni della libertà a noi stessi e alla nostra posterità. Ma uniti ad altre nazioni libere, potremo fare tutto questo e ancora di più. Potremo aiutare le nazioni in fase di sviluppo e scuotere il giogo della miseria. Potremo equilibrare i nostri scambi e pagamenti mondiali al più alto livello possibile d’incremento. Potremo costituire una forza deterrente sufficientemente poderosa per scoraggiare qualsiasi aggressione. E, infine, potremo contribuire alla realizzazione di un mondo basato sulla legge e sulla libera scelta, ponendo al bando il mondo della guerra e della coercizione.

Ché l’Associazione Atlantica di cui parlo non si chiuderebbe in sé stessa, preoccupandosi solo del proprio benessere e del proprio progresso. Essa deve guardare anche all’esterno, ad una collaborazione con tutte le nazioni per soddisfare i comuni interessi. E fungerebbe da nucleo per una futura unione di uomini liberi, quelli già liberi oggi e quelli che hanno fatto voto di esserlo un giorno.

Nella ricorrenza del genetliaco di Washington, nell’anno 1861, Abraham Lincoln, allora Presidente eletto, durante il viaggio che lo avrebbe portato nella capitale della nazione si fermò a parlare in questa sede. E rese un breve ma eloquente tributo agli uomini che avevano stilato la Dichiarazione d’Indipendenza ed avevano combattuto ed erano morti per essa. La sua assenza, egli disse, consisteva nel fatto che essa racchiudeva una promessa non solo di libertà «per il popolo di questo paese ma di speranza per il mondo…speranza che a suo tempo tutti gli uomini potessero essere liberati dai loro fardelli e tutti potessero godere di uguali possibilità».

In questo 4 luglio 1962, noi che siamo riuniti in questo stesso luogo – e cui sono affidati la sorte e il futuro degli Stati Uniti e della Nazione – solennemente assumiamo ora l’impegno di fare quanto sta in noi per liberare tutti gli uomini del loro fardello, di unirci agli altri uomini e alle altre nazioni per preservare sia la pace che la libertà e di considerare qualsiasi minaccia alla pace o alla libertà di un solo come una minaccia alla pace e alla libertà di tutti. E a sostegno di tale dichiarazione, con ferma fiducia nella protezione della Divina Provvidenza, noi offriamo reciprocamente in pegno gli uni agli altri le nostre vite, i nostri averi e il nostro sacro onore.

John F. Kennedy

 

Commento.

L’Europa e l’Italia pongano mente e memoria a questo discorso, mai come in questi tempi, così attuale. L’oscurantismo che manifesta la politica tutta in quest’ultima fase storica, è l’alimento che nutre, avvelena e uccide il liberalismo e la democrazia, che, pur nella loro imperfezione, noi, uomini e donne del popolo, vi abbiamo creduto operando con fervore e lavorando sodo dal dopo guerra sino ad una decina d’anni or sono; poi il cronico ripetersi di crisi economiche e in ultimo, il terrore imposto per coprirle, ci ha reso sfiduciati e posto in difesa a oltranza.  

In questi drammatici frangenti il discorso è rivolto soprattutto all’Italia politica, la quale “pare” si sia persa, nel malcostume, la volgarità, l’ignominia e l’improvvisazione, che si sposa con l’incapacità, oggetto e causa dell’infimo livello dell’attuale “casta” di politicanti (e non solo) che, senza distinzione alcuna, governano il paese soltanto per cupidigia di potere, sovvertendo la volontà espressa democraticamente del popolo; non dimentichiamolo. Una vergogna che non ha pari.

Carlo Ellena

Il presidente Kennedy dinanzi alla “Campana della libertà” a Philadelphia

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