Categoria: Unione Europea (Pagina 1 di 2)

La pulce e gli elefanti

Marzo 2022

Macron e Joe Biden (ricordi il ’62 a Cuba?), usate sagge parole, non armi e morte.

E lei Papa, esca dal suo castello e in nome del suo Dio mostri il petto alla guerra.

Fermate Draghi, in nome di Dio! Con quest’uomo avremo solo lutti e miseria.

E lei signor Draghi, se è un uomo responsabile,

Lusisti satis, edisti atque bibisti: / tempus abire tibi est

Orazio, Epistole, II, 2, 214-15

Menzione; Emmanuel Macron è stato votato, Joe Biden è stato votato, Boris Johnson è stato votato. Mario Draghi non è stato votato e il parlamento italiano è abusivo, esiste per un colpo di mano d Mattarella, il quale ha ribaltato l’esito delle votazioni del 2018. Questo significa che dopo circa un secolo, al popolo è estorta la “sovranità popolare”.

Ieri (a casa nostra)

Notte del 13 luglio 1943. È stato il più devastante dei bombardamenti a tappeto su Torino. Il suono assordante e tetro delle sirene che risuonava minaccioso nella notte accompagnava la fuga della gente per raggiungere di corsa i rifugi (che erano semplici cantine di stabili civili ancora indenni dalle bombe). Ritornano e rivivono oggi i ricordi agghiaccianti un uomo di 84 anni che sente sulla pelle il brivido freddo della paura nel pericolo assurdo di una nuova guerra assurda.

Torino C.so Giulio Cesare angolo Corso Brescia – Bombardamento del 13 luglio 1943

Gli ultraottantenni rammentano bene che a Torino, la Barriera di Milano era (si, era, perché oggi non esiste più) il cosiddetto “Borgo operaio”, per il poderoso concentramento di industrie, officine, fabbriche, laboratori e stabilimenti FIAT. Era l’area tatticamente presa di mira dai bombardamenti aerei degli alleati, per cui, causa la stretta vicinanza con le abitazioni civili, le bombe, che cadevano a grappolo, non facevano alcuna distinzione e la distruzione era quasi totale (vedasi le due immagini). Ebbene, incuranti del pericolo i cittadini della barriera non fuggirono e non abbandonarono mai le loro abitazioni. Cessato il “coprifuoco” rientravano nelle loro abitazioni, a volte ridotte quasi a ruderi, evitando, in buona parte, le scorribande dei facinorosi, lo sciacallaggio e i ladri. Era gente dura, coraggiosa e proteggeva a tutti i costi la propria casa. C’erano inoltre anche le milizie Repubblichine e le Camice nere del Fascio che presidiavano le strade, per cui bisognava muoversi con molta circospezione, poiché costoro sparavano a vista, senza indugio.

Foto di impiccati a Torino nel ’43, vittime di rastrellamenti e rappresaglie

Foto di impiccati a Torino nel ’43, vittime di rastrellamenti e rappresaglie

A fine guerra, lentamente, la vita riprese con fatica, riparando i danni alle abitazioni, aiutandosi, a volte anche nell’azienda devastata in cui era impellente riprendere il lavoro. Sono stati anni difficili e faticosi; poi la lenta ricostruzione con gli aiuti del Piano Marshall e decenni di pace e lavoro. Ma il passato non si dimentica e non si cancella.

 

Torino Via Aosta – Bombardamento del 13 luglio 1943

A proposito del Piano Marshall mi vien bene accennare a un fatto importante, ossia «Quando Epicarmo Corbino nel 1945/46 “in stretta e fattiva collaborazione” con Luigi Einaudi varò l’adesione dell’Italia agli accordi di Brettonwoods, denunciò la nuova parità della lira con il dollaro a 230 lire e conseguentemente con l’oro, proseguì la politica di liberalizzazione del commercio.  Nel maggio del 1947, dopo l’allontanamento delle sinistre dal governo e quando la situazione precipitò, con il dollaro a 430 lire e poi a 600, Einaudi divenne ministro del Bilancio, con funzione di vicepresidente del consiglio dei ministri del quarto governo di Alcide De Gasperi. Nell’agosto del 1947 il “sistema delle riserve minime obbligatorie”, già applicato all’estero con successo, doveva rivelarsi un valido argine all’espansione inflazionistica. Fu la proposta di Einaudi, che trovò forte opposizione con rilevantissimi interessi e rischiò l’impopolarità “assegnando alla stabilità della moneta la priorità sull’espansione economica e riuscì in un anno ad arginare l’inflazione e a stabilizzare la lira”. L’indice generale dei prezzi all’ingrosso che, nel luglio del 1947, era di circa 58 volte quello del 1938, nel dicembre del 1947 era caduto a 47 volte, Il disavanzo del bilancio dello Stato, che nel 1945/46 aveva raggiunto i 1.130 miliardi di lire (a potere 1951) era ridotto a 363 miliardi. Dopo quattro anni, tutti questi risultati importanti furono acquisiti ancora prima che venisse messo in atto il Piamo Marshall». (Tratto da “Luigi Einaudi di Gianni Marongiu, Editore ECIG”).

 

Oggi

Le guerre? Esisteranno sempre e sempre per lo stesso motivo: l’inscrutabile stupidità e inattendibilità dell’uomo. Egli stesso è poi l’artefice dei propri errori che paga troppe volte con il sangue di altri uomini, ovvero di coloro che non hanno colpe: la gente comune. Essa ha vissuto e vive ogni ora, ogni giorno, impotente gli eventi passati e il dramma di quelli presenti, quindi il suo severo giudizio di condanna è obiettivo, veritiero e insindacabile, semplicemente perché è esperienza di vita vissuta, voluta e subita sulla propria pelle, per volontà di altri.

La situazione di oggi ci pone in gravissimo allarme. Un rapido, quanto inaspettato ribaltamento della politica europea e americana verso la Russia, avventato e poco chiaro, è tale da non giustificare una guerra non dichiarata ma con migliaia di morti.

Avevamo ascoltato parole come diplomazia, mediazione, prestamente cancellate dai capi di Stato europei, per una tardiva coscienza della realtà, da improvvisazione e da una manifesta inesperienza che genera l’incapacità di trovare a tutti i costi vie diplomatiche. Una verità vergognosamente palese ma nascosta e taciuta da tutti i mezzi d’informazione e da fiumi di bla bla bla delle TV.

È molto facile, anzi troppo facile far leva sui sostantivi PACE e SOLIDARIETÀ secondo la bellicosa faciloneria europea. Tutti contro Putin ma costui non è uno sprovveduto, tutt’altro. Ne vedremo ben donde.

Non dimentichiamo che se i paesi dell’Europa, in generale, sono pressoché autosufficienti per il fabbisogno energetico di gas, petrolio, carbone, centrali nucleari e quant’altro, l’Italia importa quasi tutto, per non dire tutto. Questa costumanza, che si trascina da sempre per calcoli imprevidenti, data anche la pochezza di generazioni di uomini politici del passato, ribalta, com’è solito, il costo sui cittadini italiani che pagheranno un prezzo spaventosamente alto. Sono già arrivate le prime bollette con costi ben oltre il raddoppio. Cosa ci aspetta in futuro? Vedremo cosa farà l’acume del nostro Presidente del Consiglio.

Questo stato di cose, trova il nostro paese, già da anni in profonda crisi economica, coinvolto in queste assurde ritorsioni che ci costeranno l’inimicizia della Russia, la quale provvederà, o a già provveduto a sua volta, al taglio delle forniture energetiche all’Italia, che sono pari al 75/80% circa, per cui siamo allo smarrimento totale.

Pesa inoltre sugli italiani, questa forma imposta di falso pietismo solidale che accoglie, oltre alle frotte di extracomunitari che seguitano ad arrivare, migliaia di profughi in fuga dalla guerra Ucraina; il tutto con costi spaventosi. Ormai l’Italia è stata trasformata in un centro di accoglienza permanente privo di regole; c’è, inoltre, lo sfruttamento insistente, ossessivo di richiesta fondi al cittadino e ancora più vergognoso è l’abuso mediatico delle TV nel mostrare bambini gravemente malati, storpi e distrofici mediante decine di postulanti televisivi ambigui e posticci che agiscono in nome di dubbie associazioni umanitarie, sulle quali un’inchiesta sarebbe, alla buon’ora, indispensabile.

Purtroppo la nostra economia allo sfascio ci mostra un paese completamente abulico, passatista, imbelle, mentre il governo, formato dagli stessi componenti della sinistra responsabile del fallimento trentennale della loro politica, che è concausa della crisi, fa il paio con una pletora di politici europei impreparati ad affrontare questa terribile situazione. Ebbene, costoro ci stanno rapidamente portando allo stato di guerra trasformando Russia e Europa, in uno sconfinato scacchiere in conflitto; una vera follia.

Immediata viene alla mente la crisi dei missili di Cuba in cui, in quel tragico ottobre del ’62, fummo sull’orlo di una guerra nucleare fra Stati Uniti e Russia, i cui attori principali furono Castro, Kennedy e Kruscev e le loro rispettive compagini di governo. Questi uomini si mostrarono saggi, malgrado le differenti ideologie politiche e la crisi si concluse in tredici giorni di intense, frenetiche trattative condotte sul filo del rasoio ma senza uso delle armi e fu l’inizio dell’invisibile guerra fredda.

Ritornando all’oggi, si dice che è finita da tempo “la guerra fredda” ma le mire espansionistiche (nascoste in malo modo) da quelle che “sembra” siano le due o tre parti sono parse evidenti agli occhi increduli dei soli sciocchi. La prima ad aprire il fuoco è stata la Russia. C’è tuttavia un interrogativo: perché? La domanda merita una pur breve spiegazione.

 

L’Ucraina oggi.

L’Ucraina è un o Stato indipendente dal 1991, confina con la Bielorussia, Polonia, Slovacchia, Ungheria, Romania, Moldavia e la Federazione Russa che è il più vasto stato del mondo.

È un’enorme territorio da sempre in continuo fermento a seguito della dissoluzione dell’Unione Sovietica. L’instabilità è dovuta da coloro che parteggiano per la vicina Unione Europea e la controparte è quella fedele al legame storico con la Russia.

Nel 2013 il presidente ucraino Viktor Yanukovych rifiuta di firmare l’accordo di libero scambio con l’Unione Europea. Il paese è in rivolta; immediate e violente le proteste di piazza dei filo-occidentali e gli antirussi, Dopo tre mesi e un centinaio di morti, la rivolta si conclude con la fuga di Yanukovych.

Non passa un mese che l’Ucraina perde un altro pezzo del proprio territorio: Nel marzo 2014 la Russia annuncia la secessione della Crimea dall’Ucraina e la sua annessione alla Russia.

La regione del Donbass, nell’Est dell’Ucraina, segue a ruota l’esempio della Crimea, scatenando una guerra civile nelle province di Donetsk e Lugansk, che si autoproclamano repubbliche indipendenti (si tratta delle due repubbliche riconosciute da Putin nel discorso di pochi giorni fa). Nel febbraio 2015, con l’accordo detto Minsk II, si giunge a un cessate il fuoco ma gli impegni assunti in quel momento non vengono del tutto rispettati dalle parti, con la conseguenza che il conflitto prosegue di fatto ininterrottamente fino a oggi.

Su tutta questa situazione incandescente si innesta il progressivo allargamento a Est della Nato (a eccezione degli Stati dell’ex Jugoslavia, tutti i paesi entrati nell’Alleanza Atlantica dal 1990 a oggi erano parte dell’Unione Sovietica o legati a essa dal Patto di Varsavia: parliamo di Lettonia, Lituania, Estonia, Polonia, Romania, Bulgaria, Repubblica ceca, Slovacchia, Ungheria). È il timore da parte della Russia che l’Ucraina possa entrare a far parte del Patto atlantico: una prospettiva inaccettabile per Putin che avrebbe così gli americani sul portone di casa.

(Tratto da un articolo di Ingrid Colanicchia del 24 febbraio 2022).

«Tuttavia, per chiarezza, a tutt’oggi non vi sono ancora certezze riguardo alle relazioni tra Ucraina e UE nel prossimo futuro. Nel marzo 2016, il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha dichiarato che ci vorranno almeno 20-25 anni perché l’Ucraina aderisca all’UE e alla NATO. Attualmente, la nazione è solamente membro della Politica di Vicinanza Europea».

 

Una valutazione personale.

Putin è Presidente della Federazione Russa al suo quarto mandato. È un uomo intelligente e un politico di grande esperienza anche per il suo passato al kgb, dove era definito “affidabile e disciplinato”. Una possibile debolezza militare dell’Europa e il problema ucraino possono averlo spinto a un’azione decisa per far capire alla stessa Europa e alle Nazioni Unite di non “sconfinare” con azioni di propaganda inappropriata; la risposta intimidatoria dell’occidente può averlo sorpreso. Chissà, forse qualche migliaio di morti gli servivano per far capire le sue intenzioni all’Occidente.

 

Storia pregressa.

In geografia il continente europeo comprende anche la Russia europea e più precisamente: la Russia (ufficialmente Federazione Russa) è uno Stato transcontinentale che si estende per un quarto in Europa e per tutto il resto in Asia ed è il più vasto Stato del mondo. La Russia europea occupa circa il 30% dell’Europa.

Nella storia politica non è così e nel nostro caso, bisogna risalire al Congresso di Vienna del 1814 – 1815, nel quale si discussero i nuovi confini politici degli Stati dopo il “terremoto” Napoleone Bonaparte e dove si mise in discussione “il principio di legittimità” del Vecchio Regime sancito nel tempo dalle monarchie. In sostanza il Congresso formulava proposte per ricomporre in qualche modo il potere dei vecchi regnanti. Chi tentò di mettere ordine nel vuoto istituzionale europeo e non solo, creatosi dopo il “terremoto”, fu Charles Maurice Talleyrand de Périgod, principe di Benevento. Lo storico e scrittore politico Guglielmo Ferrero (1871 – 1942 autore del libro, “Il Congresso di Vienna 1814-1815 Talleyrand e la ricostruzione d’Europa”) sostiene che l’Europa “fu ricostruita dalla saggezza e dall’intuizione di tre grandi personaggi: Alessandro I, Zar di Russia, Luigi XVII, re di Francia, e soprattutto da Talleyrand. Questi uomini salvarono un intero continente minacciato dal rischio di un’interminabile guerra e la loro non fu una semplice “restaurazione” ma la ricostruzione, con materiali vecchi e concetti nuovi, dell’edificio politico europeo. Il percorso fu arduo e complesso.

[1]«Nei diversi stati europei la “restaurazione” avvenne con modalità differenti. In Spagna fu abolita la costituzione, in un regime di ferrea restaurazione monarchica; in Prussia si tornò a un rigido assolutismo ma con l’intervento di importanti riforme, tra cui quella dell’esercito; l’Austria di Metternich respinse ogni idea di riforma, instaurando un regime di controllo poliziesco; nel Granducato di Toscana fu ripristinato il Codice leopoldino, mentre nel Regno di Sardegna venne restaurato l’assolutismo, con l’appoggio del potere ecclesiastico; la repressione caratterizzò il Regno delle Due Sicilie; il papato riaffermò il suo potere,  venne ricostruita  la Compagnia di Gesù e vennero presi provvedimenti contro gli ebrei, accompagnati tuttavia da un programma di riforme; in Francia Luigi XVIII concesse la Carta che riconosceva l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, garantiva la libertà individuale e l’inviolabilità della proprietà privata. La Carta attribuiva al re tutti i poteri, erano istituite due camere con modeste facoltà di effettivo intervento, in cui però iniziarono a prendere forma i partiti politici, a seconda del proprio orientamento ideologico. Tuttavia risulta evidente che la restaurazione in Francia non causò un declino dell’attività civica, il dispotismo di Napoleone era ora soppiantato da libertà e diritti. Il concetto di restaurazione veniva quindi introdotto al fine di troncare ogni velleità rivoluzionaria, nel segno della ricostruzione dei poteri monarchici per la salvaguardia delle nazioni, una spinta controrivoluzionaria vista come necessaria per ridurre il disordine sociale e la sovversione.

La stabilità politica tra gli stati europei instaurata con il Congresso di Vienna durò effettivamente fino al 1914 ma il limite di questo accordo internazionale fu quello di cercare di riproporre un modello precedente, senza tenere in debita considerazione alcuni aspetti fondamentali. Innanzitutto con l’affermazione del principio secondo cui lo stato era di proprietà del sovrano si esplicava la sostanziale negazione del concetto di nazione, fatto che andava inevitabilmente a scontrarsi con le istanze nazionaliste e indipendentiste presenti sul territorio, si pensi ad esempio la dominazione austriaca nel Lombardo-Veneto. Secondariamente il tentativo di ritorno alla vecchia normalità non teneva conto degli inevitabili mutamenti culturali che nel frattempo avevano preso forma nelle coscienze europee, proprio in conseguenza della molteplicità degli accadimenti e della loro portata. Inoltre tra gli stati non consideravano le spinte sempre crescenti in ambito commerciale, che in qualche maniera necessitavano di interferire con le scelte politiche. L’Europa e l’Italia dunque si trovavano in un momento cruciale. Crescevano le istanze liberiste ma l’economia era ancora prevalentemente agricola. Il successivo formarsi di una borghesia industriale e commerciale, consapevole del proprio ruolo all’interno della società, favorì l’affermarsi di posizioni liberali, quale l’idea di sovranità popolare e l’esigenza di governi di stampo repubblicano che garantissero la certezza del diritto e l’eguaglianza formale tra i cittadini.

Nel 1815 fu siglata anche la Quadruplice Alleanza tra Russia, Prussia, Austria e Gran Bretagna al fine di vigilare contro i possibili tentativi di rivincita francesi e contro sommovimenti rivoluzionari che potessero minacciare l’equilibrio europeo. La Russia, da par suo, era una potenza demografica e militare ma sostanzialmente ancora arretrata economicamente ma non stava di certo, solo a guardare. Tutti questi avvenimenti e sforzi non riuscirono comunque a fermare i moti rivoluzionari che dopo pochi anni agitarono nuovamente l’Europa e che, in Italia, portarono al Risorgimento».

Sergio Romano, nella nota introduttiva del libro di Ferrero fa un’attenta riflessione sui tempi attuali: «Ferrero morì nell’agosto del 1942, otto mesi dopo l’ingresso degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale, se fosse vissuto più a lungo avrebbe certamente salutato nella politica di Harri Truman e nel piano Marshall una “ricostruzione” non meno importante di quella a cui Talleyrand e Alessandro avevano lavorato fra il 1814 e il 1815. Per contenere l’espansione dell’Unione Sovietica e impedire che l’ideologia comunista contagiasse le società dell’Europa occidentale i vincitori rinunciarono ai sentimenti di rivalsa e si impegnarono nella ricostruzione dell’ordine europeo. Il “principio di legittimità” in questo caso fu una accorta combinazione di fattori diversi: l’integrità degli Stati (la Germania fu dimezzata per ragioni indipendenti dalla volontà dell’America), la democrazia, la promessa di una crescente prosperità e la prospettiva di una federazione europea. Per fortuna “i Talleyrand” del secondo dopoguerra furono molti: Truman, il generale Marshall, Jean Monnet, Robert Schuman, Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi, Carlo Sforza. Quando Ricostruzione apparve per la prima volta in italiano, il 10 aprile del 1948, l’Italia erta alla vigilia delle elezioni che avrebbero permesso di partecipare, di pieno diritto, a tale processo».

È stata una lunghissima battaglia iniziata con fatica con il Trattato di Pace del 30 maggio 1814 e infine con la deposizione definitiva e l’esilio di Napoleone Bonaparte a Sant’Elena. Eventi che segnarono la fine dei continui conflitti fra le monarchie; dispute che per secoli hanno provocato solo morte e distrutto monumenti e paesi.  Ma fu solo una breve pausa, altri conflitti erano dietro la porta.

[1] Brani tratti da uno scritto di Monica Monici.

 

Eventi di guerra passati: “La guerra di Crimea 1853 – 1856”.

Per ricordare la storia ma in un contesto molto diverso, c’è un fatto relativo a “La guerra di Crimea” che riguarda l’intervento Sardo Piemontese. Nel 1854 la Francia e l’Inghilterra propongono al Regno Sardo Piemontese di aderire alla Coalizione contro la Russia. Vittorio Emanuele II e Cavour vedono un’opportunità in una futura guerra contro l’Austria che domina il Lombardo Veneto. Cavour è appoggiato dal Re, la proposta viene ampiamente discussa e il 26 gennaio 1855 viene firmata la Convenzione con Francia e Inghilterra, Cavour fa il suo intervento con foga e il 10 febbraio la Camera approva il Trattato di Alleanza. Il 14 aprile parte da Genova per l’imbarco un Corpo di Spedizione forte di 17 mila uomini. Dopo circa due anni di guerra, Il 16 marzo 1856 si firma in Crimea l’armistizio per la cessazione delle ostilità.

Il 6 maggio 1856, Cavour, alla Camera dei Deputati, rende conto dell’opera svolta al tavolo della pace. Il vero successo di Cavour fu che, da quel momento, il Piemonte diviene lo stato guida dei movimenti patriottici italiani nella lotta contro l’Austria per ottenere l’indipendenza; si assicura inoltre definitivamente l’aiuto di Francia e Inghilterra nella politica antiaustriaca.

La guerra di Crimea pose basi per un’altra guerra; quella del 1914-1918 contro l’Austria.

L’ultima guerra, in ordine di date, è quella del 1939-1945 (Ma pare non sia ancora finita).

 

Ancora l’Ucraina oggi. 

In Ucraina gli eventi si sono succeduti rapidissimi e nella fretta si son fatti troppi errori nelle scelte politiche verso la Russia per mancanza di volontà e esperienza in diplomazia estera. Il pacifismo non basta per coprire gli errori con la “solidarietà alla Ucraina” da un lato e un viatico dall’altro a fornire armi; un palese controsenso. Gli italiani, pacifisti stolti e immaturi aiutano tutti ma con denari prestati, quindi un debito che “deve” essere pagato, perdendo per strada la drammatica realtà del loro paese.

I rapporti Italia / Russia sono stati ottimi per decenni, anzi noi compriamo (oggi “compravamo”) da Putin circa il 75/80% del nostro fabbisogno energetico (il gas soprattutto), con la politica delle ritorsioni alla Russia, messa in atto dagli Stati Uniti e dall’Europa, Italia compresa, si denomina e concretizza questa politica in un’Unione Europea, che non è, nei fatti, neppure Nazione. Tuttavia agisce con governo franco/tedesco (e Regno Unito?) che parla tardivamente e impropriamente di diplomazia dopo le provocazioni al russo Putin il quale, da politico navigato ha risposto da par suo con le bombe, in fin dei conti la Russia è casa sua. Situazione che spiegata in modo semplice e comprensibile, è una guerra in cui; prima si spara e poi si bussa alla porta.

Orbene, riporto in toto un articolo su ITALIA OGGI di Tino Oldani del 22 febbraio 2022.

Lo scoop è apparso in larga misura su molti quotidiani e su Internet, quindi è di dominio pubblico ma il mondo politico italiano e europeo lo hanno completamente ignorato.

 

Lo scoop di Der Spiegel sull’impegno Nato di non espandersi a Est si basa su un verbale desecretato, che dà ragione a Putin.

« I lettori di Italia Oggi sono stati i primi, in Italia, e essere informati circa le vere origini delle tensioni politiche e militari tra la Russia di Vladimir Putin e la NATO sulla questione Ucraina. Con editoriali e articoli scritti in base ai fatti e non con la propaganda, il direttore Pierluigi Magnaschi e firme autorevoli come Roberto Giardina e Pino Nicotri hanno ricordato, unici in Italia, che dopo la caduta del Muro di Berlino (1989) i leader dei maggiori paesi della Nato avevano promesso a Mosca che l’Alleanza atlantica non sarebbe avanzata verso Est «neppure di un centimetro». Una promessa smentita dai fatti, visto che da allora ben 14 paesi sono passati dall’ex impero sovietico all’alleanza militare atlantica. Da qui le contromosse di Putin: la guerra in Georgia, l’occupazione della Crimea, l’appoggio ai separatisti del Donbass, lo schieramento di oltre centomila soldati al confine con l’Ucraina, infine la dura linea diplomatica con cui ha ribattuto alle minacce di sanzioni da parte di Usa ed Ue: «Mosca è stata imbrogliata e palesemente ingannata».

Per tutta risposta, il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha ripetuto quella che per anni è stata la linea difensiva di Washington sull’allargamento a Est della Nato: «Nessuno, mai, in nessuna data e in nessun luogo, ha fatto tali promesse all’Unione sovietica». Una dichiarazione smentita dal settimanale tedesco Der Spiegel con uno scoop clamoroso, destinato a lasciare il segno. L’inchiesta, intitolata «Vladimir Putin ha ragione?» e ripresa integralmente negli Usa da Zerohedge, si basa su un’ampia ricostruzione storica dei negoziati tra Nato e Mosca che hanno accompagnato la fine della guerra fredda.

Tra i documenti citati, spicca per importanza quello scovato nei British National Archives di Londra dal politolo americano Joshua Shifrinson, che ha collaborato all’inchiesta del settimanale tedesco e se ne dichiara «onorato» in un tweet. Si tratta di un verbale desecretato nel 2017, in cui si dà conto in modo dettagliato dei colloqui avvenuti tra il 1990 e il 1991 tra i direttori politici dei ministeri degli Esteri di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania sull’unificazione delle due Germanie, dopo il crollo di quella dell’Est. Il colloquio decisivo, riporta Der Spiegel, si è svolto il 6 marzo 1991 ed era centrato sui temi della sicurezza nell’Europa centrale e orientale, oltre che sui rapporti con la Russia, guidata allora da Michail Gorbaciov. Di fronte alla richiesta di alcuni paesi dell’Est Europa di entrare nella Nato, Polonia in testa, i rappresentanti dei quattro paesi occidentali (Usa, Gran Bretagna, Francia e Germania Ovest), impegnati con Russia e Germania Est nei colloqui del gruppo «4+2», concordarono nel definire «inaccettabili» tali richieste. Il diplomatico tedesco occidentale Juergen Hrobog, stando alla minuta della riunione, disse: «Abbiamo chiarito durante il negoziato 2+4 che non intendiamo fare avanzare l’Alleanza atlantica oltre l’Oder. Pertanto, non possiamo concedere alla Polonia o ad altre nazioni dell’Europa centrale e orientale di aderirvi». Tale posizione, precisò, era stata concordata con il cancelliere tedesco Helmuth Khol e con il ministro degli Esteri, Hans-Dietrich Genscher.

Nella stessa riunione, rivela Der Spiegel, il rappresentante degli Stati Uniti, Raymond Seitz dichiarò: «Abbiamo promesso ufficialmente all’Unione Sovietica nei colloqui 2+4, così come in altri contatti bilaterali fra Washington e Mosca, che non intendiamo sfruttare sul piano strategico il ritiro delle truppe sovietiche dall’Europa centro –orientale e che la NATO non dovrà espandersi al di là dei confini della nuova Germania né formalmente né informalmente».

È innegabile che questo documento scritto conferma alcun i ricordi di Gorbaciov circa le promesse da lui ricevute, ma soltanto orali, sulla non espansione a est della NATO. I un’intervista sul Daily Telegraph (7 maggio 2008), Gorbaciov, ultimo leader dell’Unione Sovietica, disse che Helmuth Khol gli aveva assicurato che la NATO «non si muoverà più di un centimetro a EST». Identica promessa aggiunse un‘altra occasione, gli era stata fatta dall’ex segretario di Stato Usa James Baker, il quale però smentì, negando di averlo mai fatto. Eppure, ricorda Der Spiegel, anche Baker fu smentito a sua volta da diversi diplomatici, compreso l’ex ambasciatore USA a Mosca, Jack Matlock, il quale precisò che erano state date «garanzie categoriche» all’Unione Sovietica sulla non espansione a EST della NATO. L’inchiesta del settimanale aggiunge che promesse dello stesso tenore erano state fatte a Mosca anche dai rappresentanti britannico e francese.

La storia degli ultimi trenta anni racconta però altro: Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, ricorda Der Spiegel, sono entrate nella NATO nel 1999, poco prima della guerra contro la Jugoslavia, Lettonia, Lituania ed Estonia, confinanti con la Russia, lo hanno fatto nel 2004. Ora anche l’Ucraina vorrebbe fare altrettanto. Il che ha scatenato la reazione di Putin: «La NATO rinunci pubblicamente all’espansione nelle ex repubbliche sovietiche di Georgia e Ucraina, richiamando le forze statunitensi ai confini del blocco del 1997». La prima apertura è giunta dal cancelliere tedesco, Olaf Scholz; «L’ingresso dell’Ucraina nella NATO non è in agenda». Parole che confermano la prudenza della Germania verso Putin e l’importanza strategica del Nord Stream 2 per la sua economia. Se alla fine sarà pace o guerra, dipenderà dal vertice Biden-Putin, agevolato da Macron. Un vertice dove Biden, nonostante la martellante propaganda anti-Putin delle ultime settimane, entra indebolito da uno scoop che riscrive la storia. Un’inchiesta così ricca di documenti finora inediti da far pensare all’aiuto di una manina politica, in sintonia con la Spd di Scholz, partito da sempre filorusso».

Conclusione

L’Europa ha vissuto in pace gli ultimi ottant’anni e ora tutto si ripropone pericolosamente, causa la mancanza di uomini d’esperienza, vissuti e ricchi d quei valori che rendano l’uomo degno di essere tale. La situazione ci mostra, purtroppo, individui potenti, con alte cariche di responsabilità ma immaturi e incapaci di muoversi nella misura più consona, atta a trattare e risolvere con senno e senza violenza l’insieme degli attuali, gravi, accadimenti. Il percorso attale non ha sbocchi e denota una vaga e distorta visione di un futuro che sta causando solo danni irreparabili, distruzione e morte.

 

Carlo Ellena

 

 

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Sulla Legge di Bilancio, pensioni e “quota 100”

Riporto in toto uno studio minuzioso di Roberto Brambilla sulle nuove regole contenute nel maxiemendamento alla Legge di Bilancio 2019.

Un articolo che illustra il nuovo sistema assistenziale introdotto per legge ma già diffuso da decenni dai governi d’ispirazione comunista; ora, con la nuova Legge, si è aggiunta la pretesa che questa, creerebbe “posti di lavoro”. La sciagurata logica statalista dei “penta stellati”, mirata a ingigantire il debito pubblico a tutti i costi, è uno scriteriato pretesto politico e non una misura utile al mondo del lavoro; altro che meritocrazia e senso del dovere! Il futuro dei nostri giovani (se l’avranno) sembra già fatalmente compromesso.

 

Editoriale di Roberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, su il punto Pensioni & Lavoro del 20.12.2018. Inserto sul giornale di gennaio 2019 n° 27 di PersoneSocietà – della Confartigianato ANAP di Roma.

Nel nostro paese, nel 2018, sono in pagamento circa 23 milioni di prestazioni pensionistiche, di cui beneficiano circa 16 milioni di pensionati, il che vuol dire che ogni pensionato percepisce 1,433 pensioni (quasi un assegno pensionistico e mezzo a testa). Sul totale delle prestazioni in pagamento poco più di 8 milioni (il 35%) sono pari a 1 il minimo (circa 508 euro al mese per 13 mensilità): di queste, quasi 6 milioni (il 75%) sono totalmente (circa 2 milioni) o parzialmente (4 milioni) assistite e finanziate dallo Stato attraverso la fiscalità generale (cioè, nella pratica, da chi paga le imposte). Tra 2 e 3 volte il minimo ci sono altre 10,65 milioni di pensioni (il 46%); da 3 a 4 volte il minimo ce ne sono altre 2 milioni; in totale fanno 20,62 milioni su 23 milioni totali (90%).
Per avere una pensione al minimo bastano 15 anni di versamenti contributivi su un normale stipendio contrattuale. Significa quindi che in 66 anni di vita questo 75% di pensionati non ha versato nemmeno questi contributi e non ha pagato quindi un euro di tasse; pochi contributi e imposte anche per quelli fino a 2 volte il minimo. Si tratta di un numero di pensioni molto alto se si pensa che nei paesi Ocse il tasso fisiologico dei soggetti “sfortunati” per motivi psicofisici o dipendenti da eventi particolari non supera il 10/12% degli aventi diritto.
In questi paesi i controlli fiscali contribuiscono, peraltro, a contenere questo fenomeno eliminando gran parte delle elusioni fiscali e contributive e riducendo il livello di economia illegale, che Istat stima per l’Italia pari al 13% del PIL (210 miliardi di euro circa). Secondo altre istituzioni, questo valore potrebbe arrivare addirittura fino al 25% del PIL. Con il maxiemendamento alla legge di bilancio per il 2019, è stata proposta una modifica al meccanismo di indicizzazione delle pensioni che prevede la rivalutazione completa solo per i trattamenti fino a tre volte il minimo. Il governo del cambiamento ha proposto una delle peggiori e bizantine indicizzazioni in termini di equità: rivalutazione del 100% dell’inflazione (1,1% l’incremento sulle pensioni per il 2019) per il 18,67 milioni di pensioni fino a 3 volte il minino (1.524 euro lordi) di cui, come abbiamo visto, un terzo sono totalmente o parzialmente assistite. I percettori di queste prestazioni fanno parte del 44,92% di italiani che in totale pagano solo il 2,8% dell’Irpef totale (cioè nulla). Sulle pensioni frutto di contributi realmente versati, i più fortunati sono quelli che prendono tra 4 e 5 volte il minimo, la cui pensione verrà rivalutata non per scaglioni (come avviene per la progressività fiscale) ma sull’intero importo al 52% tra 5 e 6 volte il minimo, al 47% tra 6 e 8 volte, al 45% tra 8 e 9 volte, e al 40% oltre le 9 volte; in pratica metà inflazione. Questi pensionati rientrano nel “club” del 4,36% di contribuenti che versano il 36,52% di tutta l’Irpef; aggiungendo anche i pensionati tra 4 e 5 volte il minimo, la cui rivalutazione è pari al 77% dell’inflazione, si arriva al 12,09% di contribuenti che però versano il 57,11% di tutta l’Irpef. Supponendo un’inflazione media dell’1,1% e un periodo di fruizione della pensione di 20 anni, la riduzione dell’indicizzazione 2019 al 50% è pari a una decurtazione del potere d’acquisto di 0,5% l’anno che, capitalizzata, porta la riduzione a fine periodo a oltre il 12%. A questa perdita si assommano quelle del biennio successivo.
Ma la guerra ai pensionati non finisce qui; infatti per quanti percepiscono assegni superiori a 100.000 euro lordi l’anno (circa 60 mila euro netti l’anno, non proprio dei nababbi) è pure previsto, per la durata di 5 anni, un taglio lineare delle pensioni (si veda tabella 1). «L’operazione è stata presentata come una riduzione della parte di pensione non coperta da contributi – puntualizza Brambilla – ma in realtà come evidenziato dall’Approfondimento a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali sul ricalcolo delle pensioni oltre i 4.500 euro netti al mese, è un taglio senza alcuna logica. Infatti, le pensioni maggiormente avvantaggiate dal metodo retributivo, come dimostrato anche da uno studio di Stefano Patriarca, sono quelle intermedie fino a 3.500 euro. Stiamo cioè parlando di pensionati che fanno parte di quel 4,36% di contribuenti che mantengono il restante 46% della popolazione (a proposito, per quest’ultimo gruppo, con riferimento ai costi della sola sanità, occorrono circa 50 miliardi l’anno a carico di redditi e pensioni definite dai gialloverdi “d’oro”)».
Infine, se è vero che oltre il 60% delle prestazioni assistenziali che godono della rivalutazione totale e potrebbero addirittura beneficiare dell’incremento relativo alle cosiddette “pensioni di cittadinanza”, sono pagate al Sud, lo è altrettanto che circa il 70% delle pensioni tagliate e poco indicizzate stanno al Nord. Il grosso rischio della “guerra delle pensioni” e delle pensioni di cittadinanza, è quello di aumentare le pensioni basse e assistenziali, i cui maggiori beneficiare sono spesso “furbi”, elusori ed evasori, persone che sfruttano il lavoro nero e foraggiano l’economia illegale. Anziché premiare il senso del dovere, dello Stato e il merito, assistiamo a un trasferimento forzoso di risorse da lavoro, a assistenza e da Nord a Sud: un ottimo risultato per la Lega (ex Nord). Con un costo per la collettività e per lo sviluppo del paese, spaventoso.

Due anziani che vengono invitati ad andare a lavorare

Riforma pensionistica
Immagine tratta da lasvolta2017.com

Nelle due tabelle sottostanti; a confronto la situazione di oggi e l’ipotesi Berlusconi.

Tabella situazione pensionistica

Tabelle che confrontano la situazione di oggi e l’ipotesi Berlusconi

 

Traggo da “La voce di Trieste” un articolo sulla drammatica, quanto tenace resistenza, di questa gloriosa città per far valere i suoi diritti calpestati dai governi italiani che si sono succeduti nei vari decenni. Molto importante aprire i LINK; in particolare quello del Memorandum di partenariato-Italia-Cina.

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Segue l’articolo originale: Trieste: accordo illegittimo dell’Autorità Portuale con China Communications Construction Company (29 marzo 2019). La Voce di Trieste tratto da https://www.lavoceditrieste.net/2019/03/29/trieste-accordo-illegittimo-dellautorita-portuale-con-china-communications-construction-company

Trieste: accordo illegittimo dell’Autorità Portuale con China Communications Construction Company.

Il 26 marzo 2019 la International Provisional Representative of the Free Territory of Trieste – I.P.R. F.T.T. ha inviato al Governo italiano amministratore una nota ufficiale di protesta per l’accordo firmato a Roma il 23 marzo con China Communications Construction Company – CCCC dal Presidente dell’attuale Autorità Portuale di Trieste, Zeno D’Agostino dopo la firma del Memorandum d’intesa Italia – Cina.

La nota di protesta (LINK) precisa i motivi di illegittimità assoluta dell’accordo firmato dall’Autorità Portuale, e chiede al Governo italiano amministratore di assumere i provvedimenti necessari al ripristino della legalità nella gestione del Porto Franco internazionale e del porto doganale dell’attuale Free Territory of Trieste. In caso contrario, la I.P.R. F.T.T. intende attivare tutte le difese legali necessarie.

Il Memorandum d’Intesa Italia – Cina

Il 23 marzo 2019 Italia e Cina hanno firmato a Roma il preannunciato «Memorandum d’intesa tra il Governo della Repubblica Popolare Cinese sulla collaborazione nell’ambito della Via della Seta economica e dell’Iniziativa per una Via della Seta marittima del 21° secolo» (LINK).

Le materie di cooperazione concreta previste dal Memorandum sono i trasporti, la logistica e le infrastrutture – inclusi i porti, le ferrovie e le strade – l’energia e le telecomunicazioni, anche per quanto riguarda la libertà degli investimenti e delle partecipazioni finanziarie pubblici e privati, le concessioni e gli appalti.

Le cooperazioni previste non riguardano perciò il normale flusso reciproco delle merci, ma il controllo delle infrastrutture portuali, di trasporto e di comunicazione della penisola italiana e della Sicilia che hanno valenza economica e strategica primaria per l’Europa e per gli equilibri strategici euro-atlantici e mediterranei.

I rischi strategici conseguenti sono determinati dalla debolezza politico-economica dell’Italia e dall’enorme potere di pressione che la R.P.C. può esercitare per espandere la propria sfera d’influenza economica, politica e militare oltre i limiti di equilibrio con gli U.S.A. e con la Russia. Le preoccupazioni e le contrarietà internazionali sono perciò perfettamente fondate.

La pericolosità economica e strategica concreta dell’operazione è stata infatti confermata dal contenuto di alcuni degli accordi principali firmati a Roma immediatamente dopo il Memorandum, ed in particolare da un accordo illegittimo sui collegamenti ferroviari del porto di Trieste.

Il ruolo strategico del Free Territory of Trieste

Il Governo italiano non ha infatti alcun diritto di consentire ad imprese ed investitori di Stato della R.P.C. di ottenere anche il controllo delle infrastrutture portuali e ferroviarie strategiche dell’attuale Free Territory of Trieste, dove esercita un mandato fiduciario di amministrazione civile provvisoria che gli è stato sub-affidato dai Governi degli USA e dal Regno Unito quali amministratori primari per conto del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

L’11 marzo 2019 la International Provisional Representative of the Free Territory of Trieste – I.P.R. F.T.T. aveva perciò inviato al Governo italiano una prima nota ufficiale di protesta, riguardante l’inclusione illegittima del Porto Franco internazionale e del porto doganale di Trieste nelle trattative politico-economiche in corso tra Italia e Cina, riservandosi tutte le necessarie difese (LINK).

Natura e limiti giuridici del Memorandum

Il Memorandum italo-cinese del 23 marzo è stato redatto nella forma di una dichiarazione bilaterale d’intenti che non costituisce accordo internazionale da cui possano derivare diritti ed obblighi di diritto internazionale, né obblighi giuridici, finanziari o impegni, e dovrà essere interpretato in conformità con le rispettive legislazioni nazionali, con il diritto internazionale e, per quanto riguarda l’Italia, con gli obblighi derivanti dalla sua appartenenza all’Unione Europea.

Il Memorandum d’Intesa, quale atto bilaterale, e gli accordi concreti conseguenti non possono perciò coinvolgere legittimamente Paesi terzi, qual’è l’attuale Free Territory of Trieste che i Governi di Stati Uniti e Regno Unito hanno sub-affidato all’amministrazione civile provvisoria del Governo italiano ed alla difesa militare della NATO. Per questo motivo, Trieste ha anche la funzione di base navale degli U.S.A. e della NATO.

L’accordo illegale su Trieste

I limiti giuridici del Memorandum d’intesa sottoscritto dai Governi italiano e cinese sono stati violati con la firma successiva di un «Accordo di cooperazione fra Autorità di Sistema Portuale del mare Adriatico Orientale – Porti di Trieste e Monfalcone e China Communications Construction Company (CCCC)» // «Cooperation agreement between the Port System Authorities of the Eastern Adriatic Sea – Ports of Trieste and Monfalcone and China Communications Construction Company (CCCC)», che riguarda lo sviluppo ed il controllo delle ferrovie di collegamento del Porto Franco internazionale e del porto doganale di Trieste (LINK).

L’accordo è stato preparato e sottoscritto da Zeno D’Agostino, funzionario italiano imposto nel 2015 da politici del PD come Presidente dell’Autorità Portuale italiana di Trieste, che è un organo provvisorio illegittimo perché opera in sostituzione del legittimo Direttore del Porto Franco che il Governo italiano sub-amministratore ha l’obbligo di nominare in esecuzione dell’art. 18 dell’Allegato VIII del Trattato di Pace con l’Italia del 1947 (LINK).

Il Presidente dell’Autorità Portuale italiana di Trieste non aveva e non ha perciò il potere di predisporre, firmare od eseguire quel genere di accordi, e quale funzionario del Governo italiano sub-amministratore ha l’obbligo giuridico di impedire che qualsiasi Stato prenda il controllo delle infrastrutture portuali e ferroviarie dell’attuale Free Territory of Trieste e del suo Porto Franco internazionale.

L’accordo firmato da Zeno D’Agostino consentirebbe invece agli investitori di Stato della R.P.C. di assumere il controllo delle ferrovie necessarie allo sviluppo delle aree del Porto Franco internazionale delle quali essi tentano di assumere il controllo acquistando quote e beni di società private alle quali lo stesso D’Agostino garantisce concessioni a lungo termine secondo leggi portuali italiane inapplicabili a Trieste.

Zeno D’Agostino è inoltre il Presidente del consorzio COSELAG, che si prepara a vendere agli investitori di Stato della R.P.C. le aree industriali necessarie per costruire uno dei due nuovi scali ferroviari che diverrebbero di loro proprietà.

Lo stesso presidente dell’Autorità Portuale illegittima, Zeno D’Agostino, consente inoltre all’attuale sindaco del Comune di Trieste, Roberto Dipiazza, di occupare il Porto Franco Nord con interventi provatamente illegittimi per decine di milioni di euro a danno patrimoniale del Comune e dell’Autorità Portuale, che ha perciò l’obbligo giuridico di impedirli.

La legalità è divenuta necessità strategica

Si può quindi affermare che in questo modo la gestione attuale del Porto Franco internazionale del Free Territory of Trieste sub-affidato all’amministrazione civile del Governo italiano ha raggiunto in questo modo livelli di illegalità intollerabili e senza precedenti.

E che dopo l’accordo illegittimo firmato il 23 marzo tra Zeno d’Agostino ed investitori di Stato della R.P.C. il ripristino della legalità nell’attuale Free Territory of Trieste è divenuto una necessità strategica di rilievo internazionale.

I.L.

 

Sul Memorandun d’intesa Italia-Cina pesano come un macigno tre fatti: 1°) La totale disinformazione riservata ai cittadini; 2°) La fretta dimostrata nel voler concludere un accordo di dubbia convenienza per un’urgenza solo politica dei penta stellati; 3°) Il Memorandun, detto in modo esplicito, è un tentativo, neppure troppo velato, di intromettersi nei settori chiave (comunicazioni, ferrovie, porti e aeroporti e ben altro) del nostro indebitato paese, con la RPC che spinge a tutto vapore per espandersi, forte del suo enorme potere economico-politico.

La Cina conta circa un miliardo e 400 milioni di abitanti e un bisogno insaziabile di energia ma soprattutto di super-tecnologie per produrre lavoro, per cui deve investire in altri paesi per acquisire territori, scambi e “materiale umano”. Si tratta di un progetto difficile da sviluppare, particolarmente in Europa, per il modello di mercato RPC non libero ma sotto il super-controllo del governo comunista. È una questione molto complessa, che va esaminata e discussa con la nuova Europa nascente, in modo aperto e non con sciocche, quanto improvvide dichiarazioni del nostro Presidente del Consiglio G. Conte. Bisogna tenere ben presente una regola: chi investe in un’azienda per trarre profitto, ne diventa comproprietario.

Il partenariato.

Questa forma di “partenariato” è completamente diversa di quella di triste memoria del 1974 con la Lega Araba; essa voleva impadronirsi di grandi porzioni di territorio per investire le sue enormi ricchezze ma soprattutto ampliare la sua sfera religiosa per islamizzare gli abitanti secondo i principi coranici.

Un particolare che riguarda la Cina che può sembrare banale ma non lo è affatto; si trova proprio nella formazione dei giovani.

Il governo cinese guarda lontano e prepara all’uopo milioni dei suoi giovani, i quali forse non giocano a calcio e non hanno la “Juventus” (per fortuna loro) e non sono perditempo come i nostri.

Orbene; gli inglesi hanno “portato” in Cina un gioco al biliardo che si chiama Snooker.

Si tratta di una vera disciplina che impegna il giocatore a conoscerne bene le regole, i comportamenti e lealtà verso gli avversari e una vera etica sportiva. Richiede lunghi allenamenti al Club, studio di tattiche per le centinaia di combinazioni al tiro e precisione nel colpire la biglia.

È una sorta di gioco a scacchi ma molto più dinamico per i movimenti attorno al grande tavolo. Ebbene, in pochi anni nella grande Cina si sono aperti oltre 5.000 (cinquemila) Club e scuole che insegnano questa disciplina. Oggi capita che decine giovani di 17 anni vincano partite su esperti campioni quarantenni del Regno Unito; tra l’altro, i tavoli da gioco sono costruiti nella stessa Cina, che ha conquistato il mercato globale.

Sono molti anni che seguo con la famiglia questo magnifico gioco sui canali di Eurosport, perché la RAI trasmette nelle sue reti, sino alla nausea, partite di calcio, portando in auge tale gioco quale “sport” nazionale per eccellenza. Non è per niente così; conta circa il 35/40% di appassionati e non è più “sport” ma fabbrica di malaffare, imbrogli, produce violenza, portando inevitabilmente ad azioni delinquenziali, ed è, a tutti gli effetti, il “5° Stato”, in quanto Lega autonoma intoccabile.

Belt and Road: frase impropria che significherebbe “La nuova via delle seta”, è comunque espressione dai contenuti piuttosto oscuri. Si tratta di un grandioso progetto partito dalla Cina già nel 2013 per creare rapporti politici e trattative con oltre sessanta paesi dell’Africa, Asia ed Europa. Si tratta di un partenariato minutamente studiato per concorrere e influenzare, con allettanti finanziamenti, le strutture dei trasporti di terra, mare e cielo nei paesi con politiche deboli come l’Italia.

Cartina raffigurante

Cartina raffigurante “La nuova via delle seta”
Immagine tratta da eurolinkgeie.com

Partenariato è un termine dai significati funesti per l’Italia e richiama tutto il paese al ricordo di quello sottoscritto dal prode Romano Prodi con la Lega Araba nel non troppo lontano 1974.

In ottemperanza di questo “accordo” abbiamo, oggi, centinaia di migliaia di extracomunitari abusivi che vivono sulle spalle degli italiani con costi enormi, non rimborsabili, in nome di un vergognoso mercimonio umano che il padre della cristianità don Francesco chiama, con una faccia di bronzo che non ha eguali, “solidarietà”. Nel frattempo gli arabi hanno acquistato interi isolati in grandi città del Nord.

Una precisazione: l’allora Presidente del Consiglio Romano Prodi (1996/1998), nel 1999 era anche Presidente della Commissione Europea.

Riporto qui parte di un mio articolo del 2012 sull’argomento e già pubblicato tempo addietro nel BLOG.

Nel 1974, quando si era tenuta a Lahore la II° Conferenza Islamica, presenti tutti i potenti del mondo musulmano, si erano tracciate le linee di una politica Islamo-araba di portata internazionale, tanto che “Il Segretario generale della Conferenza Islamica Muhammad Hasan ‘al-Tuhāmi parlò di uno stato islamico che avrebbe cercato di diffondere l’islām anche nei paesi non musulmani”.

Specificato nello “Statuto degli Stati Arabi” (il comma b), tra le altre norme, illustra in modo chiaro che:«…nel 1964 è stato formato il Consiglio Arabo per L’unità Economica dei 12 Stati membri della Lega. Gli obiettivi di questo Consiglio includono, fra gli altri, l’inizio delle azioni per creare un mercato comune arabo, allo scopo di garantire la libertà di movimento e transito d’individui, capitali e beni, così come la libertà di ottenere lavoro e acquisto di proprietà ».

L’ambizioso progetto prendeva concretamente corpo nei decenni successivi anche attraverso il DEA, divenuto lo strumento decisivo del successo di questo progetto di partenariato.

“Questi programmi sono stati entusiasticamente accolti, applicati e recepiti da leader, intellettuali e attivisti europei, non solo, ma anche elargendo cospicui finanziamenti ai palestinesi e ai Fratelli Musulmani per creare le loro ramificazioni in tutta l’Europa occidentale”.

L’avventata e imprudente politica di partenariato capeggiata dalla Francia, aveva volutamente allontanato dell’Europa dagli Stati Uniti, sottovalutando in modo improvvido la jihād.

In seguito l’Europa aveva cercato, francamente senza convinzione, di estraniarsi dalla jihād attuando un’ambigua politica che l’aveva portata a una sorta di collusione con il terrorismo internazionale accusando gli Stati Uniti e Israele di alimentare i movimenti jihadisti.

L’Europa filo-arabo-islamica aveva continuato la sua politica di sottomissione e a quanto risulta, beneficiando in un solo decennio la Lega Araba di oltre 10 (dieci) miliardi di dollari; il tutto portato avanti con icastico impegno dal Presidente di turno Romano Prodi. Una vera follia, tenendo conto che questo denaro sarebbe servito per ben altro a casa nostra, o altrimenti utile a mitigare gli effetti dell’attuale grave crisi (siamo nel 2012). Altro fatto inconcepibile di questa storia è avvenuto nel  1994 con il conferimento-farsa del “Nobel per la pace” a Jasser Arafat, nonché il 19 febbraio 1999, su iniziativa del Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, veniva nominato lo stesso Arafat “Cavaliere di gran Croce, decorato di gran cordone dell’Ordine al merito della Repubblica italiana”, un segno dell’ambiguo servilismo dei politici italiani verso un patriota palestinese abilissimo in politica; un pacifista che circolava con il mitra sottobraccio e sospetto colluso con il terrorismo.

Il 10 febbraio 2012 una notizia ammutoliva Torino: era quella di creare nella città “Una sola casa per i musulmani del Piemonte”, in cui i buoni propositi erano di “ Un futuro di convivenza e di pace”, annunciando ai piemontesi la nascita della “Confederazione Nazionale”, la quale si porrà quale “Interlocutore dello Stato italiano”, chiedendo inoltre il riconoscimento della religione islamica. Tutto questo succedeva mentre Torino e il Piemonte vivevano una tremenda crisi politica e di lavoro; in quel periodo Sindaco di Torino era il comunista Piero Fassino, succeduto all’altro comunista Sergio Chiamparino.

Ritornando al 19 gennaio Il “Fatto Quotidiano” scriveva:« Torino ha finito i soldi. Le casse di Palazzo Civico sono vuote, e sui cittadini sabaudi grava un debito che l’anno scorso è salito a 4,5 miliardi di euro, record assoluto in Italia. In questi giorni la giunta Fassino ha approvato il bilancio previsionale 2012. Non è stata una passeggiata, non soltanto per il fuoco di sbarramento dei 30mila emendamenti al testo posti dall’opposizione Pdl-Lega, ma soprattutto perché la grana dei derivati non ha certo consentito ampi margini di manovra. In più bisognava tentare il rientro nello «stupido» Patto di stabilità, come l’aveva definito Fassino alla fine dell’anno scorso.

La Relazione previsionale programmatica redatta da Domenico Pizzala, influente collaboratore dell’assessore al Bilancio Gianguido Passoni, parla chiaro: «Gli oneri finanziari derivanti dall’indebitamento […] condizionano in parte il bilancio comunale. Tale condizionamento tenderà ad aumentare se non continuerà una incisiva e adeguata politica di contenimento della spesa e di dismissioni patrimoniali». Due obiettivi che, stando ai numeri contenuti nel documento, appaiono difficili da realizzare…»

Eppure Torino continua a essere un contenitore arabo-islamico e fintanto che al comando della Regione Piemonte ci sarà un Presidente come Sergio Chiamparino, detta Regione rimarrà inchiodata al passatismo e a iniziative miranti a un’accoglienza esasperata di gente extracomunitaria mantenuta con costi spaventosi (circa un paio di mesi fa è stata tolta ai migranti la gratuità ai contraccettivi; persino quelli erano gratis), denari estorti al mondo del lavoro con effetti, in tale congiuntura sfavorevole, di alimentare la continua emorragia delle imprese e dei giovani.

L’attuale “guerra libica”.

Nella cruda realtà è una finta guerra ma con veri, poveri morti e non per migliorare la condizione di cittadini e di tribù libiche o africane; si tratta di una guerra di convenienza  In questo conflitto il petrolio conta poco, ci sono altri motivi, appunto di convenienze e di profitti più facili; attraverso la ripresa del moderno schiavismo criminale (gli scafisti), o mercimonio umano, con un numero spaventoso di africani, libici compresi, spinti alla fuga (si parla di circa un milione di persone). Potentissimi magnati, politici e militari africani sono i burattinai senza scrupoli che tirano le fila di questo funereo teatro creato all’uopo nello scacchiere libico. “La questione libica” è una vecchia storia all’italiana: la lunga guerra di “conquista” 1911- 1931, recentemente ancora nel 2011, nella guerra contro Muammar Gheddafi, con il governo Berlusconi che voleva intervenire a fianco dei francesi, i quali gli scaricarono tutte le responsabilità che in realtà erano del presidente Napolitano detto “emerito” solo perché comunista (sempre loro), ma senza alcun merito e molti demeriti.

Le cosiddette “guerre di convenienza” esistono da secoli; in particolare nelle vecchie monarchie. Poche o molte migliaia di morti servivano per giustificare scambi, acquisizioni di territori e financo di Stati. Le monarchie si accordavano senza andare troppo per il sottile sul numero delle perdite umane. Ecco un esempio fra mille; l’intervento piemontese nella guerra di Crimea (1853 – 1856), è stato uno di quegli accordi “vantaggiosi”, fatti “ al prezzo di qualche migliaio di morti”.

Molto ingenuamente si pensava che oggi, almeno in Europa, la schiavitù fosse storia finita da molto tempo ma stando a quanto succede, credo che per i principali responsabili sia giunta l’ora di fare i conti con processi pubblici che infliggano condanne severe e inappellabili.

16 aprile 2019

                                                                                                                                 Carlo Ellena

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Italia, timida voglia di autonomia – APPROFONDIMENTO

A seguito del post precedente relativo alla Costituzione Federale, ne riporto un capitolo importante.

I requisiti necessari (di Gianfranco Miglio).

 

Una “vera” Costituzione Federale deve avere i seguenti requisiti. Se non li ha, non è federale (e quindi non produce gli effetti che da essa si attendono, ma crea invece danni incalcolabili).

  1. In primo luogo le regole che seguono devono derivare da un’apposita Costituzione. Non si possono innestare “elementi di federalismo” su di una Costituzione ispirata ad altro modello. La revisione costituzionale deve poi essere soggetta a procedure molto aggravate: discussa e approvata da coloro che detengono il potere nei diversi livelli e dai cittadini di tutte le unità (Cantoni) che compongono la Federazione.
  2. Il potere deve essere diviso sul territorio: nel senso che le funzioni di governo non siano concentrate in un solo fulcro di potere ma divise stabilmente fra almeno due aree. Queste possono essere più di due ma mai meno di due: i soggetti membri della Federazione (Cantoni) e la Federazione stessa. La diffusione del potere nella Costituzione Federale fa sì che in questa non esista alcun “sovrano”. “Sovrano” (secondo la più genuina concezione del costituzionalismo europeo) è soltanto l’ordinamento nel suo complesso. In questo senso i titolari di funzioni pubbliche, sono “partecipi” della sovranità. Ma quest’ultima, nella sua accezione tradizionale e solitaria, viene superata e sostituita, da momenti di decisione funzionale diffusi nell’intera Costituzione.
  3. L’autorità federale non deve essere un potere “superiore” o comunque separato dalle autorità che governano i “Cantoni”: deve nascere dall’assemblaggio dei governi cantonali. La forma di governo più adatta ad una Costituzione Federale, è perciò quella “direttoriale” (come nella Confederazione Elvetica): un Direttorio composto dai vertici stessi dei “Cantoni” e soltanto “guidato” da un Presidente eletto da tutti i cittadini. In tal modo, autorità cantonali ed autorità federale si combinano e si compattano, rendendo immediato il confronto delle decisioni e riducendo il percorso necessario per giungere a queste ultime.
  4. I Cantoni (ordinari e principali, fatto salvo dunque il caso delle Regioni a statuto speciale) non devono essere piccoli. E ciò per tre ragioni: a) per poter gestire efficacemente le vaste esigenze del governo; b) per poter resistere alle lusinghe o alle minacce (pretese “sostitutive”) dell’autorità federale ( come invece non è accaduto in USA ed in Germania); c) per poter formare, con i propri vertici, un Direttorio federale agile e funzionale.
    Una Federazione, costituita da molti piccoli soggetti (Regioni, Lӓnder e così via) è destinata rapidamente a trasformarsi in un sistema centralizzato. Hamilton chiedeva che gli Stati Uniti fossero composti da tanti piccoli “States”, perché pensava che la Federazione fosse lo stadio di transizione verso una Repubblica nazionale centralizzata. E se la Confederazione elvetica è rimasta tale, sebbene composta da ventitré piccoli Cantoni, ciò è accaduto perché questi ultimi sono sorretti e guidati da cittadini, irriducibilmente decisi, per secolare tradizione, a difendere la loro individualità: tutto il contrario delle nostre “Regioni”.
    Una federazione, formata da grossi Cantoni, apre la sola prospettiva possibile a una integrazione europea di tipo anch’essa “federale”: perché un reticolo di contratti (trattati) fra “grandi regioni” (Cantoni) al di sopra dei confini “nazionali”, costituirà il superamento del pluralismo negativo degli “Stati sovrani” oggi ancora imperante.
  5. Mentre in uno Stato unitario e accentrato si tende a comandare con atti d’imperio (provvedimenti e decisioni presi dall’alto), in un sistema federale, a tutti i livelli, si tende a operare con il sistema del contratto, cercando sempre il consenso delle popolazioni coinvolte. In una vera Federazione non c’è posto per l’autorità carismatica di un “demiurgo”, di un “salvatore della patria”, ma soltanto per “decisioni”, le quali vengono prese, dai titolari di pubblico ufficio, dopo che si è negoziato fino al limite del possibile.
    Egualmente non si ricorre alla regola della “maggioranza” per troncare un eventuale contrasto. Perché coloro che si trovano in “minoranza” devono essere convinti prima di dover rinunciare alla loro opzione; verso coloro che sono in minoranza non si deve usare la violenza del numero ma la persuasione del negoziato.In una Federazione non c’è spazio per il principio “gerarchico”: autorità cantonale (e prerogativa municipale) da un lato e autorità federale dall’altro, non costituiscono una “gerarchia” ma sono “parimenti ordinate”. Da qui deriva che il principio di “sussidiarietà” è intimamente opposto allo spirito del federalismo, ed è invece funzionale alla creazione – o alla restaurazione – di un sistema unitario e centralizzato.Sussidiarietà e gerarchia sono sinonimi.
  6. Il punto cruciale di ogni ordinamento federale è l’esistenza di procedure, costituzionalmente organizzate e garantite, che – salvaguardata la competitività implicita del sistema, ed il suo riposare su di un confronto senza fine – producano decisioni normative e governamentali certe e in tempi ragionevolmente brevi. Dopo avere discusso fino in fondo e confrontato le posizioni divergenti, si devono operare scelte non equivoche e per quanto possibile precise. Le istituzioni della Repubblica federale devono attribuire questa responsabilità decisionale a persone e a collegi precisi, situati nei diversi livelli dell’ordinamento.
    Tali procedure controbilanciano il carattere contrattuale, competitivo e aperto del sistema federale. Discutere sempre fino in fondo ma poi, in tempi certi e prestabiliti, decidere.
  7. Un ordinamento federale è alimentato e sorretto da due vocazioni, da due inclinazioni ideali dei suoi cittadini, La prima di queste è un profondo interesse e rispetto per le diversità: per ciò che – sul piano dei costumi, delle tradizioni culturali, dello stile di vita – differenzia le persone e le loro aggregazioni. La pretesa di rendere l’umanità omogenea è profondamente estranea al vero federalista. Perché è un conto battersi affinché i diritti civici e individuali siano estesi a tutti gli uomini e le donne; un conto è invece pretendere che quest’uguaglianza giuridica sia la base per far diventare uniformi ed omogenei tutti i popoli che la natura ha reso – e continua a far diventare – diversi. Così, mentre uno Stato unitario ed accentrato, mira a rendere tutti i cittadini eguali, omogenei e diretti dall’alto, una Costituzione federale è fatta per conservare, tutelare e gestire le diversità.
  8. La seconda vocazione di una convivenza federale è il culto della concorrenza e della competizione. E ciò accade perché esiste una stretta relazione tra federalismo ed economia di mercato. Come tutte le economie “amministrate” e collettive, presuppongono una centralizzazione dei poteri ed una struttura monocratica, così al contrario l’economia di mercato, basata sul pluralismo e sulla libera iniziativa dei soggetti, trova il suo clima congeniale nei sistemi politico-amministrativi federali. Alla competizione dei soggetti economici corrisponde la competizione ed il confronto (incanalato nella Costituzione) fra i soggetti politici della Federazione (Cantoni ed altre unità legittimate).

Se si analizzano le cose con la dovuta attenzione, si deve costatare che tutti i requisiti essenziali per il successo di un moderno sistema federale, finora analizzati, sono già venuti emergendo, “di fatto”- almeno qui in Italia – negli ultimi quarant’anni; e si sono profilati nel contesto della Costituzione del 1948, man mano che questa si andava deformando. Così che l’adozione di una Costituzione federale oggi rappresenta la razionalizzazione e la traduzione in positivo, di tutti i fenomeni negativi e degenerativi che si sono venuti accumulando negli scorsi decenni. Paradossalmente la trasformazione federale è stata preparata dalla decadenza della prima Repubblica.

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Italia, timida voglia di autonomia

Novembre 2018

Cosa pensano gli italiani dell’EURO e dell’EUROPA? Ai politici importa qualcosa?

In questo periodo convulso e confuso vari politici importanti del nuovo governo si sono affrettati a dichiarare all’Europa (che non è nemmeno una federazione) che “la moneta unica non è in discussione e nessuna uscita dall’Europa”, Giusta o sbagliata, è un’opinione dei politici, non dei cittadini. L’auspicato cambio di governo c’è stato, le nuove direttive politiche hanno creato un terremoto e la situazione merita una particolare attenzione. Tuttavia l’abitudine a immedesimarsi nei padroni del paese, si è ben presto rivelata, a costoro una domanda: ma voi sapete cosa pensano realmente gli italiani dell’EURO e dell’EUROPA? L’Inghilterra ne è uscita perché è stato il voto referendario, democratico del popolo inglese a volerlo, questa si chiama “democrazia partecipativa” di un paese maturo e civile, e ricordo per i corti di memoria, che gli inglesi per questa loro decisione sono stati insultati pesantemente da vari politici di alcuni Stati europei, la prima è stata l’Italia politica delle sinistre, non dai cittadini.
A proposito dell’EURO riporto in questo articolo di Byoblu una confessione di Giuliano Amato che ha dell’incredibile ma che si è rivelata e rivela, al presente, tutta la sua tragica verità. I veri motivi di questa sorta di “confessione” sono oscuri, certamente non per scrupoli di coscienza.
La moneta unica e l’Unione Europea, molto compromessi da politiche lontane dai cittadini, colpiscono maggiormente un’Italia sfruttata e impoverita; essa paga più di altri Stati membri la perdita della sua sovranità nazionale.

 

AMATO CONFESSA: Ecco come vi abbiamo portati nell’euro. Siamo alla follia.

pubblicato il 7 gennaio 2015 – 4.40 da Claudio Messora BYOBLU

Allucinante confessione di Giuliano Amato, deposta come se si trattasse di una marachella qualunque e non della vita di milioni di persone: sapevano, li avevano avvisati, avevano previsto tutto ma andarono avanti lo stesso! Portarono questo paese nell’euro pur consapevoli che difficilmente avrebbe funzionato. Ma non è una lezione di storia, non è il racconto della decadenza del Sacro Romano Impero. E’ qualcosa che sta succedendo adesso, qui. Andrebbe raccontato con ben altro sentimento di contrizione, non con questa nonchalance. Hanno giocato. Hanno perso, ma il debito di morte dobbiamo pagarlo noi. Siamo alla follia! Ecco le sue allucinanti parole.

“Noi abbiamo fatto una moneta senza stato. Noi abbiamo avuto la faustiana pretesa di riuscire a gestire una moneta senza metterla sotto l’ombrello di un potere caratterizzato da quei mezzi e da quei modi che sono propri dello Stato e che avevano sempre fatto ritenere che fossero le ragioni della forza, e poi della credibilità che ciascuna moneta ha.

Eravamo pazzi? Qualche esperimento nella storia c’era stato di monete senza Stato, di monete comuni, di unioni monetarie, ma per la verità non erano stati molto fortunati. Perché noi, quando ci siamo dotati di una moneta unica, abbiamo pensato che potevamo riuscirci in termini di Unione, e non facendo lo Stato europeo? Avevamo già costruito un mercato economico comune fortemente integrato. Più o meno avevamo un assetto istituzionale che non era quello di uno Stato ma certo era qualcosa di molto più robusto di quello che usualmente c’è a questo mondo: la comunità europea, l’Unione Europea, col suo Parlamento, la sua Commissione, i suoi Consigli. Abbiamo anche previsto di avere una banca centrale.

Però, sapete com’è, abbiamo deciso che trasferire a livello europeo quei poteri di sovranità economica che sono legati alla moneta era troppo più di quanto ciascuno degli stati membri fosse disposto a fare. E allora ci siamo convinti, e abbiamo cercato di convincere il mondo, che sarebbe bastato coordinare le nostre politiche nazionali per avere quella zona, quella convergenza economica, quegli equilibri economici-fiscali interni all’Unione Europea che servono a dare forza reale alla moneta.

Non tutti ci hanno creduto. Molti economisti, specie americani, ci hanno detto allora:

Guardate che non ci riuscirete! Non vi funzionerà! Se vi succede qualche problema che magari investe uno solo dei vostri paesi, non avrete gli strumenti centrali che per esempio noi negli Stati Uniti abbiamo, che può intervenire il governo centrale, riequilibrare con la finanza nazionale le difficoltà delle finanze locali. La vostra banca centrale, se non è la banca centrale di uno Stato, non può assolvere alla stessa funzione cui assolve la banca centrale di uno Stato, che quando lo Stato lo decide diventa il pagatore senza limiti di ultima istanza.

In realtà noi non abbiamo voluto credere a questi argomenti. Abbiamo avuto fiducia nella nostra capacità di autocoordinarci e abbiamo addirittura stabilito dei vincoli nei nostri trattati che impedissero di aiutare chi era in difficoltà. E abbiamo previsto che l’Unione Europea non assuma la responsabilità degli impegni degli Stati; che la Banca Centrale non possa comprare direttamente i titoli pubblici dei singoli Stati; che non ci possano essere facilitazioni creditizie o finanziarie per i singoli Stati. Insomma: moneta unica dell’Eurozona, ma ciascuno deve essere in grado di provvedere a se stesso.

Era davvero difficile che funzionasse, e ne abbiamo visto tutti i problemi.”

Nel dissesto italiano forti segnali di ritorno alla voglia di autonomia.

Da un certo tempo compaiono su internet diversi simboli politici inneggianti all’autonomia, nei post si leggono parole gravi, dure ma giustificate. Il fatto che molti cittadini non si “sentono” più  italiani ha come causa prima un numero record di fallimenti avvenuti nel nostro paese almeno negli ultimi vent’anni; un ben triste primato; come seconda causa, essere ignorati, mai interpellati attraverso consultazioni pubbliche su accadimenti importanti che nel bene e nel male coinvolgono sempre e soltanto la vita degli italiani, come la sconsiderata e costosa questione degli extracomunitari ma l’aspetto più vergognoso è il crollo nell’istruzione scolastica scesa a livelli sotto lo zero. I bambini, i giovani ci guardano, vedono e domani ci giudicheranno dall’estero, perché il loro paese non ha saputo dar loro un lavoro.

Sembra di ripercorrere la fine degli anni settanta quando i movimenti autonomisti facevano il loro ingresso nel mondo politico, in particolare nel Nord dell’Italia. A quel tempo Torino, il Piemonte, indi, il paese tutto, erano molto diversi, con cittadini di tutt’altra pasta e nonostante le sfiancanti lotte sindacali, l’economia ancora marciava contando su un importante settore artigiano e più in generale, di una manualità molto specializzata; insomma, c’era la cultura del lavoro, a partire dalla prima scuola e si pensava al futuro con ottimismo.

Ora, di tutto questo, non rimane più nulla; bugia, ci rimangono milioni di disoccupati.

Nell’odierna Italia improduttiva, facilona e canterina, senza i prestiti Europei elargiti a piene mani e senza controlli dall’italiano signor Draghi, sarebbe fallita almeno tre o quattro lustri fa; ma era imperativo accogliere gli extracomunitari e l’Italia papista e cattolica allargava le braccia e accoglieva tutti (meno il vaticano). Nel solo Piemonte si contano ben 40 (quaranta) centri di accoglienza con alcune migliaia di extracomunitari, che con la nuova legge dovranno essere rimpatriati. Orbene, oggi, a quanto ammontano i costi? Quali risposte dare ai cittadini?

Questo nuovo Governo, formato da una composizione politica invero paradossale (nato il 31 maggio 2018), tenta tuttavia di rimanere a galla in quest’oceano d’intrighi e di sabbie mobili ma ha tutti contro, dalla sconfitta maggioranza PD, che con un’opposizione improvvida, rabbiosa, critica invece di tacere per vergogna, a contro persino l’Europa plutocratica di Bruxelles. E pensare che sia una sia l’altra, dovrebbero essere indagati e messi sotto inchiesta partendo dal losco affare libico degli “scafisti mercenari da carico e scarico a mare“, veri assassini ancora oggi liberi di agire. Orrori che sono stati, di fatto, la pietra tombale della vecchia Europa, dimostrando, invero, com’essa, oramai in netto declino, sia alla fine del suo percorso storico.

Per il declino dell’Italia non servono numeri, tutte le infamie sono lì visibili, concrete, le conseguenze tutto il mondo le può costatare nella tragedia compiuta delle alluvioni che hanno mostrato, nelle crude immagini televisive, l’immane sfascio geologico con montagne di rifiuti fumanti in ogni angolo del paese. Colpevole la mancanza di adeguate strutture d’incenerimento, d’interventi manutentivi ai boschi di tutta l’area montana e di pianura, alle strade, fiumi, torrenti, ruscelli, paesi e città. Nulla sfugge al disastro ambientale e aggiungo organizzativo dei trasporti pubblici, delle ferrovie, dei nuovi edifici scolastici che crollano e fanno vittime, del sistema scolastico che deve istruire e preparare uomini, non burattini con la bandiera rossa, una giustizia che non giudica ma troppe volte assolve i colpevoli incitando a delinquere e la magistratura? Un istituto geriatrico che procede a tentoni. E che altro? Forse certe banche. Chissà…

Una catena d’intrighi, menzogne, fatti distorti coperti, corruttela; complici una stampa di parte e le istituzioni. Si tenta di manipolare, rallentare le inchieste, nascondere fatti indifendibili, opera dalla precedente maggioranza PD di governo, composta dai voltagabbana, traditori e piccoli partiti di facciata, tutti assoldati per fare numero. Compagine variegata che mascherata dietro altri simboli, fin dai primi anni’70, è la vera causa del declino di un’Italia, spolpata e impoverita. Costoro con una faccia di bronzo e un’arroganza inaudita incolpano il governo Conte, nato il 31 maggio 2018 (sei mesi fa), che causa disoccupazione e mancata creazione di posti di lavoro, sono menzogne indifendibili.

Il dramma del ponte di Genova è la prova di un continuum del sistema consolidato italiano di complicità, di corruzione, d’impunità. Un filo ininterrotto che ci riporta all’immane tragedia del Vajont, il 9 ottobre del 1963 che aveva provocato circa ben 2000 vittime. In carica c’era il Governo Leone. Com’è potuto succedere impunemente tutto questo? Quale risposta a tali domande? Altri interrogativi senza risposta, come da sempre.

Ricordo ancora, per i poveri di memoria, la storia ingarbugliata della FIAT (che non è un piccolo negozio di carabattole), uscita definitivamente dall’Italia nel più scandaloso silenzio dei politici e soprattutto, della borghesia industriale piemontese. Vedremo gli accadimenti del dopo Marchionne.

Ci ritroviamo una nuova società composta in buona parte da giovani immaturi, incapaci di affrontare responsabilità, a superare le difficoltà, inidonei a creare e fare lavoro; per loro si presenta  un futuro da disoccupati o dipendenti a vita. L’errore politico più grave è che la colpa, se si può parlare di colpa, non è tutta dei giovani. In Piemonte i nostri ragazzi sono cresciuti fin dalla scuola materna con la dottrina di stampo comunista che promuove la pianificazione, ossia, tutti uguali, tutto facile, che rifiuta l’individualismo, la competizione, la meritocrazia, niente educazione civica, tantomeno comportamentale; da loro cosa ci si può aspettare? Sono almeno due le generazioni allevate nella bambagia, grazie anche a un colpevole permissivismo, ai troppi denari spesi male dilapidando i risparmi di una vita degli improvvidi nonni.

Come salvare questa Repubblica dalla politica centralista nata dall’inganno e che nell’inganno affonda sempre più in basso? Un paese, il nostro, che è, nella realtà, da sempre diviso, volendo applicare a tutti i costi sistemi di governo unificanti in un’Italia troppo lunga, troppo diversa geologicamente, diversa nelle amministrazioni regionali, provinciali, comunali, diversa nei costumi, nel tipo di vita, nelle abitudini, nel lavoro, nello stesso sistema di fare e creare un lavoro che sia produttivo e consono alla tipologia del luogo e degli abitanti.

A questo punto, rivedendo con più attenzione la storia di questa Repubblica, come vecchio piemontese, mi si consenta di rifuggire da qualsiasi pensiero positivo sul futuro della nostra macilenta, improbabile “Unità d’Italia”. I suoi sostenitori dimostrino quali e dove sono finiti gli autentici valori patriottici. Questa cosiddetta “Unità”, una buona parte del paese non la voleva affatto e oggi ne costatiamo le profonde contraddizioni, già ben note e palesate da politici di consumata esperienza a partire dal lontano 1848.

Una sorta di puzzle di piccoli Stati che ognuno si governava a modo suo; così era l’Italia nel 1847/1848 e poi l’unificazione. E ancora ai nostri giorni, dopo 170 anni, le stesse realtà di quel tempo sono uguali, con gli stessi problemi, poco o nulla è cambiato.

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1848 si fa l’Unità d’Italia, un palese pretesto Risorgimentale

Il crollo della Rivoluzione francese non era stato la fine della sua ideologia, al contrario essa aveva innescato forti tendenze rivoluzionarie nelle potenti borghesie italiane, soprattutto al NORD del paese, ed erano pronte e preparate al cambiamento, promuovendo il dibattito politico sullo Stato, la forma e la gestione del potere. Un vento di libertà muoveva le classi colte e le ricche borghesie, non rivolte a smuovere l’assolutismo dello Stato sabaudo, ma protese alla ricerca di soluzioni politiche del paese che, per quei tempi, erano rivoluzionarie. L’idea era di porre un’alternanza al sistema retto dalle monarchie conservatrici, appoggiate da vetuste oligarchie aristocratiche e da una borghesia decisa a condividere il potere con i decadenti ceti nobiliari. Le monarchie, tuttavia ancora potenti, si trascinavano questa coda, dalla quale emergevano le ambizioni delle potenze economiche e da frange d’intellettuali dalle idee rivoluzionarie, pronti e decisi a gestire la situazione anche in solitudine. Un documento redatto per iscritto, o meglio, una carta costituzionale era parsa lo strumento idoneo per fissare le regole opportune per un patto fra cittadini e governo. Una scelta che non era stata invero, né difficile, tantomeno fantasiosa; la linea politica unitaria di Cavour era di una salda continuità con la monarchia sabauda, sfruttando il modello del Regno di Sardegna e quale carta costituzionale era riproposto lo Statuto Albertino del 1848, concesso forzatamente e con riluttanza da Carlo Alberto.

Una sorta di “rielaborazione”, senza compagine costituente, aveva in pratica ripresentato l’Editto Sardo del 1848, una costituzione che era un palese paradosso, poiché il documento esprimeva la volontà politica del governo a ergersi a rappresentante di tutto un popolo che, tuttavia, era completamente escluso da ogni forma di potere. Potere esercitato da una monarchia con una visione di amministrazione statuale, uniforme, omogenea e  fortemente accentrata di chiara origine giacobina. È sufficiente osservare la composizione della legge elettorale del 1848, ove la Camera rispecchiava la società subalpina del tempo, che, con il sistema elettorale fondato sul metodo “uninominale”, esercitava una sicura egemonia nel Parlamento e nel paese. Infatti, la prima Legislatura era composta in prevalenza da liberi professionisti, avvocati, uomini di legge, magistrati e funzionari di stato, pochi gli ecclesiastici (cinque in tutto) e una lieve presenza di proprietari di terre ( trenta su 204 deputati).

“Alle prime elezioni politiche generali per la formazione della Camera dei Deputati svolte il 27 gennaio 1861, sono iscritte al voto 418.696 persone pari  all’1,9% dell’intera popolazione italiana di quasi 22 milioni di abitanti. Votarono effettivamente 239.583 elettori, pari al 57,2% degli aventi diritto, meno, quindi dell’1% del popolo. Interessanti sono anche i dati sulla composizione sociale degli eletti: 85 erano principi, duchi o marchesi; 72 avvocati; 52 tra medici, ingegneri o professori universitari; 28 ufficiali militari di rango elevato”. Dati forniti Da G. Volpe, da la “Storia Costituzionale degli italiani”, cit. 21.

Emergeva, tuttavia, in tutta la sua gravità, l’enorme problema da risolvere: la questione meridionale.

C’erano le piccole e grandi borghesie arroganti e prepotenti proprietarie dei latifondi che minacciavano di far sollevare i contadini; c’era da combattere e reprimere il brigantaggio, una piaga che inaspriva i rapporti fra Nord e Sud; c’erano forti perplessità sul concedere le autonomie a Napoli e alla Sicilia e c’erano le luogotenenze che funzionavano male per l’estesa, precedente, disorganizzazione locale. A Torino, da Cavour, arrivavano sempre più frequenti i giudizi negativi degli uomini mandati in quelle zone.

«Un giudizio molto crudo espresso nel suo carteggio da Giuseppe La Farina, il Segretario della Società Nazionale, una delle centrali più attive della propaganda antiregionalistica, che auspica la chiusura definitiva delle «cloache governative di Napoli e Palermo»

Vesperini in “L’organizzazione dello Stato unitario”; nota 38 pag, 69.

Nel 1863, in una lettera inviata alla moglie, Nino Bixio scrive: «Che paesi si potrebbe chiamar dei veri porcili (…). Prima che questi paesi giungano allo stadio di civiltà in cui siamo noi (…) abbisognano anni e lunghi anni. Non strade, non alberghi, non ospedali, nulla di quanto si deve oggi nella parte meno avanzata dell’Europa: poveri paesi».

Giulio Vesperini in “L’organizzazione delle Stato unitario”, nota 39 pag. 69. Il brano è riportato in G. Ruffolo, “Un paese troppo lungo” Torino Einaudi 2009, 145.

 

(Nota personale: la prima frase “Che paesi si potrebbe chiamar dei veri porcili…” è la descrizione esatta di come sono ridotte, oggi, nell’anno 2018, molte zone di Torino; una, ad esempio è la Barriera di Milano, altra, è il Lungo Dora Agrigento. Ciò che vede l’ignaro visitatore in quel tratto di strada è uno sconcio indecente e incredibile per una città che si auto-elegge con altezzosa pomposità “Capitale della cultura”. Ero insieme a un amico inglese in visita alla città, ed è rimasto esterrefatto di cosa vedevano i suoi occhi; cose allucinanti, da non credere. Frotte di extracomunitari seduti qua e là che chiacchieravano fra sporcizia varia, lattine, bottigliette di birra vuote e rifiuti di ogni genere, mentre uno di questi, dal parapetto, orinava nella Dora. La città in declino? Torino non c’è più. Il centro storico, il cuore della città e le sue barriere; per descriverle oggi uso il termine di Bixio, che è il più appropriato; “sono un porcile”. Ma…i torinesi cosa dicono?

Impossibile, non veritiero, bugiardo? Andate e osservate. I luoghi sono in Torino, non su Marte).

 

Vari aspetti riguardanti la prevalenza del sistema centralistico, piuttosto che autonomista o regionalista, erano attinenti alla struttura sociale del paese: da un lato la società civile, in particolare al Sud, era povera e arretrata, anche se aveva dato valenti filosofi e giuristi (Mancini, Spaventa, Crispi, Pisanelli), per contro, il Nord aveva gente esperta nelle tecniche sulle proprietà rurali e altra attenta e aperta alle moderne correnti europee (Jacini, Correnti, Ricasoli, Minghetti). In sostanza, era chiaro che le necessità politiche e l’attitudine all’autogoverno erano molto diverse nelle differenti zone del paese, «…e l’unità con il Sud indeboliva, anche sotto questa forma, le tendenze liberistiche e autonomistiche che faticosamente si erano fatte strada in Piemonte, Lombardia, Toscana ed Emilia. Altro aspetto, la classe dirigente di quegli anni era ristretta e poco propensa ad allargare le basi del nuovo Stato. È anche da tener conto che i parlamentari di origine meridionale erano in gran parte esuli che avevano interrotto ogni legame con i quadri dirigenti dei rispettivi paesi di origine, per cui, la loro sorte personale dipendeva dalla continuità dell’egemonia piemontese del nuovo Stato». Giulio Vesperini in “L’organizzazione dello Stato unitario”. Interessante è da notare che la secolare borghesia del Sud, oramai ridotta a poche famiglie, ma ancora molto potenti, avevano appoggiato la politica centralistica che, insieme alle forze liberali del mezzogiorno, era rimasta l’unica forma di accentramento amministrativo per loro accettabile atta a concepire l’Unità d’Italia.

«Governo, parlamento e correnti politiche nella genesi della legge 20 marzo 1865, cit., secondo il quale, il contrasto tra i sostenitori delle istanze centralistiche e i fautori delle autonomie dura fino al 1865 ed oltre, ma si tratta di un contrasto teorico, dal momento che la minoranza s’impegna nei confronti della maggioranza a non sviluppare nel dibattito in aula le proprie tesi per arrivare quanto prima all’approvazione della legge e rendere più agevole, in questo modo, la soluzione degli elementi di turbativa esistenti in quel momento nel paese. Con questa precisazione, va ricordato, tuttavia, che nei dibattiti e nelle proposte, anche degli anni immediatamente successivi alle leggi di unificazione del 1865, è costante il riferimento alle urgenze di “discentramento”, anche nei più rigorosi accentratori». Giulio Verperini; da “L’organizzazione dello Stato unitario”, con nota di R. Ruffilli relativa alle autonomie.

L’Unità era compiuta in breve tempo, quasi con il sistema del “bastone e la carota” e questo era stato il risultato finale della lunga serie di plebisciti: dal 1860 al 1870, nei quali, come già affermato, il popolo ne era stato completamente escluso.

Vedere le tabelle sottostanti tratte da: “Storia costituzionale d’Italia 1848/1948” di Carlo Ghisalberti – Editore Laterza.

 

Immagine tratta da “Storia costituzionale d’Italia 1848/1948” di Carlo Ghisalberti – Editore Laterza

 

Immagine tratta da “Storia costituzionale d’Italia 1848/1948” di Carlo Ghisalberti – Editore Laterza

 

Le ragioni di una Federazione di Stati italiani.

Il supporre che l’Italia, divisa com’è da tanti secoli, possa
pacificamente ridursi sotto il potere d’un solo è demenza.
[…] All’incontro l’idea dell’unità federativa, non che esser
nuova agli italiani, è antichissima nel loro paese e connaturata
al loro genio, ai costumi, alle istituzioni, alle stesse condizioni
geografiche della penisola

Vincenzo Gioberti. “Del primato morale e civile degli italiani”.
(Brano tratto da RIVISTA online, anno VII n° 2- Scuola superiore dell’economia e delle finanze.

La parola “federalismo” era pressoché sconosciuta dai politici italiani di quel tempo, in genere si discuteva di “discentralizzazione”. In un discorso alla Camera del 2 luglio 1849, il Cavour, in risposta all’onorevole Josti sull’argomento della riforma amministrativa, si dichiarava d’accordo di operare una “discentralizzazione” in quel senso, precisando «che la centralizzazione amministrativa è a mio avviso una delle più funeste istituzioni dell’era moderna…». Il Cavour riconosceva le falle del sistema ma le veementi battaglie politiche seguirono, nel tempo, altre vicende e il Cavour moriva proprio nel momento decisivo più delicato. (La frase tra virgolette è presa dal primo volume dell’epistolario del Chiala da “Lettere edite ed inedite” del 1883).

È tutta una storia politica ricca di colpi di scena incalzanti e interessanti ma troppo lunga e complicata, per cui, mi limito a indicare i concetti base su forme di “federalismo” che costituivano l’opposizione alla monarchia sabauda e più recenti, alcuni progetti di qualche anno fa.

Fra i primi a usare questo termine erano stati Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari. La loro idea di federalismo prevedeva l’autonomia nel rispetto delle differenze degli Stati regionali preunitari, in senso democratico e repubblicano, mentre Vincenzo Gioberti e Cesare Balbo optavano per un federalismo  moderato che prevedeva l’unione degli Stati regionali coordinati in una lega federale con a capo il Papa. Un altro progetto federalista (in verità un misto federal-monarchico) prevedeva la formazione di tre regni: il primo con il Piemonte, il Lombardo Veneto e Parma; il secondo con la Toscana, Modena e lo Stato pontificio; il terzo con Napoli quale sede del sovrano e Palermo sede del Congresso. Uno statuto e una lega doganale avrebbero dovuto unire i tre regni. (Spunti tratti da la RIVISTA online n° 2 ANNO VII della “Scuola superiore dell’economia e delle finanze” ).

Nell’Europa delle potenti monarchie e in particolare quella sabauda, era impensabile immaginare un’idea di Stato Federale, anche se l’idea del Cattaneo, più ancora di quella del Ferrari, era molto più vicina al popolo. Infine, attraverso i plebisciti, vinse la continuità monarchica in tutta Italia, escludendo, come sempre, il popolo. Senza una pluralità d’individui, “provenienti dal basso”, espressione che piaceva e piace al potere, non c’è democrazia, tantomeno compartecipazione.

Tuttavia a questo punto credo utile un chiarimento sul termine “popolo”, che, nell’Ottocento, aveva un significato ambiguamente impreciso; in generale s’identificava la nazione tutta. L’ambito storico nel quale succedono questi accadimenti è, infatti l’Ottocento, periodo in cui non esisteva un proletariato industriale e neppure “agricolo”, quindi in questo senso il “popolo”, erano le classi sociali medie e inferiori, che tentavano di lottare per il riconoscimento della loro esistenza politica. Per Cattaneo “popolo” significa una certa maniera di essere, un certo comportamento politico ed una certa funzione storica. “Qualsiasi ceto, anche la nobiltà, quando agisce nella pluralità, è “popolo”. Da “Introduzione a Cattaneo” di U, Puccio pag. 9/11. Einaudi Editore.

Carlo Cattaneo aveva concetti politici troppo avanzati per il suo tempo; egli riteneva che la federazione fosse un mezzo per promuovere l’autonomia, l’autogoverno e nel contempo sviluppare lo spirito di unità nazionale, pur rispettando le diversità.

Sul comunismo la sua idea era severa e intransigente, soprattutto attuale: «Il comunismo è quella dottrina che demolirebbe la ricchezza senza riparare alla povertà; e sopprimendo fra gli uomini l’eredità e per conseguenza la famiglia, ricaccerebbe il lavorante nell’abiezione delli antichi schiavi, senza natali e senza onore». “Stati uniti d’Italia” pag. 106, nota 44.

Per capire lo straordinario ingegno dell’uomo, non solo politico, dovrebbesi leggere il suo libro “Stati uniti d’Italia” con prefazione di Norberto Bobbio – Editore Chiantore Torino 1945.

Cattaneo nel libro si appoggia al “Programma del Cisalpino” per un’idea di federazione, peraltro ben abbozzata ma non definita, mentre il teorico federalista Giuseppe Ferrari espone con chiarezza la sua visione di Stato federale. Eppure il federalista per antonomasia è da sempre il Cattaneo che in politica era un uomo pratico con idee chiare, autore di una monumentale produzione di scritti su vari settori scientifici.

Norberto Bobbio apre la prefazione del libro (di ben 106 pag. note comprese) con queste parole: «Le grandi crisi aprono inaspettati spiragli sulla storia degli uomini e delle idee. Volti che nella loro apparente sanità nascondevano alla vista un germe di malattia mortale, oggi appaiono consunti, recanti il pallore del disfacimento; edifici che sembravano, nella loro esteriore saldezza sfidare l’urto del tempo, oggi scricchiolano o crollano come castelli di carta. La crisi è il momento in cui l’accumularsi dei piccoli debiti differiti e non mai pagati, produce il fallimento irreparabile; è il punto in cui la piccola deviazione non arrestata a tempo si allarga in un’apertura smisurata, che nessun passo d’uomo è più in grado di varcare…». Sembra di leggere un breve saggio scritto par ieri e non nel 1945 alla fine di una lunga guerra, per i parallelismi con il dissesto politico e  finanziario dell’Italia odierna attuato da governi accentratori con il collaudato sistema di: non armi che sparano e uccidono ma uomini che uccidono con menzogne e truffe.

 

Anno 2014- Un progetto federalista del PD

Due deputati PD: Roberto Morassut e Raffaele Ranucci, hanno preso carta e penna per ridisegnare la cartina d’Italia. Ne è uscito uno stivale diviso in dodici aree omogenee per “storia, area territoriale, tradizioni linguistiche e struttura economica”. Alcune sono frutto di una semplice addizione (il Triveneto con Friuli, Trentino e Veneto, oppure l’Alpina con Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria). Altre invece mettono assieme province di Regioni diverse: il Levante “ospita” Puglia, Matera e Campobasso, mentre la Tirrenica tiene assieme Campania, Latina e Frosinone. Solo Sicilia e Sardegna manterrebbero il privilegio dello statuto speciale.
(Tommaso Ciriaco, da “la Repubblica” del 23/12/2014).


Progetto troppo semplicistico, irrealizzabile, d’ispirazione politica di sinistra, sbilanciato nei ruoli affidati alle regioni. Incomprensibile il mantenere lo statuto speciale solo a Sicilia e Sardegna e perché non le altre? Un disegno nato piuttosto come confederazione, un sistema che ne complicherebbe in modo definitivo la governabilità, in quanto, in sostanza, è mancante di un organo ufficiale centrale di coordinazione posto al di sopra dei singoli interessi dei vari Stati membri o Nazioni, come possiede una vera federazione.
Un progetto interessante del 1994 e sempre valido è quello di Marcello Pacini, nel suo libro edito dalla Fondazione Giovanni Agnelli. Esso invita a meditare su una scelta; ha per titolo “Scelta federale e unità nazionale”. Era stato ampiamente illustrato anche da “la Repubblica” del 29 ottobre 1994 (già inserito tempo addietro nel BLOG). Sotto, riporto nuovamente una parte della pagina.

Il modello federativo di Gianfranco Miglio del il 14 dicembre 1994

Dal primo dopoguerra a oggi l’Europa ha ceduto non solo in democrazia ma soprattutto sulla tutela degli stessi cittadini europei, ignorandoli; si è mutata in un centralismo plutocratico affetto da nepotismo. Intanto l’Italia, da vari decenni governata in toto dalle sinistre, si è pietrificata in un sistema accentrato, consolidando lo status di Repubblica = governo, cosa pubblica, che di pubblico ha solo una dilagante corruzione. C‘è stato un solo uomo politico convinto repubblicano, un eccezionale economista piemontese, vero “patriota”, che ha agito sempre con saggezza, esperienza e lungimiranza nel solo interesse dell’Italia, salvando la Lira nel primo dopoguerra; ed è stato Luigi Einaudi, dopo di lui, l’oscurità, le tenebre più profonde. Oggi ci ritroviamo un paese asfittico, sull’orlo del fallimento, con un debito pubblico gigantesco (supera i 2331 miliardi di euro) che ancora s’incrementa fra prebende e finanziamenti europei, in verità, meglio definiti come: “ricatti’.
L’unica soluzione a tutto questo è riprendere l’idea di Costituzione Federale già proposta dal Cattaneo, dal Ferrari, dalla chiesa cattolica e da altri. Una vecchia formula sempre riposta in un cassetto per mancanza di volontà, capacità, concretezza, da parte di una consorteria di partiti con tutt’altri interessi.
In Italia dopo Carlo Cattaneo, il pensiero federalista è caduto nell’oblio, come il concetto di “nazione”, proprio a causa della “febbre” unitaria che aveva investito il paese, sino all’avvento della LEGA NORD; ma questo è un altro argomento non trattabile in queste pagine.
«Una nuova unione di Stati liberi in una struttura “Federale”; una vera “federazione”, da non confondere con “confederazione”; perché essa è un’organizzazione incapace di superare l’anarchia. Ha la sostanza politica delle alleanze tra Stati ed ha un organo permanente per affrontare problemi comuni, che tuttavia non è subordinato agli Stati stessi e non è quindi capace di dominare le divergenti ragioni di stato. Manca in sostanza di un organo ufficiale centrale di coordinazione posto al di sopra dei singoli interessi dei vari Stati o Nazioni. Compito di grande difficoltà è l’unificazione politica di più Stati, Nazioni e/ o Regioni.
È dimostrato già in passato l’insuccesso dei tentativi per unificare le Città Stato della Grecia classica e più vicino a noi, gli Stati regionali dell’Italia alla fine del XV secolo. Non dimentichiamo che l’unificazione dei governi e dei popoli ottenuta senza guerra è avvenuta una sola volta nella storia, ed è stata quella nata con la formazione degli Stati Uniti d’America.
Da tenere presente che il pensiero federalista ha sempre combattuto su due fronti che rappresentano due esigenze diverse, causate anche da eventi storici: il federalismo “esterno”, che nasce prevalentemente da una crisi bellica, da una crisi internazionale, o da una reazione a un non corretto rapporto fra gli Stati sovrani (L‘Europa ai giorni nostri anche se non è una federazione: è un’unione di Stati non legittimata dai cittadini europei). Il federalismo “interno” nasce invece prevalentemente da una crisi interna, da una disgregazione di uno Stato accentrato, da forme di partitismo dispotico e arrogante, dalla crisi del diritto».
Il federalismo “interno”è appunto l’argomento che ci interessa, ovvero il “caso Italia” (Da appunti miei presi da incontri e conferenze di Norberto Bobbio e dalla prefazione dello stesso Prof. Bobbio dal libro “Federalismo e libertà” di Silvio Trentin). Nell’unificazione dell’Italia nulla è legittimo, poiché non c’è stata nessuna trasmissione di potere ma un sistema “consortile” che ha condiviso questi poteri con la monarchia sabauda. In pratica è cambiato poco o nulla; il popolo è stato escluso, come sempre, da ogni forma di potere.
In un sistema democratico per il progresso dello Stato e soprattutto per la sua sopravvivenza nel tempo, le regole che lo mantengono in vita vanno legittimate con la compartecipazione dei cittadini tutti, donne e uomini. È il semplice concetto del principio di legittimità.
Per precisione il diritto di voto in Italia è stato introdotto ai maschi nel 1918 e alle donne “riconosciuto” nel 1945. Una storia lunga e difficile ma che rivela ancora oggi una lacuna democratica nel paese per l’arretratezza in cui si trova ancora una parte di esso. Questo è uno dei motivi fondanti e urgenti non più dilazionabili per una sacrosanta divisione dei poteri in senso federale. Uno Stato è federale o non lo è, non esistono forme ibride o semicentraliste.

Il 17 dicembre 1994 il costituzionalista Gianfranco Miglio presentava al Circolo della stampa di Milano il “Modello di Costituzione Federale per l’Italia” e fatto proprio dall’Unione Federalista. (C’ero anch’io con alcuni federalisti torinesi).
Il Senatore Gianfranco Miglio ha un ricco e invidiabile curriculum (è stato preside per trent’anni della Facoltà di Scienze politiche di Milano), inoltre, tra molto altro, è stato anche l’ideologo della Lega Nord nel 1992, poi uscito nel 1994 per disaccordi con Umberto Bossi. Nello stesso anno fondava il Partito Federalista di cui era eletto presidente, con vicepresidente Dacirio Ghidorzi Ghizzi e segretario generale Umberto Giovine. Ha operato nell’Unione sino al 2000 anno in cui, colpito da ictus, non si riprendeva, morendo ottantatreenne a Como, sua città natale. Ad Adro è stato poi aperto un Polo Scolastico a lui intitolato. Dopo la sua morte, l’Unione Federalista è stata sciolta nel 2001.
Il Modello di Costituzione è riassunto in un fascicolo di 12 pagine di cui ne mostro la copertina e lo schema organizzativo. Se mi sarà concesso, probabilmente pubblicherò il contenuto completo. Assicuro che è di lettura molto interessante e istruttiva.

Il Modello Federale di Gianfranco Miglio è ancora oggi il miglior progetto prodotto da un costituzionalista esperto di federalismo par suo, per un paese arretrato come il nostro, le cui estremità sono “troppo lontane” le une dalle altre. Aveva studiato per oltre cinquant’anni i vari modelli di Repubbliche federali, confederali e le autonomie tanto contestate dei vari Stati europei ed extraeuropei. La sua sfortuna è stata di non aver avuto validi collaboratori nel proporre i suoi progetti federali per l’Italia. Miglio, quest’uomo determinato e intransigente, non è stato ascoltato ma soprattutto capito per le sue idee federaliste troppo avanzate, per la capacità e limitata coscienza politica dei politici di quel tempo che, a quanto pare, ancora oggi, purtroppo, non sono migliorate.
Dal suo modello di costituzione riporto parte del punto1:

Il sistema dei poteri e delle garanzie.
  1. La base di ogni Costituzione Federale è formata dalle convivenze politico-amministrative che si articolano sul territorio e che si contrappongono all’autorità “federali”: i Cantoni.
    Esistono anche ordinamenti pseudo-federali che “combinano” particolarismi non localizzati sul territorio (economico-sociali, professionali, confessionali, ecc.). Ma il vero federalismo si basa su unità territoriali: cioè, su pluralità d’individui che vivono abitualmente gli uni accanto agli altri e hanno in comune la maggior parte dei bisogni essenziali e (sopra tutto) consuetudini, tradizioni e stili di vita, che li differenziano dalle altre convivenze. Fra coloro i quali oggi in Italia temono (o considerano contraria ai propri interessi) l’adozione di una “vera” Costituzione Federale, è forte la tendenza a chiedere che la Federazione si basi sulle attuali “Regioni”, sia cioè una “Federazione Regionale”. Ora, lo “Stato Regionale” – inventato dai costituenti italiani fra il 1946 e il 1947 e consacrato nel Titolo V della Carta – rappresenta l’esperienza più fallimentare che si conosca di questo tipo di ordinamento: quando si afferma che lo “Stato Regionale” è il contrario di un sistema federale, si cita il caso italiano. Non è necessario ricordare le cause di questa disfatta: basterà rilevare che il “regionalista” non condivide intimamente nessuno dei principi (“requisiti”) di una concezione federale….

Riporto, a chiusura dell’argomento, due articoli: uno di Giancarlo Galli e un altro di Salvatore Butera (ritagliati dal giornale “Il SOLE 24 ore” del 28/11/93), presi dal mio archivio personale perché attuali e “sempiterni”.

Articolo tratto da “Il SOLE 24 ore” del 28/11/93

 

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Trattati Europei ed immigrazione – SECONDA PARTE

18 febbraio 2010

L’economia italiana è salvata dalle “Serie Storiche”.

Sono il nostro punto fermo, l’ultimo appiglio prima di precipitare nell’ignoto. L’ISTAT(?) ha reso pubblici i dati sulla caduta delle esportazioni nel 2009, meno 20,7% rispetto al 2008. Un saldo negativo annuo di 4 miliardi 109 milioni di euro. Il dato peggiore dal 1970, da 40 anni, da quando esistono le serie storiche. Il PIL 2009 è in calo del 4,9%. Il dato peggiore dal 1971, da 39 anni, da quando esistono le serie storiche. Secondo l’ISTAT la produzione industriale nel 2009 e’ diminuita del 17,4%. Il dato peggiore dal 1991, da 19 anni, da quando esistono le serie storiche. In mancanza di serie storiche la realtà sarebbe meno tranquillizzante. Le serie storiche sono il bromuro dell’informazione economica. Senza di loro, i dati 2009 sarebbero, più semplicemente, i peggiori di sempre.
Nel corso del 2016, la situazione reale è ulteriormente peggiorata, nel 2018 il sistema arranca…

 

L’eterno dilemma politico dell’Europa sull’immigrazione

di Kenan Malik , articolo del 19 luglio uscito sul The Guardian, Regno Unito (Traduzione di Giusy Muzzopappa)

04 febbraio 2016 19:14

L’Europa affronta una crisi legata all’arrivo dei migranti, ma non la crisi che immaginiamo. Il continente, infatti, si trova di fronte a un dilemma: da un lato, qualunque politica sulle migrazioni che voglia essere morale e praticabile non godrà, per il momento, di un mandato democratico; dall’altro, qualsiasi politica che abbia sostegno popolare sarà probabilmente immorale e impraticabile.
Il dilemma non dipende dal fatto che i popoli europei sono particolarmente inclini a politiche immorali o impraticabili, ma dal modo in cui, negli ultimi trent’anni, la questione dell’immigrazione è stata presentata dai politici di tutti gli schieramenti: come una necessità e come un problema con il quale fare necessariamente i conti.
Gli stessi politici, però, non esitano a definire razzista e irrazionale l’atteggiamento delle persone di fronte agli immigrati. Quando nel 2010 il laburista Gordon Brown definì la pensionata Gillian Duffy una “donna intollerante” perché aveva espresso delle preoccupazioni sui migranti provenienti dall’Europa orientale, espresse il disprezzo dell’élite politica nei confronti delle persone comuni e dei loro timori nei riguardi dell’immigrazione.
Molte delle politiche messe in atto nell’ultimo anno trasmettono la sensazione di un continente in guerra.
Un insieme di bisogni e desideri contraddittori è quindi sfociato in una serie incoerente e inapplicabile di politiche, paradossalmente esacerbate dalle norme sulla libera circolazione all’interno dell’Unione europea (Ue). L’area Schengen, il gruppo di paesi dell’Ue che hanno abolito il passaporto e altri controlli lungo le loro frontiere comuni, è stata istituita nel 1985. Oggi comprende 22 dei 28 membri dell’Ue, e altri quattro sono in attesa di poterci entrare. Solo due paesi, Regno Unito e Irlanda, non ne fanno parte.
Il sogno della libera circolazione nell’Ue ha generato allo stesso tempo una vera paranoia al suo interno. In cambio dell’area Schengen, infatti, è stata creata una fortezza Europa, una cittadella protetta dall’immigrazione da un sistema di sorveglianza ad alta tecnologia, fatto di satelliti e droni, e da recinzioni e navi da guerra. Un giornalista del settimanale tedesco Der Spiegel in visita alla sala operativa di Frontex, l’agenzia di controllo delle frontiere esterne dell’Ue, ha osservato che sembrava di parlare con persone che si trovano lì a “difendere l’Europa contro un nemico”.
Molte delle politiche messe in atto nell’ultimo anno trasmettono la sensazione di un continente in guerra. A giugno, un vertice di emergenza dell’Ue è sfociato in un piano in dieci punti che comprendeva l’uso della forza militare “per catturare e distruggere” le barche usate per trasportare illegalmente i migranti.
Poco dopo, l’Ungheria e altri paesi dell’Europa orientale hanno cominciato a erigere barriere di filo spinato. La Germania, l’Austria, la Francia, la Svezia e la Danimarca hanno sospeso le norme di Schengen e hanno reintrodotto controlli alle frontiere interne. A novembre l’Ue ha siglato un accordo con la Turchia, promettendo al paese 3,3 miliardi di dollari in cambio di maggiori controlli alle frontiere. A gennaio la Danimarca ha approvato una legge che permette la confisca di oggetti di valore ai richiedenti asilo come forma di risarcimento per il loro mantenimento.
Una migrante vicino al villaggio di Miratovac, al confine tra Serbia e Macedonia, il 27 gennaio 2016. (Armend Nimani, Afp)
Nonostante la sensazione di essere di fronte a una crisi senza precedenti, in realtà né la crisi in sé, né l’incoerente risposta dell’Ue rappresentano una vera novità.
Da più di un quarto di secolo le persone cercano di entrare in Europa rischiando la vita. Fino al 1991, la Spagna aveva una frontiera aperta con il Nordafrica, da dove i migranti partivano per compiere lavori stagionali e dove tornavano una volta finito. Nel 1986 una Spagna solo di recente democratizzata entrava nell’Ue. In quanto membro dell’Unione, ha dovuto tra le altre cose chiudere i confini con il Nordafrica. Quattro anni dopo, è stata ammessa nel gruppo di Schengen.
La chiusura delle frontiere spagnole non ha fermato i lavoratori migranti, che hanno cominciato a usare piccole imbarcazioni per attraversare il Mediterraneo e raggiungere la Spagna.
Il 19 maggio del 1991 sono arrivati a riva i primi cadaveri di migranti clandestini. Da allora si stima che più di ventimila persone siano morte nel Mediterraneo nel tentativo di entrare in Europa.
La Spagna ha due avamposti in Marocco, Ceuta e Melilla. Dopo l’ingresso nell’area Schengen, il paese ha costruito un bastione da trenta milioni di euro per sigillare le sue enclave separandole dal resto dell’Africa. L’Ue ha cominciato a pagare le autorità marocchine per rastrellare e imprigionare qualsiasi potenziale migrante, spesso con enorme brutalità.
L’approccio spagnolo ha offerto il modello per le successive politiche dell’Ue sulle migrazioni: una strategia tripartita fatta di criminalizzazione dei migranti, militarizzazione delle frontiere ed esternalizzazione dei controlli pagando a stati che non appartengono all’Unione, dalla Libia alla Turchia, enormi quantità di soldi per fare la guardia alla frontiera dell’Europa. Ancora una volta i migranti hanno cercato tragitti diversi, spesso più pericolosi. È per questo che tantissimi di loro stanno viaggiando attraverso la Grecia e i Balcani.
Rispetto a quanto accade in altre aree del pianeta, non si può certo dire che i profughi stiano ‘inondando’ l’Europa.
Per quanto i numeri siano alti, è bene contestualizzare le cifre relative ai migranti che arrivano in Europa: nel 2015 sono stati un milione, tra profughi e migranti, cioè poco più dello 0,1 per cento della popolazione europea. Ci sono già 1,3 milioni di rifugiati siriani in Libano, il 20 per cento della popolazione del paese. In proporzione, è come se l’Europa ospitasse 150 milioni di profughi. La Turchia, il paese sul quale l’Ue vorrebbe scaricare migranti e profughi, ospita già due milioni di rifugiati.
Rispetto a quanto accade in altre aree del pianeta, non si può certo dire che i profughi stiano “inondando” l’Europa. A sopportarne il peso maggiore sono alcuni dei paesi più poveri del mondo, e questo è l’aspetto più deprecabile delle politiche dell’Ue, perché sembrano poggiare sull’idea che solo i paesi poveri dovrebbero avere a che fare con migranti e profughi.
Il secondo fattore da tenere in considerazione nell’attuale crisi migratoria è il contesto politico.
La divisione tra socialdemocratici e conservatori emersa dopo la seconda guerra mondiale in Europa non è esiste più. La sfera politica si è ristretta per lasciare spazio a una forma di gestione tecnocratica piuttosto che di trasformazione sociale. Una delle tante conseguenze è la crisi della rappresentanza, la crescente sensazione delle persone di non contare niente davanti a istituzioni politiche sempre più lontane e corrotte.

 

Ostilità e panico

L’immigrazione non ha avuto alcun ruolo nel determinare i cambiamenti che hanno causato la frustrazione di così tante persone. Non è responsabile dell’indebolimento del movimento dei lavoratori, né della trasformazione dei partiti socialdemocratici o dell’imposizione di politiche di austerità. Tuttavia, l’immigrazione è diventata una specie di capro espiatorio per questi cambiamenti. Nel frattempo, l’Ue è diventata il simbolo della distanza tra le persone comuni e la classe politica. Il tutto è sfociato in una crescente ostilità nei confronti dei migranti e nel panico diffuso tra chi deve prendere decisioni politiche.
Allora cosa bisogna fare? È possibile conciliare l’adozione di politiche etiche e praticabili sulle migrazioni con le aspirazioni democratiche dell’opinione pubblica europea? Tanti sembrano voler fare a meno di un mandato democratico, altri sembrano disposti a rinunciare a una politica giusta e praticabile. L’opinione prevalente è che l’Europa abbia bisogno di controlli più rigidi, di recinti più alti, di più pattugliamenti militari. Anche se queste misure sembrano popolari e chi le promuove si dichiara “realista”, non si tratta solo di un approccio immorale, ma anche poco praticabile.
La storia degli ultimi 25 anni ci dice che a prescindere da quanto si rafforzi la fortezza Europa, recinti e navi da guerra non fermeranno i migranti. Né controlli più rigidi modificheranno la percezione del problema tra l’opinione pubblica. Trasformare ancora di più l’Europa in una fortezza non contribuirà ad attenuare il senso di frustrazione così diffuso. Gli “idealisti”, d’altro canto, cercano di promuovere politiche sull’immigrazione più etiche, ma sembrano disposti a fare a meno della volontà democratica per applicarle. Questo approccio non è più attuabile o più etico di quello realistico. Nessuna politica a cui l’opinione pubblica è ostile potrà mai funzionare. Politiche migratorie più liberali possono essere attuate solo con il consenso dell’opinione pubblica.
Come ha scoperto la cancelliera tedesca Angela Merkel, favorire una politica liberale sulle migrazioni senza prima conquistare il sostegno dell’opinione pubblica può essere disastroso. Ad agosto la Germania ha sospeso unilateralmente il regolamento di Dublino, la normativa europea in base alla quale i migranti devono fare richiesta di asilo nel primo paese dell’Ue in cui arrivano. Merkel non si è sforzata però di convincere la Germania del valore di questo nuovo orientamento politico. Il contraccolpo è stato fortissimo e dall’oggi al domani è stata costretta a tornare sui suoi passi e a reintrodurre i controlli alle frontiere. Tutto ciò ha determinato una maggiore ostilità nei confronti dei migranti e della stessa Merkel.
Nelle politiche sull’immigrazione non ci sono soluzioni rapide che consentono di tenere assieme le istanze dell’etica, dell’attuabilità e della democraticità. La crisi dei migranti va avanti da tanto tempo e, a prescindere dalle misure che saranno prese, non si risolverà nel giro di uno o due anni. Il problema di fondo non è tanto politico, ma di atteggiamento e percezioni.
Politiche migratorie più accoglienti possono essere attuate solo con il consenso dell’opinione pubblica, non a dispetto della sua opposizione. Conquistare questo consenso non è impossibile, non c’è nessuna legge secondo cui le persone debbano necessariamente essere ostili all’immigrazione. Ampi settori dell’opinione pubblica sono diventati ostili perché hanno finito per associare l’immigrazione con cambiamenti inaccettabili.
Ecco perché, paradossalmente, il dibattito sull’immigrazione non può essere vinto solo parlando di immigrazione, né la crisi dei migranti può essere risolta solo mettendo in atto politiche sulle migrazioni. Le paure attuali sono espressione di una più ampia sensazione di non avere voce e peso nella sfera politica. Finché non sarà affrontato questo problema, l’arrivo dei migranti sui lidi europei continuerà a essere considerato come una crisi.
 

 

19 luglio 2016, ore 18. ( A oggi 14/08/2018 non è cambiato nulla; Salvini, l’unico credibile, ha tutti contro. Non mollare Matteo).

In questi giorni l’Europa e non solo, è travolta da un terrorismo spietato, inumano, assassino.
Fatti tragici non nuovi, per cui lo stato dall’erta dei servizi d’informazione doveva essere massimo; erano prevedibili altri attacchi. Ebbene, la F.I.P. oltre al mare di chiacchiere inconcludenti, tavole rotonde, quadrate, esagonali, incontri parolai, tentennamenti, convegni dei cosiddetti “grandi”, cortei di massa, commemorazioni, celebrazioni con canti e suoni, processioni, dichiarazioni coraggiose e benedizioni papaline per i “piccoli” cittadini creduloni, quest’Europa appare immobile, confusa, poco affidabile, alle prese con la sua solidarietà da ente di assistenza che è da rivedere e rimettere in discussione, mentre la democratica Turchia esegue epurazioni e vuole reintrodurre la pena di morte.
Il paese dei balocchi (l’Italia) dovrebbe svegliarsi dalla catalessi e introdurre una sorta di “Addestranento militare” e creare “ Riservisti” con i giovani rimasti in patria, togliendoli dalla strada, dalla cronica disoccupazione e reinsegnare loro che la patria va protetta e la preziosa libertà salvaguardata, insieme con l’Esercito. Cosa succederà domani? Non lo sappiamo, ma in questa situazione dobbiamo aspettarci il peggio.

Carlo Ellena

 

28 luglio 2018

Il peggio è arrivato prima del cambio di governo; staremo a vedere!

 

14/08/2018 – da Carlo Ellena

A seguire propongo due articoli che mettono in luce l’arroganza inusitata dei plutocrati europei e l’assolutismo dichiarato dei comunisti italiani e loro complici al governo, palesate nelle chiare intenzioni qui espresse con assoluto disprezzo delle più elementari regole democratiche e civili. Questi individui sono sempre troppo pericolosi e si nota in modo chiaro nel disarmante e distruttivo modo di fare opposizione.

 

Immigrati, la bozza della Ue: “Accogliere sarà obbligatorio”

Gli immigrati saranno “spartiti” tra tutti gli Stati. E i rifugiati politici potranno spostarsi liberamente in tutta l’Unione europea

di Sergio Rame , articolo del 9 maggio 2015 uscito su il Giornale

Mercoledì la Commissione europea approverà la nuova Agenda sull’immigrazione.
La bozza è già pronta e, come anticipa Repubblica, contiene una vera e propria inversione di rotta nel contrasto agli sbarchi clandestini per prevenire altre stragi nel Mediterraneo. Il documento, che potrebbe ancora essere ritoccato, introduce l’obbligo per tutti i Paesi dell’Unione europea di accogliere chi sbarca sulle coste italiane, le missioni nei porti libici per distruggere o sequestrare i barconi agli scafisti, gli aiuti economici ai Paesi africani di transito e la Blu Card europea per allargare le maglie dell’immigrazione regolare.
Una volta incassato il via libera della Commissione europea, la nuova Agenda sull’immigrazione dovrà essere approvata dal Consiglio europeo e dal Parlamento di Strasburgo. La strada, quindi, è tutta in salita. Anche perché sono molti i Paesi che preferiscono politiche più restrittive. La bozza, invece, propone di creare un sistema di quote per ripartire i clandestini già presenti sul suolo dell’Unione europea. In questo modo verrebbero, finalmente, svuotati i centri di prima accoglienza italiani che oggi sono al collasso. Se, poi, a un immigrato verrà riconosciuto lo status di rifugiato, questo potrà spostarsi liberamente all’interno dell’Unione europea. È poi allo studio della Commissione l’istituzione di una sorta di Blu Card per favorire l’immigrazione regolare identificando specializzazioni e professionalità richieste.
Nella bozza dell’Agenda sull’immigrazione c’è poi tutto un capitolo dedicato al contrasto degli sbarchi. L’Ue punta ad avviare una missione militare per sequestrare e affondare i barconi degli scafisti. Per farlo le navi europee potranno andare a stanare i mercanti di uomini fino ai porti libici, quindi in acque territoriali libiche, un’eventualità che non trova d’accordo il governo di Tripoli. L’ambasciatore libico all’Onu, Ibrahim Dabbashi, ha già fatto sapere che la Libia non avvallerò interventi europei nelle sue acque. Per ovviare a questo stop l’Alto rappresentante per la politica estera della Ue, Federica Mogherini, sta facendo pressioni sul Consiglio di Sicurezza per incassare il via libera alla missione.
Infine, c’è pure un capitolo economico. Come già annunciato nelle scorse settimane, l’Ue triplicherà i soldi da destinare a Frontex per la missione Triton nel Canale di Sicilia e stanzierà aiuti economici per Paesi, come il Sudan, l’Ehitto, il Ciad e il Niger. L’obiettivo della Commissione europea è, da una parte, evitare nuovi stragi nel Mediterraneo e, dall’altra, contrastare la fame e la povertà che, insieme alla guerra e alle persecuzioni, sono tra le cause dell’immigrazione.

 

 

Alfano obbliga tutti i Comuni ad accogliere: “25 migranti ogni mille abitanti”

Allarme sbarchi. Il governo corre ai ripari. Siglato un accordo con l’Anci per distribuire i migranti su tutto il territorio italiano. Più incentivi ai sindaci che accolgono

di Sergio Rame , articolo del 10 agosto 2016 uscito su il Giornale

Gli sbarchi non si fermano, nemmeno quando c’è brutto tempo. I ricollocamenti negli altri Paesi dell’Unione europea sono in stallo.
E gli Stati che confinano con l’Italia (la Francia, la Svizzera e la Francia) hanno chiuso definitivamente le frontiere. E così il ministro degli Interni Angelino Alfano si trova a dover sistemare 145mila migranti. Il piano concordato nei giorni scorsi con l’Anci è distribuirli su tutto il territorio. Venticinque ogni mille abitanti. E per farlo andrà a raccattare strutture ovunque.
L’Italia è al collasso. L’emergenza immigrazione non travolge più soltanto le coste del Meridione. Certo, la pressione in regioni come la Sicilia è ancora pazzesca. Ma l’allarme si è spostato anche al Nord. Città come Ventimiglia, Milano e Como sono la dimostrazione plastica di un’accoglienza che non funziona. Solo nel capoluogo lombardo stazionano oltre 3.300 migranti. Non hanno un giacilio su cui dormire né un tetto sotto cui stare. I fondi per pagar loro da mangiare, poi, sono finiti. Eppure di rimandarli indietro, il governo Renzi proprio non ha intenzione. Non caccerà nemmeno quelli che non hanno diritto a stare qui. E così Alfano ha messo a punto un piano per sistemarli tutti quanti, spargendoli qua e là su tutto il territorio italiano. In base all’accordo raggiunto con l’Anci, illustrato oggi dal Messaggero, gli ottomila Comuni della Penisola italiana dovranno accogliere “2,5 migranti ogni cento abitanti”. Per convincere i sindaci riottosi, Alfano è disposto anche a mettere sul piatto un po’ di soldi.
Il primo obiettivo del Viminale è “decomprimere” le aree più a rischio. Situazioni, come Ventimiglia per esempio, che rischiano di degenerare in tensioni tra i cittadini e i migranti. “Sono state stabilite procedure per il nuovo funzionamento dello Sprar (il Servizio centrale di protezione per i richiedenti) – si legge nel decreto – a partire dai contenuti dell’intesa tra governo, Regioni e enti locali del 10 luglio 2014 al fine di attuare un sistema unico di accoglienza dei richiedenti e titolari di protezione internazionale attraverso l’ampliamento della rete”. Il ministero della Difesa si è già fiondato a ristrutturare le vecchie caserme. Nei prossimi giorni entreranno già a pieno regime i campi di Montichiari, che ospiterà 150 extracomunitari, e Messina, che ne ospiterà ben 300. A Milano, invece, i migranti verranno accolti nella caserma di Montello, anche se il sindaco Beppe Sala non esclude la possibilità di ricorrere a una sorta di tendopoli per sistemare gli ultimi arrivati. Ma è una coperta corta. Perché dal Mediterraneo continuano ad arrivare i barconi. E, prima o poi, lo spazio a disposizione sarà finito. A meno che il governo non inizi a far uscire dal Paese gli italiani per far posto ai migranti.

 

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Trattati Europei ed immigrazione – PRIMA PARTE

Schengen…e poi? I silenzi colpevoli dei politici europei.

Storia in sintesi dei molti Trattati sconosciuti ai cittadini europei.

L’ingannevole trasformazione dell’Accordo di Schengen dell’1 gennaio 1986, ovvero; la libera circolazione di tutti i cittadini degli Stati membri della C.E. all’interno dell’Europa, poi allargata a tutti gli extra-comunitari. Come si è arrivati a tale insensata (per noi semplici cittadini) situazione?

Trattato di Roma – Firmato il 25 marzo 1957

Il Trattato CEE, ufficialmente il “Trattato che istituisce la Comunità economica europea” ha istituito appunto la CEE. È stato firmato il 25 marzo 1957 insieme al Trattato che istituisce la Comunità europea dell’energia atomica (Trattato Euratom): insieme sono chiamati “Trattati di Roma” che insieme al Trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, ovvero la CECA, firmato a Parigi il 18 aprile del 1951, rappresentano il momento costitutivo delle Comunità europee. Il nome del Trattato è stato successivamente cambiato in Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE) dopo l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht e di nuovo cambiato in Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel dicembre 2009.

 

 

Trattato (o accordo) di Schengen creato l’1 gennaio 1986 -Definizione-

L’accordo di Schengen è stato firmato inizialmente il 19 giugno 1990 fra i Governi degli Stati dell’Unione economica Benelux, della Repubblica federale di Germania e della Repubblica francese relativo all’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni.
Di seguito i Governi del Regno del Belgio, della Repubblica federale di Germania, della Repubblica francese, del Granducato di Lussemburgo e del Regno dei Paesi Bassi consapevoli che l’unione sempre più stretta fra i popoli degli Stati membri delle Comunità europee deve trovare la propria espressione nella libertà dell’attraversamento delle frontiere interne da parte di tutti i cittadini degli Stati membri e nella libera circolazione delle merci e dei servizi.

 
 

 

Il Trattato di Maastricht, o Trattato dell’Unione europea
firmato il 7 febbraio 1992

È un trattato che è stato firmato il 7 febbraio 1992 a Maastricht nei Paesi Bassi, sulle rive della Mosa, dai 12 (dodici) paesi membri dell’allora Comunità Europea, oggi Unione europea, che fissa le regole politiche e i parametri economici necessari per l’ingresso dei vari Stati aderenti nella suddetta Unione. È entrato in vigore il 1º novembre 1993.

OBIETTIVI
Con il trattato di Maastricht, risulta chiaramente sorpassato l’obiettivo economico originale della Comunità – ossia la realizzazione di un mercato comune – e si afferma la vocazione politica.
(Questa decisione, presa uniteralmente dai politici, di fatto accantona definitivamente l’affermazione dell’Europa dei popoli per abbracciare la tesi dell’Europa politica; tesi aborrita a Ventotene da Altiero Spinelli, uno dei padri fondatori).
In tale ambito, il trattato Maastricht consegue cinque obiettivi essenziali:

  • rafforzare la legittimità democratica delle istituzioni;
  • rendere più efficaci le istituzioni;
  • instaurare un’unione economica e monetaria;
  • sviluppare la dimensione sociale della Comunità;
  • istituire una politica estera e di sicurezza comune.

 
 

 

Il Trattato di Amsterdan; firmato il 2 ottobre 1997

L’accordo di Schengen (1990) è stato fatto FUORI dal Trattato dell’Unione Europea (Maastricht).
Il Trattato di Amsterdam (firmato nel 1997) modifica il Trattato di Maastricht e codifica i valori fondanti dell’Unione stessa (libertà, democrazia ecc.). Alcune materie inserite nel Trattato di Maastricht come: visti, asilo, immigrazione e cooperazione giudiziaria in materia civile, vengono “comunitarizzate”, cioè soggette al T. di Maastricht.
(Con il T. di Amsterdam gli Accordi di Schengen vengono integrati nei Trattati europei)
Trattato di Amsterdam che modifica il Trattato sull’Unione Europea, i Trattati che istituiscono le Comunità europee e alcuni atti connessi al Trattato firmato il 2 ottobre 1997 dagli allora 15 Stati membri dell’Unione Europea (Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Svezia) ed entrato in vigore il 1° maggio 1999. Perfeziona il disegno istituzionale delineato con il Trattato di Maastricht (➔), contenente una disposizione che invitava gli Stati membri a convocare una Conferenza intergovernativa (CIG) per la sua revisione. Nel dicembre 1995, le istituzioni comunitarie avevano presentato le proprie riflessioni al Consiglio europeo di Madrid, che recepiva la volontà di «andare oltre Maastricht». La CIG, incaricata di negoziare il nuovo Trattato, diede inizio ai lavori nel corso del Consiglio europeo di Torino del 29 marzo 1996, per concluderli in occasione del Consiglio europeo informale di Noordwijk del 23 maggio 1997.
Il T. di Amsterdan procede alla semplificazione dei trattati precedenti attraverso l’abrogazione delle disposizioni diventate obsolete e la rinumerazione degli articoli. Codifica, inoltre, i valori fondanti dell’Unione, che sono i principi di libertà, democrazia e rispetto dei diritti della persona e delle libertà fondamentali, oltre che dello Stato di diritto (art. 6, par. 1). Dispone, altresì, che la loro violazione da parte di uno Stato membro possa portare alla sospensione dei diritti di voto, finanche di quello in seno al Consiglio.

All’interno del trattato di Maastricht esisteva già una disposizione che invitava gli stati membri a convocare una Conferenza intergovernativa (CIG) per la sua revisione. Nel 1995 ciascuna istituzione presenta le proprie riflessioni e chiede di “andare oltre Maastricht”: una relazione in tal senso viene presentata al Consiglio europeo di Madrid del dicembre 1995. Proprio l’insoddisfazione alle modifiche istituzionali, spinse i capi di Stato e di governo a prospettare subito un’ulteriore modifica del sistema istituzionale “prima che l’Unione conti venti membri”. I paesi membri sono consapevoli della necessità di approfondire l’integrazione, soprattutto nei due nuovi “pilastri” introdotti appunto con il trattato che ha visto nascere l’UE. La CIG si apre al Consiglio europeo di Torino del 29 marzo 1996 e si conclude al Consiglio europeo informale di Noordwijk del 23 maggio 1997. Il trattato firmato ad Amsterdam contiene innovazioni che vanno nella direzione di rafforzare l’unione politica, con nuove disposizioni nelle politiche di libertà, sicurezza e giustizia, compresa la nascita della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, oltre all’integrazione di Schengen. Altre disposizioni chiarificano l’assetto della Politica estera e di sicurezza comune, con la quasi-integrazione dell’UEO, mentre viene data una rinfrescata (insufficiente) al sistema istituzionale, in vista dell’adesione dei nuovi membri dell’est.

Le cooperazioni rafforzate

Infine, il T. di Amsterdam prevede l’importante strumento delle cooperazioni rafforzate, in virtù del quale alcuni Stati membri possono, previa autorizzazione del Consiglio e nel quadro delle competenze dell’Unione, avviare tra loro forme di integrazione più profonda in un determinato settore, con l’utilizzo di istituzioni, procedure e meccanismi stabiliti dai trattati. L’esigenza di permettere ad alcuni Stati membri di procedere a forme d’integrazione più stretta rispetto ad altri si era fatta sentire in misura sempre maggiore con l’ingresso nell’Unione di nuovi Paesi, che avevano aumentato l’eterogeneità di posizioni su politiche specifiche e, più in generale, sulla visione del futuro della UE. Il Trattato di Nizza ( Trattato di Nizza che modifica il Trattato sull’Unione Europea, i Trattati che istituiscono le Comunità europee e alcuni atti connessi), ha poi esteso la possibilità di utilizzare le cooperazioni rafforzate anche al settore della politica estera e della sicurezza.
 

 

Il Trattato di Nizza – Firmato il 26 febbraio 2001, in vigore dal 2003

Il trattato di Nizza è uno dei trattati fondamentali dell’Unione europea, e riguarda le riforme istituzionali da attuare in vista dell’adesione di altri Stati. Il trattato di Nizza ha modificato il trattato di Maastricht (TUE) e i trattati di Roma (TFUE). È stato approvato al Consiglio europeo di Nizza, l’11 dicembre 2000 e firmato il 26 febbraio 2001. Dopo essere stato ratificato dagli allora 15 stati membri dell’Unione europea, è entrato in vigore il1º febbraio 2003.L’obiettivo del trattato di Nizza è relativo alle dimensioni e composizione della commissione, alla ponderazione dei voti in consiglio e all’estensione del voto a maggioranza qualificata, e infine alle cooperazioni rafforzate tra i paesi dell’Unione europea.

Clausole dell’accordo

Il trattato di Nizza in particolare introduce:

  • nuova ponderazione dei voti nel Consiglio dell’Unione europea,
  • modifica della composizione della Commissione europea,
  • estensione della procedura di codecisione e modifica del numero di deputati al Parlamento europeo per ogni Stato membro,
  • estensione del voto a maggioranza qualificata per una trentina di nuovi titoli.
  • riforma per rendere più flessibile il sistema delle cooperazioni rafforzate
  • nuova ripartizione delle competenze tra Corte e Tribunale

Nell’ambito del Consiglio europeo di Nizza è stata solennemente proclamata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che però non è entrata a far parte del trattato.

Passi successivi

Nel dicembre 2001 il Consiglio europeo ha approvato la Dichiarazione di Laeken con lo scopo di far partire un dibattito più ampio e più approfondito sull’avvenire dell’Unione europea che è approdato nella Convenzione europea. Il trattato costituzionale europeo scaturito da questa Convenzione è abortito a causa della vittoria dei no nei referendum di Francia e Paesi Bassi nel 2005 ed è stato sostituito dal trattato di Lisbona entrato in vigore il 1º dicembre 2009.
 

 

Trattato di Lisbona, in vigore dal 1° dicembre 2009

Il Trattato di Lisbona, noto anche come Trattato di riforma – ufficialmente Trattato di Lisbona che modifica il trattato sull’Unione europea e il trattato che istituisce la Comunità europea – è il trattato internazionale, firmato il 13 dicembre 2007, che ha apportato ampie modifiche al Trattato sull’Unione europea e al Trattato che istituisce la Comunità europea. In realtà è una sorta di Costituzione Europea inserita nel Trattato di Lisbona. Un altro ben congegnato imbroglio per i cittadini europei.
Rispetto al precedente Trattato, quello di Amsterdam, esso abolisce i “pilastri”, provvede al riparto di competenze tra Unione e Stati membri, e rafforza il principio democratico e la tutela dei diritti fondamentali, anche attraverso l’attribuzione alla Carta di Nizza del medesimo valore giuridico dei trattati.
È entrato ufficialmente in vigore il 1º dicembre 2009
 

 

La Costituzione europea

Il trattato di Lisbona fu redatto per sostituire la Costituzione europea bocciata dal “no” dei referendum francese e olandese del 2005. L’intesa è arrivata dopo due anni di “periodo di riflessione” ed è stata preceduta dalla Dichiarazione di Berlino del 25 marzo 2007, in occasione dei 50 anni dell’Europa unita, nella quale il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente del Consiglio dei ministri italiano Romano Prodi esprimevano la volontà di sciogliere il nodo entro pochi mesi, al fine di consentire l’entrata in vigore di un nuovo trattato nel 2009 (anno delle elezioni del nuovo Parlamento europeo).
Nello stesso periodo nasce a tal fine il cosiddetto “Gruppo Amato”, chiamato ufficialmente “Comitato d’azione per la democrazia europea” (in inglese “Action Committee for European Democracy” o ACED) e supportato dalla Commissione europea (che ha inviato due suoi rappresentanti alle riunioni), con il mandato non ufficiale di prospettare una riscrittura della Costituzione basata sui criteri che erano emersi durante le consultazioni della Presidenza tedesca con le varie cancellerie europee. Il risultato è stato presentato il 4 giugno 2007: il nuovo testo presentava 70 articoli e 12.800 parole, circa le stesse innovazioni della Costituzione (che aveva 448 articoli e 63 000 parole) diventando così il punto di riferimento per i negoziati.
Il Consiglio europeo di Bruxelles, sotto la presidenza tedesca, il 23 giugno 2007 raggiunse l’accordo sul nuovo Trattato di riforma.
 

 

Dublino III, la convenzione europea sui migranti e le sue falle. Il regolamento di Dublino, nelle sue versioni II e III, è il testo che norma la richiesta di asilo da parte di cittadini extracomunitari che fuggono da paesi in guerra o persecuzioni di natura politica o religiosa.

di MARIA TERESA SANTAGUIDA

15:29 – Siglata per la prima volta nel 1990, la convenzione di Dublino regola la valutazione delle domande di asilo politico nel territorio europeo. Rivista e corretta nel 2003 e poi nel 2013, la sua versione in vigore dal 2014 prevede che la richiesta sia esaminata nel Paese di arrivo: visto che la maggioranza degli extracomunitari viaggia via Mare nel Mediterraneo e approda sulle coste italiane, si tratta quasi sempre dell’Italia.

Il principio ispiratore – Alla base di Dublino III c’è il principio che la richiesta di asilo debba essere fatta nel primo Paese in cui si mette piede. La norma risale alla prima stesura della convenzione nel 1990 ed era contenuta anche nel trattato di Schengen dello stesso anno. Obiettivo iniziale era che almeno uno degli Stati membri si prendesse carico delle richieste per l’ottenimento dello status di rifugiato politico in modo da regolare in modo ordinato e cooperativo i flussi.

L’imprevisto – Nel trattato, il caso di “ingresso illegale” in Ue è considerato come se fosse un’eccezione, ma nel corso dell’ultimo decennio, come insegnano le cronache, questa è diventata la regola ed è la causa primaria dei molti problemi diplomatici sul tema migranti fra gli Stati Europei.

La procedura – Teoricamente a ogni immigrato irregolare dovrebbero essere prese le impronte digitali, che poi devono essere inserite nella banca dati Eurodac. In questo caso l’obiettivo è quello di tracciare l’ingresso dei migranti in modo tale che non presentino la richiesta contemporaneamente in diversi Paesi. Se accade che la richiesta viene presentata ad una nazione diversa da quella in cui il migrante è entrato in Europa, allora può essere rimandato indietro nel Paese di primo approdo. L’uso delle impronte digitali, secondo alcune associazioni umanitarie è al limite del diritto, poiché è una procedura utilizzata solitamente con chi ha commesso un crimine, ma è il portato dell’ingresso illegale, nel 1990 ancora considerato alla stregua di un reato.

L’attuazione – Alcuni Paesi, in primis la Grecia ma anche l’Italia, oberati dai flussi migratori, per qualche tempo hanno lasciato passare i migranti senza identificarli, per fare in modo che potessero inoltrare la richiesta nel Paese in cui veramente volevano poi risiedere. Una specie di accordo tacito fra gli Stati Europei faceva in modo che, su volumi ridotti, l’infrazione della regola sottoscritta a Dublino venisse tollerata. Contemporaneamente però la prassi aumentava il sospetto reciproco tra gli Stati. L’Italia adesso ha invertito la rotta, tentando di rispettare le regole per mantenere una buona reputazione e parallelamente condurre una battaglia per la modifica di Dublino III.

La contraddizione – La rigidità del trattato ha prodotto negli anni la situazione paradossale per cui da un lato c’è un richiedente asilo che non vuole stare in un Paese e dall’altro lo stesso Paese che lo ospita che non vorrebbe o non può tenerlo. Gli Stati sanno che se salvando un migrante nelle proprie acque territoriali dovranno poi farsi carico anche della sua tutela: un ulteriore fardello soprattutto per i Paesi affacciati sul mare.

I respingimenti – Secondo le statistiche pubblicate dal ministero dell’Interno e basate su dati Eurostat lo Stato con il maggior numero di casi di respingimento è la Germania: nel 2013 sono state 4.316 le riammissioni attive, ovvero espulsioni di richiedenti asilo verso il Paese attraverso cui sono entrati in Europa; nel 2008 erano 2.112, meno della metà. Subito dopo c’è la Svezia con 2.869 riammissioni attive nel 2013. Per quanto riguarda le riammissioni passive, a guidare la classifica c’è proprio l’Italia dove nel 2013 sono state rimpatriate 3.460 persone che erano entrate in Europa attraverso il nostro Paese ma che hanno chiesto asilo da un’altra parte. Un balzo avanti enorme rispetto al 2008 quando le riammissioni passive erano state solo 996. Le riammissioni attive in Italia invece nel 2013 sono state solo 5, verso l’Austria. Dopo di noi il maggior numero di riammissioni passive c’è stato in Polonia, altro Paese di confine: 2.442 nel 2013. Il totale delle riammissioni attive in tutta l’Unione europea nel 2013 è stato di 16.014.

Sospensione parziale del regolamento nel corso della crisi migratoria del 2015

Ai sensi del regolamento di Dublino, se una persona che aveva presentato istanza di asilo in un paese dell’UE attraversa illegalmente le frontiere in un altro paese, deve essere restituita al primo stato. Durante la crisi europea dei migranti del 2015, l’Ungheria venne sommersa dalle domande di asilo di profughi provenienti dall’Asia; a partire dal 23 giugno 2015 ha iniziato a ricevere indietro i migranti che, entrati in Ungheria attraverso la Serbia, avevano successivamente attraversato i confini verso altri paesi dell’Unione europea. Il 24 agosto 2015, la Germania ha deciso di sospendere il regolamento di Dublino per quanto riguarda i profughi siriani e di elaborare direttamente le loro domande d’asilo. Altri stati membri, come la Repubblica Ceca, l’Ungheria, la Slovacchia e la Polonia, hanno di recente negato la propria disponibilità a rivedere il contenuto degli accordi di Dublino e, nello specifico, a introdurre quote permanenti ed obbligatorie per tutti gli stati membri.
 

Riflessioni sugli avvenimenti sopra-descritti (Oggi con la determinazione del Ministro dell’Interno Matteo Salvini, la situazione è molto cambiata)

Questa Convenzione, Regolamento, Trattato o Accordo, in definitiva il nome conta poco o nulla, è dato solo per confondere; invece ha molta importanza il contenuto, in quanto l’Italia, che si affaccia sul Mediterraneo, è stata lasciata sola almeno per un decennio ad accogliere i profughi, mentre gli altri stati europei, ciechi e sordi e ben contenti di scaricare le responsabilità, guardavano da un’altra parte. Si sono resi conto solo quando il problema, oramai ingigantito, ha raggiunto i loro confini. Una grossa colpa ha il ministro italiano (Alfano) che, incaricato di negoziare la convenzione, è stato incapace di battere i pugni e imporre le nostre ragioni.
Quest’Unione Europea delle convenienze e degli opportunismi ha tradito i valori iniziali della democrazia imboccando la strada della disgregazione; si sta verificando una sorta di “effetto domino”.
Il filo spinato e le barriere sono la giusta risposta di cittadini inconsapevoli ai politici e ai burocrati di Bruxelles che hanno ignorato il coinvolgimento di tutti gli europei, in specifico gli italiani.
Alla luce di questi fatti, l’aspetto drammatico e antidemocratico, è che tutti gli Accordi, Trattati, Regolamenti, Carte, dichiarazioni varie e Convenzioni, sono contenuti in decine di migliaia di cavillosi documenti che costituiscono una tale mole da rendere, in pratica, impossibile la consultazione. Tuttavia il compito che i politici responsabili di ogni Stato membro avrebbero dovuto svolgere è di rendere pubblici i contenuti, illustrarli ai rispettivi cittadini e introdurli nelle scuole.
Nella realtà sono importantissime decisioni prese all’oscuro della maggior parte dei cittadini europei, mai informati, né consultati e per i quali altri si sono arrogati impunemente il diritto di decidere violando le più elementari regole democratiche – il viatico del Trattato di Schengen del 1986. Sono queste decisioni che oggi rischiano di frantumare la già malconcia Comunità Europea e le conseguenze di questi abusi, oggi ricadono pesantemente sulle spalle delle varie popolazioni europee, alla testa ci sono gli italiani.
A partire dal Trattato di Schengen del 1989, al trattato di Lisbona del 2009, per arrivare ad oggi, anno 2016, sono stati ventisette anni di silenzi e tortuose macchinazioni. Si è mentito agli europei tirando in ballo sempre e solo gli “Accordi di Schengen”, o semplicemente citando “Schengen” (che in realtà sanciva la libera circolazione di persone e merci in Europa ma ai soli europei), come sbrigativa giustificazione a una sorta di commercio umano crudele, disorganizzato, nel nome di una falsa “solidarietà”. I cittadini europei, giustamente spaventati da questa improvvisa, interminabile massa di extracomunitari che in breve tempo hanno attraversato senza controlli le frontiere invadendo i territori, hanno opposto resistenza elevando barriere di protezione per garantire la propria sicurezza. Tutto questo, fra le violente proteste dei politici e burocrati della Comunità Europea, la quale invece di organizzarsi e prendere decisioni sull’ordine e salvaguardia dei propri territori urla insulti contro i paesi “ribelli” con insulse, minacciose e pericolose prese di posizione.
È il logico risultato di una politica burocratizzata di vertice, arrogante, autoritaria, ottusa, sorda e ceca, la quale, senza la minima visione delle conseguenze future, isolata nella sua bolla di potere, si è arrogata il diritto di decidere, escludendo i cittadini di vari stati europei a esercitare il loro diritto di voto, violando i valori fondanti dell’Unione: “i principi di libertà, democrazia e rispetto dei diritti della persona e delle libertà fondamentali”.
Oggi sono proprio i popoli europei a pagare i pesanti costi non solo in denaro ma soprattutto le cause delle profonde incomprensioni per le differenze religiose, di cultura e sistemi di vita di queste popolazioni.
La gente comune è disorientata, con ragione non comprende questa forma d’integrazione imposta quasi con violenza, spinta oltre ogni limite attraverso disposizioni venute dall’alto, in nome di una solidarietà di comodo, che obbliga i cittadini a convivere con queste genti, creando disagio e diffidenza, anche per i trattamenti di favore elargiti dallo stato a queste persone, povere fin che si vuole ma in un periodo di grave crisi per la mancanza di lavoro oramai cronica che le sinistre italiane al governo non risolveranno mai. Un’infausta e imprudente operazione sostenuta con forza anche con la complicità della chiesa di Roma in nome di una distorta solidarietà papalina.
L’Italia, immobile dai primi anni’80, da tempo è governata da un sistema centralista di sinistra di stampo catto-comunista che l’ha impoverita culturalmente, moralmente e strutturalmente, annientando, in particolare a Torino, un prezioso apparato industriale e d’impresa. Negli anni sessanta, i politici con i sindacati della sinistra hanno operato senza scrupoli un vero sfacelo nel mondo del lavoro inculcando nelle giovani generazioni la cultura del diritto, in cui tutto deve essere facile, operando inoltre una sistematica “disistruzione” scolastica verso gli studenti, relegando in un canto come formule passatiste, il senso del dovere, i veri valori del lavoro, che è fatica, della famiglia, del proprio paese e della stessa Unione Europea.
Ancora oggi nelle scuole italiane manca l’Educazione Civica, una materia che dovrebbe essere obbligatoria, essa comprende l’insegnamento della Carta Costituzionale, un documento che ogni buon cittadino è tenuto a conoscere e imparare. Introdotta dallo statista Aldo Moro nel 1958, dopo il suo assassinio questa materia è stata praticamente cassata dall’ordinamento scolastico e mai più ripresa. Neppure la riforma scolastica della Gelmini nel 2008 prevede che l’Educazione Civica sia una materia vera e propria, come molti altri aspetti alquanto discutibili. Ma statisti come Aldo Moro l’Italia non li avrà mai più, non per nulla siamo sprofondati nel vuoto assoluto della superficialità e dell’incultura. Sui veri valori dei Trattati Europei e non solo, si è sempre taciuto, in Italia poi i cittadini non sono mai stati coinvolti in consultazioni popolari; una vergogna in un paese che si proclama di fronte al mondo modello di democrazia, ma i nodi stanno arrivando al pettine. C’è un diffuso, generale malcontento e molti stati dell’Unione meditano di uscire da questa Unione Europea. L’unica alternativa possibile per salvare veramente l’Europa dal possibile fallimento, se ne convincano tutti i membri, è dare ad essa una nuova struttura politica di modello Federale, com’era stata la proposta iniziale dalla Germania e subito rifiutata; ma i tempi erano diversi e con uomini politici di ben altra statura che avevano una chiara visione del futuro…

Carlo Ellena

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Nel totale caos elettorale, la palude Italia affonda nel mar Mediterraneo

Sono pensieri di un semplice cittadino, tralasciando dati statistici, false inchieste, menzogne vergognose, sondaggi truccati, grafici e percentuali gonfiate, che il cosiddetto uomo della strada non comprende ma non ne ha necessità, poiché egli  vive sulla sua pelle l’immane fatica quotidiana per la sopravvivenza.

Qual è in classifica l’attuale Repubblica Italiana? La 2°, la 3° o la 4°, abbiamo perso il conto. Sono ben 103 (centotre, incredibile, ma sarà finita? Ma 5 anni fa erano 219) i simboli presentati dai vari capi di partito. Pseudo politici che fingeranno di accapigliarsi per la scalata ai lauti stipendi, ai privilegi e la preziosa immunità. Quante facce nuove? Quasi nessuna, anche se molte di quelle nuove sono peggiori delle vecchie; e i programmi? Sono un comodo pretesto, un motivo per affrontare nelle piazze (come fanno i battitori da mercato) gli italiani. Sfrontatezza, impreparazione, nessuna visione politica della realtà e arroganza da intoccabili contraddistingue queste ultime generazioni di uomini politici. Costoro presentano programmi elettorali impossibili o copiati quasi di sana pianta da altri di triste memoria, mai realizzati dal punto più importante: il lavoro, quello vero, fatto con mani e cervello e non con parole, calcio, canzonette e banalità simili che da qualche decennio sono la cultura imperante del nostro paese.

 

Il difficile e disagiato rapporto con gli extracomunitari e la fuga da Torino

Prendiamo un esempio che fa testo per il percorso storico che ha seguito: il Piemonte, con Torino Capitale d’Italia, poi capitale industriale, capoluogo della Regione e fabbrica del lavoro per oltre un secolo a tutti gli italiani. La vecchia capitale ha subito, per volontà politiche di ultra-sinistra e in un tempo relativamente breve, la distruzione del suo apparato industriale. La bella Torino è ridotta, oggi, a una malfamata e puzzolente suburra composta da povera gente proveniente dai vari paesi africani e frotte di disoccupati-sfaccendati che non hanno patria. La decadenza della città non è casuale, è stata perseguita con manifesta volontà, sino a essere ridotta a Ente Regionale di carità e ricovero per disperati, mantenuti e coccolati, a scapito dei torinesi e piemontesi che, esasperati di essere, loro malgrado, i pagatori di questo “obbligo d’imposta”, o fuggono, o attendono che chissà, forse qualcosa cambi con le prossime votazioni politiche. Si tratta di una vera e propria fuga, che con questi ritmi, fra pochi anni Torino sarà un sottoprodotto africano; a questo punto ecco risuonare l’eco del fatidico “razzisti!”, dai falsi buonisti ma lo è esattamente al contrario e con cotanta arroganza per cui i piemontesi e torinesi emigrano. In buona parte sono pensionati, mentre molti giovani scelgono il Nord-Nord Est europeo ma anche oltre, per lavorare e trovata un’occupazione se ne vanno con la famiglia.

Alcuni giorni or sono, un amico settantacinquenne, recatosi in visita al Museo Egizio con alcuni parenti, mi ha raccontato un fatto inaudito cui è stato testimone. In coda alla biglietteria, li precedeva una coppia di africani, la quale, fra lo stupore dei presenti, pagava non due ma un solo biglietto, alla domanda dell’amico del perché di tale trattamento la laconica risposta sottotono era: “Disposizioni superiori”, ma non era finita, poiché l’amico chiedeva lo sconto applicato agli ultrasessantacinquenni la risposta era stata: “ Non c’è più, lo sconto è stato abolito”.

Lasciando a parte lo sconto, nella città di Torino il trattamento di favore riservato a questi stranieri è allargato anche nella Sanità e in molte altre strutture comunali di assistenza gratuite.

Il sistema ha un chiaro significato politico: che il cittadino è stato retrocesso in seconda, o terza classe nelle priorità rispetto agli extracomunitari. Non c’è stata mai una direttiva mirata a un sistema di regolamentazione all’entrata in Italia; tutti ma proprio tutti sono passati senza alcun controllo del flusso, tantomeno sanitario. Queste persone usufruiscono di vergognosi, quanto costosi privilegi che la città riserva loro, per cui il cittadino, che da vari anni subisce tali trattamenti e che nonostante il cambio di governo cittadino persistono, lo ripeto, se ne va per non più tornare.

 

La pessima scuola statale e i progetti della Regione Piemonte per le nuove famiglie piemontesi

Cambiare la scuola ritornando al passato.

L’Educazione civica – una materia troppo importante che deve essere ripresa in una legge e inserita com’era un tempo nei programmi scolastici. Materia che il benemerito On. Moro aveva reintrodotto nella scuola ma che dopo la sua morte è ben presto sparita.

La Costituzione italiana deve essere inclusa nell’Educazione Civica. È da seguire l’iniziativa adottata per gli studenti diciottenni nelle scuole di Cuneo d’introdurla nei programmi.

L’educazione sportiva è altrettanto fondamentale per insegnare ai giovani che non esiste solo il “calcio”; oggi non è più sport ma ricettacolo di violenza, volgarità, partite truccate e altri brogli. Lo sport agonistico autentico si può trovare nell’atletica leggera; inoltre fare sport non significa solo divertimento, poiché in questo attributo è insito lo sport stesso, esso è già, di per sé, divertimento e socialità. Mentre nelle scuole elementari torinesi, in modo astutamente perverso s’invitano i ragazzi alla solidarietà e all’accoglienza, non si fa scuola e non s’insegna affatto, si fa già politica dalla prima infanzia, a ragazzi di primo pelo, sfruttando la loro  ingenuità e capacità d’apprendimento. Ben altro trattamento è riservato agli stranieri; con il progetto Petrarca si sono avviati 300 (trecento) corsi di lingua italiana. Notizia tratta dal bollettino regionale d’informazione “Piemonte Newsletter”  n° 2 del 19 gennaio 2018.

Un declino a questo punto irreversibile per la città, che perde la parte migliore, per incamerare miseria e altro di molto peggio ma forse vi sono oscuri motivi che a noi, vecchi piemontesi educati al lavoro, paiono incomprensibili. Cosa realmente significa “innovazione sociale?”; spese improduttive per servizi inutili? Qual è il vero significato?

Riporto parte di un lungo, articolo sulle Politiche Sociali che tutti dovrebbero leggere, apparso sul periodico della Regione Piemonte “NOTIZIE” di Dicembre 2017, dal titolo “Welfare sì, ma con l’innovazione”. Nell’articolo ci paiono invece ben comprensibili alcuni Progetti Territoriali sui quali l’Assessore Ferrero afferma: “Questa prima misura mira a concepire le politiche sociali non come risposta emergenziale ai bisogni espressi dalla collettività ma come la creazione di un processo d’innovazione che consenta di generare un cambiamento nelle relazioni sociali e risponda ai nuovi bisogni ancora non soddisfatti dal mercato o crei risposte più soddisfacenti a bisogni esistenti”. Il bando di “Sperimentazione di azioni innovative di welfare territoriale”, pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione Piemonte del 2 novembre 2017, è rivolto a raggruppamenti composti da soggetti pubblici e privati costituiti e costituenti composti dai seguenti beneficiari: le Ats (Associazioni temporanee di scopo composte da soggetti pubblici), gli enti gestori delle funzioni socio-assistenziali (Distretti della Coesione sociale) e uno o più enti del terzo settore o associazioni di volontariato con sede nel territorio piemontese. La definizione dei Progetti Territoriali e delle loro finalità avviene a livello territoriale nei 30 Distretti della Coesione sociale che devono essere oggetto di una pianificazione integrata che, definendo rapporti strategici, li porti ad essere incubatori di sviluppo locale, sfruttando la ricchezza e la varietà dei settori produttivi, del lavoro, culturali, sociali e ambientali presenti sui territori. L’assessora Gianna Pentenero afferma (tra altre cose) “che attraverso i Distretti si può, ad esempio, realizzare forme innovative di welfare per il contrasto alla povertà, interventi volti a favorire l’inclusione lavorativa di persone con fragilità e misure in grado di contrastare il disagio sociale”.

Attenzione; quest’articolo abbonda di parole ampollose, fumose, che servono per concludere, alla buon’ora, con una dichiarazione d’intenti molto chiara dell’assessora Monica Cerutti: L’opportunità offerta è quella di mettere in campo innovazione nell’ambito sociale che guardi alle trasformazioni della comunità piemontese, che non sono solo il generale invecchiamento, ma anche l’evoluzione delle famiglie, non più composte secondo il modello tradizionale e con una significativa presenza di persone di origine straniera”. La chiusa è determinante: “Il bando ha rappresentato la prima tappa del piano di sperimentazioni per l’innovazioni sociale, che si articola in cinque misure diverse attuate attraverso il Fondo Sociale Europeo e il Fondo Europeo di sviluppo regionale, stanziando risorse complessive per circa 20 (Venti) milioni di Euro. Tutte le azioni dovranno avere un minimo comun denominatore: stimolare progetti sui territori, che dimostrino sostenibilità e replicabilità per promuovere coesione e inclusione sociale”.

Non un commento sulla più grave crisi di lavoro del dopoguerra, si sostiene solo la “coesione e inclusione sociale”. Un Ente Regione che sperpera somme enormi di fondi europei con l’Europa complice, che ignora i cittadini, le loro giuste proteste, le paure per il futuro, ed elargisce milioni per una causa (l’accoglienza italiana agli extracomunitari) oramai già persa e che ha diviso profondamente l’Italia e questa improbabile Grande Patria europea.

Non s’illudano i piemontesi di avere dalla Regione (e dallo Stato) trattamenti migliori, tantomeno un’attenzione particolare per le aziende e il lavoro, non per risorse in denaro, quanto per l’eliminazione dell’elefantiaco apparato burocratico che scoraggia e frena l’efficienza delle imprese supersiti, del commercio e dell’artigianato, il quale ha perso la gran parte dei maestri di mestiere; gli anziani portatori d’esperienza e dell’eccellenza artigiana. Dall’articolo è ben chiaro che la Regione Piemonte è fortemente determinata non solo nell’accoglienza agli extracomunitari (dando loro i corsi d’italiano gratuiti) ma a inserirli sempre di più nel contesto sociale e questo è l’assurdo, nelle famiglie piemontesi, considerando gli stranieri un fatto acquisito, stabile, quali nuovi piemontesi.   

Se i cittadini se ne vanno, è per mancanza di lavoro, di tutela, di buona sanità, di giustizia quale valore etico-sociale e distributiva, si sentono abbandonati, al contrario di quanto è dato gratuitamente a questa gente non per solidarietà ma per turpi interessi politici di questa sinistra, che si abbassa a tutto pur di avere il voto.

Un demagogico e costoso progetto, senza una visione futura, che non salverebbe nulla ma porterebbe il paese, le cui famiglie sopravvivono grazie a ciò che resta dei loro risparmi e delle pensioni degli anziani, al fatale fallimento.

Sotto riporto la parte finale originale dell’articolo interessato.

“Welfare sì, ma con l’innovazione” dal giornale Regione Piemonte “NOTIZIE” del Dicembre 2017

 

(Ampliando l’argomento: quando mai si è chiesto o si è pensato di chiedere, attraverso una consultazione popolare, ai cittadini italiani ed europei, se erano d’accordo di accogliere, non solo un numero adeguato, ma migliaia e migliaia di extracomunitari? Mai, la fiumana di disperati è arrivata violenta, incontrollata, irrefrenabile. Questa è democrazia partecipativa? No, ignorando la democrazia, il passo verso forme di totalitarismo è breve. E non invochiamo il primo e vero Trattato di Schengen, che non centra nulla con l’accoglienza di extracomunitari).

La situazione è gravissima; giungere a questi livelli significa abuso di potere, pura insensatezza, scollamento dalla realtà culturale regionale, depauperazione di ogni valore morale, della stessa dignità di uomini liberi e della nostra memoria storica piemontese e umana. Folle è volere una omologazione improbabile, pericolosa per gli effetti negativi scatenanti e assumendosi, inoltre, responsabilità e ruoli politici che non spettano a niuno, tantomeno a un governo temporaneo della Regione, che enormi guasti ha prodotto, poiché fin già dalle prossime consultazioni italiane del 4 Marzo, molte cose potrebbero cambiare, compreso lo Status gerarchico, certamente non inossidabile, della Regione Piemonte.

 

Ancora sull’istruzione e gli extracomunitari

Ritorno su un punto dolente che duole sempre più, ed è la gravissima mancanza d’istruzione nelle scuole italiane, argomento già trattato ampiamente nel mio BLOG (stracanen.it), che tuttavia persiste come un male pernicioso oramai inguaribile.

Giorni addietro il conduttore di RAI 1 del mattino Franco di Mare, ha mostrato e commentato, con evidente disappunto, una scena tratta dal quiz serale “l’Eredità” condotto da Fabrizio Frizzi.

In verità il quiz è da cassare, si rivela sciocco, senza capo né coda, con domande disordinate da livello 1° elementare, alle quali, troppe volte, il concorrente o la concorrente non sanno rispondere o dicono fesserie del tipo: “In che anno è morto Hitler?” Sul monitor compaiono quattro date, di cui una giusta. Il o la concorrente medita, poi risponde con una risatina: “nel 1974”. Risposte di questo tenore sono anni che le vediamo e ascoltiamo, dando un’immagine pubblica negativa dell’ignoranza italiana e di un infimo livello culturale e d’istruzione in quale che sia la materia; geografia, storia, matematica, letteratura, scienze e via così. Tuttavia, sono invece quasi tutti bene informati su cantanti di musica leggera, canzonette varie e il calcio; comunque il quiz distribuisce denaro che qualche volta premia il o la concorrente che indovina la risposta giusta. A volte capitano concorrenti anche bravi ma purtroppo, sono molto rari.

Inoltre la trasmissione dimostra di considerarsi per pochi, ovvero; i partecipanti, scelti con molta cura, sono in prevalenza studenti o giovani laureati, gli altri più maturi, svolgono professioni “nobili” o occupati in impieghi pubblici e operatori in attività artistiche, rarissimi gl’imprenditori e artigiani. Non ricordo “umili” operai metalmeccanici, o di altro genere, forse, come partecipanti, farebbero sfigurare il quiz, condotto con molto garbo dal signor Frizzi, il quale, commentando una risposta su alcune verdure, aveva usato, chissà perché, l’aggettivo “umile” per un ortaggio come la rapa.

Il quiz, come altri prodotti televisivi frutto dalla nuova RAI al servizio del potere, è uno specchio fedele di com’è malridotta l’Italia in fatto di cultura e istruzione. Tuttavia non è tutta colpa degli italiani, è anche la politica messa in campo in decenni da un modello di sinistra; quella del “tutto facile”, che premia tutti, del diritto assoluto all’eguaglianza, tutti promossi, nella consolidata, utopica pianificazione culturale di chiaro stampo marxista: ovvero, cancellare la meritocrazia, che è discriminazione.

Chiudo l’argomento rilevando che questo flusso continuo d’individui extra-comunitari deve essere fermato a tutti i costi, basta parole. Fermiamo anche questa turpe, ignobile pubblicità sui bambini gravemente ammalati che troppe associazioni pseudo umanitarie sfruttano e mercanteggiano intoccabili, libere di agire. La politica della solidarietà che si beano d’imporci è fallace, non serve; la vera solidarietà va al cuore, non passa attraverso le tasche di politici millantatori e corrotti.

Oggi le scuole sono prematuramente multirazziali, frequentate da bambini e ragazzi che nella grande maggioranza parlano poco e male l’italiano, non conoscono nulla della nostra cultura, che nessuno insegna loro e c’é l’annoso, irrisolto problema della religione. Per tutto questo non sono stati approntati programmi scolastici che normalizzino una situazione che è nella più totale disorganizzazione.

Le politiche degli attuali governanti è “improvvisazione in tutto” e tutto il paese è nel caos più totale. Costoro tappano la bocca agli italiani con gli 80 Euro, opera della monarchica magniloquenza del reuccio signor Renzi e dei suoi compagni che ne fanno un vanto, sbandierandola ovunque. Un insulto vergognoso a un popolo lavoratore che merita tutt’altro rispetto, non la carità.

Urge definire strategie contro queste sinistre e i loro complici, esse non vanno solo sconfitte ma devono essere messe a tacere.

È in ballo il nostro futuro di piemontesi, lombardi, veneti, romagnoli, abruzzesi, emiliani, napoletani, calabresi, siciliani, sardi e così tutt’insieme, ma nella salvaguardia delle nostre diversità in questo straordinario mosaico di culture che fanno unica questa penisola. Italiani, si, ma nel rispetto e la tutela delle nostre lingue, tradizioni e costumi.

 

Il bullismo

Bullismo. Immagine dal Web

 

Sinonimo oramai desueto ma ancora usato in politica per sottovalutare la delinquenza minorile che si trasforma in criminale, con giudici avvezzi a un facile buonismo nel giudicare i colpevoli; le leggi italiane sono rimaste all’epoca della “monelleria”. Usare il “pugno duro” è il minimo che si possa fare nell’attuale, grave situazione di disoccupazione che aggiunta ai migranti crea malavita. Una situazione che ha creato una diffusa sfiducia, è la totale assenza dello Stato nel salvaguardare e proteggere i cittadini, i quali, imbelli di fronte ai delinquenti, se si difendono e sparano, vanno in galera. È invero “l’Ingiustizia applicata”; una nuova laurea. Tutto il macchinoso apparato della giustizia è oramai al collasso, ed è pubblicamente riconosciuto che la troppa, inutile burocrazia blocca i processi per anni ma che nessuno vi ha posto, o non ha voluto porvi, rimedio.

Si tratta di una situazione ingarbugliata, che può avere un’origine bivalente, ovvero: l’errore catastrofico di valutazione nell’abolire il servizio militare di leva, che ha prodotto milioni di giovani, i quali, liberi da quel vincolo, hanno occupato grandi spazi vuoti nelle comunità, in un tempo relativamente breve. E la conseguenza diretta di quell’errore si è rivelata ben presto negativa e fatale per loro e per la società in cui vivono. Il troppo tempo libero senza una gran voglia di impiegarlo con dovizia, pochi controlli e soldi in tasca da spendere; il passo è breve per cedere a  tentazioni e sensazioni proibite e facilmente si arriva alla droga leggera, poi a quella pesante e per molti l’ultimo viaggio. Un’altra terribile piaga sociale che travolge le famiglie.

È imperativo occupare i giovani; si deve ritornare al Servizio militare di leva o a un periodo di Addestramento militare obbligatorio. Una rigida disciplina, conoscenza e pratica delle armi saranno salutari, preparando i giovani a essere buoni cittadini. L’Art. 52 della Costituzione Italiana recita: “La difesa della patria è sacro dovere del cittadino” e prosegue; Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalle legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici. Ecco perché è importante lo studio della Costituzione, che va riproposto a partire dalle scuole.

“Quando c’era una sentinella armata ai confini del paese”

 

Se finalmente apriamo gli occhi, ci ritroviamo in una società malata, che ha smarrito i valori identitari genuini, contagiando genitori, figli e nipoti, in un paese con governanti arretrati, inadeguati, impreparati a riceverli, che li rifiuta, togliendo loro il lavoro, l’istruzione, e la fiducia nel futuro. Tutto è provvisorio, non ci si sposa e non si hanno figli in questo clima d’insicurezza, ecco la scottante verità. Una situazione, di cui la stessa classe politica ne è stata la nefasta e feconda matrice, provocando disastri inimmaginabili in queste nuove generazioni, causando guasti che per porvi rimedio non basteranno molti decenni, ma occorre la ferma volontà di cambiare.

In questo terribile periodo storico di confusione d’idee e di ruoli, un’Europa per nulla “europea” langue, mentre nel resto del mondo avanzano le economie di grandi Stati liberi e meno liberi che mantengono alta l’efficienza dei loro eserciti, poiché essi garantiscono la pace. L’Italia, ardente europeista, sopravvive soltanto quale serbatoio europeo di migranti. Sottomessa senza avere alcun titolo a discutere progetti e decisioni è ancora la piccola Italia che mendica contributi in denaro e fa incauti debiti per non fallire, al prezzo di essere servile e sollecita a tenere aperti i suoi confini.

C’è un libro di poco più di cento pagine che tutti gli italiani ma soprattutto i nostri politici dovrebbero leggere: “IL PACIFISMO NON BASTA” di Lord Lothian, editore IL MULINO.

 

Federazione degli Stati Uniti d’Italia

Un’idea sempre viva e attuale che salverebbe il paese è il progetto di una Federazione di Stati liberi e indipendenti: gli Stati Uniti d’Italia; potrebbe essere una forza dirompente in questa Europa macilenta. In basso è la copertina del libro di 110 pagine di Marcello Pacini e pubblicato nell’Aprile del 1994. Uno studio attento e compiuto su un programma che esaminava a fondo le due scelte: Stato Federale o Stato Unitario.

“Scelta federale e unità nazionale” di Marcello Pacini

 

In quel  periodo storico la Lega Nord, con una strenua e incisiva battaglia politica, aveva portato lo scompiglio nel tremebondo e pietrificato mondo politico italiano. La lega di Bossi percorreva l’Italia da capo a fondo come un ciclone, ponendo le basi per la Lega Centro e la Lega Sud. Nascevano giornali e ovunque esplodeva l’idea del federalismo. La Fondazione Giovanni Agnelli, aveva preso a quattro mani quest’idea e in due anni di convegni, dibattiti e ricerche, aveva raccolto le riflessioni che hanno dato origine ha questo interessante volume. I quotidiani illustravano il progetto e i giornalisti discutevano e scrivevano. Senza dubbio era stato un passo che preludeva a un evento straordinario; una vera rivoluzione nell’assetto politico della Repubblica Italiana. Ma…; quando in Italia si parla di cambiamenti politici, c’è sempre un “ma”; una congiunzione grande come un palazzo, sempre e dovunque presente quando anche solo si sfiora l’assetto politico statuale italiano, per cui si deve rivoluzionare tutto per non cambiare nulla, come ben affermava a suo tempo, il Nobile siciliano Principe Salina. Con la Lega Nord, in seguito, purtroppo, ci si è arenati e persi nella sabbia del deserto per cause più o meno accettabili che richiederebbero uno spreco inutile di carta e parole. Oggi si possono ben vedere e costatare in ogni ambito della vita dei cittadini piemontesi e italiani i risultati delle lungimiranti politiche delle sinistre che si autodefiniscono “progressiste”, ovvero, nella più fedele applicazione del pensiero espresso dal nobile Principe Salina.

Parlare di federalismo oggi, a questa categoria di politici è come credere nella magia o nei maghi; ma è un madornale errore, poiché mai dal dopoguerra la situazione generale del paese è stata così seria, per quanto si è deteriorata. Una realtà che nessuno di costoro neppure si sogna di mettere in chiaro, tantomeno la maggioranza del nostro governo che presenta riprese impossibili, inesistenti, inventate per convenienze politiche su basi astratte e elettorali. Sono menzogne costruite con la complicità di un’Europa distratta, chiusa nelle proprie crisi politiche, in maggioranze di governo frutto di estenuanti trattative. Tuttavia la Germania sopporta gli scossoni perché ha un’economia solida, ed è soprattutto, uno Stato federale, ben organizzato e decentrato, con cittadini che lavorano e producono come ogni buon tedesco sa e deve fare.

L’Europa Unita si è fermata allorquando non ha saputo costituirsi in una vera Federazione Europea; imputabili in buona parte gli “stati nazionali”, pacifisti a oltranza come l’Italia, in quanto “società chiuse”.

«Lo stato nazionale è la forma compiutamente sviluppata della società chiusa, Si ritrova così una verità elementare: la pace comporta la negazione di uno degli aspetti fondamentali che la storia ha sinora sempre presentato: “la società chiusa”, ovvero, la divisione politica del genere umano. Questa negazione è determinata, il che significa anche storicamente accertabile. Per passare dalla situazione governata dalla guerra a quella governata dalla pace bisogna eliminare i rapporti di forza tra gli stati e sostituirli con rapporti pienamente giuridici; bisogna cioè sviluppare sulla base della negazione del nazionalismo, il federalismo». (Da “Il pacifismo non basta”). Quindi l’Italia vuole “l’uovo e la gallina”. Sempre più accentramento dei poteri, non negazione del nazionalismo e nessuna divisione dei poteri.

“Il federalismo? Dopo il Duemila” da la Repubblica del 29 Ottobre 1994

 

“Un buon federalismo con i piedi per terra” da la Repubblica dell’anno 1994

 

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Trieste: primo successo della causa fiscale sull’amministrazione italiana

Proponiamo il testo integrale di un articolo del Movimento Trieste Libera pubblicato sul loro blog  e sul giornale LA VOCE DI TRIESTE del 28 novembre. Questo documento è importante, non solo per la grande vittoria ottenuta in giudizio ma soprattutto per gli sviluppi e i risvolti politici che questa causa unica in Italia avrà nel tempo. Una prova tangibile dell’inettitudine, arroganza e superficialità che lo Stato italiano ha dimostrato ancora una volta, soprattutto in questo frangente. Mi chiedo in quali mani siamo finiti e cos’è quest’Europa complice saccente dell’Italia che disconosce e umilia i suoi cittadini e gli stessi europei.

 

Segue l’articolo originale: Trieste: primo successo della causa fiscale sull’amministrazione italiana (28 novembre 2017). La Voce di Trieste tratto da http://www.lavoceditrieste.net/2017/11/28/trieste-primo-successo-della-causa-fiscale-sullamministrazione-italiana/

Trieste: primo successo della causa fiscale sull’amministrazione italiana

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La fila di intervenienti all’ingresso laterale del Tribunale di Trieste

 

Trieste, 28 novembre 2017. – La causa fiscale avviata nel maggio 2017 dalla International Provisional Representative of the Free Territory of Trieste – I.P.R. F.T.T. nei confronti del Governo italiano amministratore fiduciario ha ottenuto un primo successo all’udienza di comparizione delle parti, che si è tenuta martedì 28 novembre.

Il Governo italiano si è infatti costituito nel giudizio facendosi difendere dalla sezione di Trieste dell’Avvocatura dello Stato, che ha depositato l’atto di costituzione ma non si è presentata in aula. Il Giudice ha concesso termini per il deposito di documenti e memorie entro il 15 maggio 2018.

Le tesi difensive proposte dall’Avvocatura dello Stato erano insostenibili ed in conflitto con la posizione dello stesso Governo italiano, che con il recente decreto sulla gestione del Porto Franco internazionale ha ammesso di esercitare l’amministrazione civile provvisoria del Free Territory of Trieste su mandato dei Governi statunitense e britannico per conto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

La I.P.R. F.T.T. ha dichiarato perciò che «apprezza la decisione del Governo italiano di non insistere su tesi difensive insostenibili, e la decisione del Giudice di concedergli un termine ulteriore di sei mesi per affrontare e risolvere il contenzioso con negoziati ragionevoli e soddisfacenti per ambedue le parti».

La causa avviata dalla I.P.R. F.T.T. chiede l’accertamento giudiziale del diritto del Governo amministratore ad imporre e riscuotere le tasse a Trieste in nome, per conto ed a bilancio dello Stato italiano, oppure in nome, per conto ed a bilancio del Free Territory amministrato. Le tasse imponibili nel Free Territory attuale sono da due a tre volte inferiori a quelle dello Stato italiano.

La causa della I.P.R. F.T.T. non ha precedenti ed è sostenuta anche dall’intervento processuale di cittadini ed imprese dell’attuale Free Territory of Trieste e di altri Stati. Gli atti di intervento già depositati sono 485. Poiché le parti fisicamente presenti all’udienza erano quasi 200, il Tribunale ha dovuto assegnare al processo l’aula della Corte d’Assise.

I media italiani hanno sinora applicato a tutte le notizie in argomento una stretta censura stampa che dimostra gli imbarazzi della classe politica italiana sulla questione di Trieste.

F.W.

CAMERA

Gli intervenienti prendono posto nell’Aula d’Assise

 

 

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Breve commento sulle votazioni tedesche ed effetti collaterali

Nessuna sorpresa; è successo quello che doveva succedere, io semplice cittadino l’avevo anticipato nel mio BLOG, con la differenza che davo la Merkel per sconfitta. Non è stato così ma cambia poco. Gli equilibri all’interno della sua maggioranza sono svaniti e con la destra dura all’opposizione e un parlamento simile a una sorta d’insalata russa, per la Cancelliera sarà molto difficile costruire un governo che, pare ovvio, sarà ben diverso da quello precedente, compreso l’atteggiamento verso l’immigrazione selvaggia, senza dimenticare la futura posizione tedesca all’interno dell’UE. Ed è soltanto il primo scossone; i contraccolpi che avverranno in seguito ad altre votazioni politiche negli stati membri UE, saranno senza dubbio sorprendenti.

La Spagna usa il pugno di ferro con la Catalogna, è regime totalitario ma i catalani presto o tardi vinceranno, sono dei duri e non molleranno mai; siamo con loro.

E l’Italia? Deve cambiare, ne ha le potenzialità, se lo vuole veramente. È urgente dare un futuro ai nostri giovani disoccupati per forza; per questo è indispensabile una destra liberale forte.

A ottobre ci saranno i due referendum sull’autonomia del Veneto e Lombardia, secondo l’articolo 116 della nostra Costituzione, sono due consultazioni per la libertà dell’individuo, per i lavoratori e per la imprese, qualcosa si muove, speriamo nella vittoria.

Nei regimi a democrazia avanzata, quando avviene un’alterazione o una frattura nel sistema verso un altro a forte impostazione statalista di sinistra imposto senza consultazione popolare, presto o tardi, a un’inevitabile votazione politica, il regime imploderà sulle sue rovine e saranno i cittadini a indicare la strada; Brexit insegna. Sono gli effetti di forze inarrestabili quali; libertà, onestà, giustizia.

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Articolo apparso sull’album “TOPOLINO” dell’11 novembre 1979, pag. 157.

Sfogliare i vecchi album “TOPOLINO”della collezione di mia moglie, è un’operazione che affronto sempre con piacere e molta curiosità; sono una vera miniera di notizie talvolta strabilianti. Questa, che la mia attenta consorte ha trovato, è veramente stucchevole e se vista oggi, dopo ben 38 anni, ci mostra, dietro l’apparente semplicità dell’informazione, un paese che si è pietrificato già negli anni ‘70. Mi spiego meglio.
Tanto per essere chiari, reputo una vera fortuna che il ponte non sia stato costruito (a totale dispiacere di Berlusconi), tuttavia mettendo in conto che la fase di studio era iniziata nel lontano 1959; una montagna di denaro per un pugno di polvere. Sui motivi e il perché credo sia meglio non approfondire, non solo sullo sperpero di denaro pubblico ma anche su fatti e misfatti di dubbia trasparenza, comunque il fatto si rivela un pretesto più che sufficiente per osservare con occhio critico i soliti disastri italiani di varia natura che oggi si ripetono periodicamente, non come, ma molto peggio di quarant’anni fa.
Ponti e cavalcavia autostradali crollati, incendi dolosi in Sicilia, che ha ben 9 (nove) zone a rischio come a Napoli, sul Vesuvio. Gli incendiari, pur se colti sul fatto, condannati e incarcerati; dopo qualche mese, a volte anche solo per pochi giorni, per una strana magia ritornano in libertà. Una giustizia invero bizzarra, nevvero?
La mappa degli incendi in Italia conta circa 20 aree in pericolo costante e ancora; disastri ambientali e geologici un po’ in tutta Italia, dovuti all’assenza di controlli e manutenzione; abusi immobiliari vergognosamente impuniti sulle coste più belle del sud-Italia, a Matrice si vive ancora tra le macerie, le quali ricordano ai cittadini le promesse mancate dello Stato; la sanità al collasso, giustizia inesistente, la scuola pubblica trasformata in contenitore d’impieghi politici, dove si evidenzia la carenza d’insegnamento per l’assenza di programmi almeno decenti o a livello europeo.
Una vera e propria “dis-istruzione”, pianificata e caparbiamente voluta attraverso una perfetta organizzazione che implementava e implementa tuttora anche il mondo del lavoro in generale. Sindacalizzazione dei cittadini-lavoratori e attraverso formule arcaiche del partito comunista italiano, l’estensione massiccia della cultura del diritto; ovvero diritto alla scuola, con meno studio, diritto al lavoro, allo sciopero (circa cinquemila ore perse nel 2016) alle ferie, alla casa e quant’altro. Questa sorta di sotto-politica di basso livello del ”tutto facile” ha inculcato in molti giovani l’idea che il lavoro sia una seccatura solo in parte necessaria, un’idea che può funzionare sinché sono in vita i “finanziatori”, ovvero, genitori e nonni.
Con la presa di potere capillare dell’elefantiaco apparato pubblico, dell’informazione (La RAI) e naturalmente dell’ISTAT che gonfia a sproposito i vari dati e percentuali, il paese può dirsi paralizzato già dai primi anni ’80. Un convinto demagogo comunista quale Corradino Mineo, parlando di lavoro in un telegiornale di qualche tempo fa, commentava convinto la consolidata vittoria della nuova Italia improduttiva con la folgorante frase che suonava all’incirca così;“…oramai siamo in piena era post-industriale…”, tuttavia senza spiegare che forma di lavoro dare, nella nuova era x, ai milioni di disoccupati creati dalla sparizione delle “maledette” industrie passate di moda, come se fossero un tipo di pettinatura o un paio di pantaloni.
Ѐ importante precisare che i comunisti italiani e la chiesa hanno sempre lavorato bene insieme (da questo connubio è nato il catto-comunismo, si veda l’attuale pontefice, prodigo a spargere benedizioni e lanciare anatemi ma nel suo reame non entrano extracomunitari).
I Patti Lateranensi del 1929 con la nascita dello Stato della Città del Vaticano, erano stati in qualche modo accettati anche da una buona parte dell’antifascismo.
Già nell’agosto del 1938 c’era stato un incontro in Svizzera tra un monsignore di Curia e due esponenti del Partito Comunista in esilio; costoro rassicurarono il monsignore che non avrebbero messo in discussione il trattato ma solo il Concordato. È evidente una fattiva collaborazione di ben lunga data.
Tutto questo mette in luce, se ancora c’era bisogno, un fattore inequivocabile; il comunismo è un cancro per l’umanità e dove governa genera soltanto povertà e ottuso stratalismo improntato all’inefficienza e al clientelismo. Gli italiani e in particolare i piemontesi, dovrebbero metterlo in conto.
Il potere d’acquisto della Lira era aggiornato dall’ISTAT, che funzionava e rendeva visibili i coefficienti di rivalutazione. Con l’Euro (una vera e propria rapina per le tasche degli italiani) rimane un calcolo empirico, ce ne rendiamo conto nella spesa giornaliera delle derrate alimentari, l’unico sicuro riferimento poiché costantemente soggette a ritocchi sempre al rialzo. Un aspetto molto negativo per l’economia delle normali famiglie ma che al ciarpame politico che ci governa neppure passa per la testa.
Per circa sessant’anni le parcelle di libertà concessa agli italiani dai vecchi governi formati dai partiti tradizionali, hanno permesso alle famiglie un discreto benessere, frutto di duro lavoro e pesanti sacrifici per risparmiare qualche soldo. Oggi queste “riserve” si assottigliano, talvolta sono ridotte all’osso, tuttavia si rivelano indispensabili per figli e nipoti, in buona misura disoccupati e non avvezzi a risolvere i problemi che si trovano ad affrontare; con quale risultato? Questi giovani se ne vanno all’estero e non solo in Europa. Una perdita incalcolabile, di sicuro non rimpiazzata da extracomunitari o altri immigrati senza arte né parte e che sono da mantenere a spese dei cittadini.
La cecità, arroganza e totale assenza di diplomazia del segretario comunista signor Renzi e del suo compare signor Gentiloni, supportati dalla loro variopinta maggioranza composta di traditori, partitini voltagabbana e dal vecchio presidente della Repubblica Napolitano, che è il vero burattinaio, non ha limiti. Costui, è il degno compagno che nei suoi due mandati ha comunistizzato il paese, collaborando attivamente a impoverirlo attraverso una statalizzazione del lavoro, sterilizzandolo e burocratizzando all’esasperazione le pratiche all’iniziativa privata imprenditoriale e artigiana, che ha come logica conseguenza la fuga in massa delle imprese. È un problema già illustrato in precedenti articoli.
L’UE dei burocrati, non dei popoli, oramai allo sbando, sta marciando sull’orlo del baratro; “l’affaire extracomunitari”, trattato come faccenda di pertinenza delle sole oligarchie politiche e dai potentati economici non solo europei e in disprezzo di ogni norma democratica, hanno tenuto all’oscuro i cittadini dell’Unione sul sistema usato per dare libera circolazione ai migranti all’interno dell’UE. Un metodo truffaldino simile a quello adottato per il referendum sulla Costituzione Europea, già respinto nel 2005 dai francesi e olandesi e ripresentato nel giugno del 2008 mascherato come Trattato di Lisbona-alleggerito e respinto poi dall’Irlanda (unico paese ad aver previsto una consultazione popolare).
Al Consiglio Europeo del 2008 si era trovato, con vari maneggi, un accordo e l’1 dicembre 2009 entrava in vigore il Trattato di Lisbona cancellando il risultato del referendum. Questo nuovo Trattato modificava completamente quello sull’Unione Europea e il Trattato che istituiva la Comunità Europea. I cittadini europei e il loro voto democratico era stato completamente ignorato e superato.
La UE e in particolare i governi italiani che si sono succeduti, non importa di quale partito politico, hanno sottovalutato culturalmente e politicamente la questione extracomunitari, gli africani in particolare. L’enorme problema è stato affrontato male, in modo troppo superficiale, sottovalutando l’impatto con culture molto diverse e con almeno vent’anni di ritardo. Quale che sia la conclusione, presto o tardi saranno i cittadini a decidere democraticamente la sorte delle ottuse e arroganti oligarchie politico-economiche; è il naturale ciclo storico di rivalsa dei popoli inascoltati in paesi a sistema democratico.
Sulla vicenda del libero passaggio alle frontiere di extracomunitari o migranti, pesa un complicato groviglio di Accordi, Trattati, Convenzioni, tutti realizzati all’oscuro dei cittadini europei che protestando con ragione per l’improvvisa invasione a casa loro di questa povera gente, sono tacciati in modo scandaloso di populismo e xenofobia.
Le oligarchie e i magnati oramai padroni dell’Europa si sono trasformati in mercanti umani nel nuovo schiavismo di marchio europeo, pontificando la loro abbietta solidarietà quale opera benefica, supportati inoltre da un pontefice catto-comunista; un povero prete non in grado di svolgere a dovere la sua importante funzione politico-religiosa.
Il presidente italiano (o chi per lui) dell’INPS ha dichiarato apertamente al telegiornale che gli extracomunitari “sono indispensabili per le casse dell’INPS”, anche in questo caso senza spiegare il perché. Comunque emerge abbastanza chiaramente da parte del governo e dei suoi affiliati una sorta di disprezzo per gli italiani sempre menzionati nei loro discorsi; in realtà tutti gli sforzi sono mirati “all’affare extracomunitari”; un impegno preoccupante e pericoloso e gli italiani tutti devono stare molto attenti al prosieguo degli avvenimenti; stiamo perdendo la nostra cultura e la nostra storia, ed è quello che le oligarchie vogliono a tutti i costi. Ci stanno vendendo.
Molti anni fa, in un convegno sulla Letteratura della Negritudine, avevo conosciuto il prof. Lunanga; uno scrittore zairese molto attento ai problemi della nuova letteratura negroafricana. Egli mi aveva mostrato un interessante articolo da lui scritto nel 1987 sulla rivista SEGNI & FORME dal titolo ”Sulla Negritudine dopo una generazione letteraria”.
Scrive Lunanga: La Negritudine è stata e continua ad essere la ricerca dell’identità politico-socio-culturale dell’uomo di colore. La sua quintessenza straripa di così tanti valori da ricordare di continuo a ogni popolo la giusta lotta per i suoi diritti irrinunciabili. Questo problema non nasce da noi. Non è un’emanazione o un’invenzione del popolo nero. È invece un diritto universale uguale in tutto e per tutto a quello che ispirò la carta delle Nazioni Unite per il riconoscimento dei diritti dell’uomo. In questo contesto e fino a questo punto gli sforzi della Negritudine si sono rivelati lodevoli. Ma il nostro piccolo contributo, che si somma alle critiche già esistenti, studia in particolare il comportamento dei “padri” della Negritudine, lo mette a confronto con quello dei loro fratelli “non occidentali” e, per finire, riporta le conseguenze sorte sul piano letterario. “ Il negro sottoprodotto umano incosciente e tarato”, questa l’esclamazione del famoso poeta W.E.B. Du Bois in Le anime nere, a denuncia dello scandalo americano d’inizio secolo. E cosa dire di una crisi tra uomini in generale, uomini e basta, senza uno sguardo alla loro pelle? Leopold Sèdar Senghor e i suoi seguaci hanno combattuto questa battaglia a Parigi. Denunciare la situazione di oppressione dei neri, mendicanti, deboli, non umani e prendere coscienza del “proprio io” sono tutti atteggiamenti di sfida. Preso atto dell’esigenza in “questa” epoca di uscire allo scoperto ad ogni costo, i poeti di colore anno iniziato a condannare apertamente il comportamento ambiguo dell’occidente, la sua politica civilizzatrice, il suo piano di omogeneizzazione culturale, i pregiudizi per tanto tempo spacciati, in una sola parola; le ingiustizie legalizzate. Questo linguaggio è giunto a un punto tale da convincere il giovane poeta intellettuale nero a recuperare la sua uguaglianza col bianco. Tesi questa, senza dubbio condividibile, constatando chiaramente, ancora oggi, alla fine del secondo millenio, quanto l’uomo bianco si guardi bene dal considerare il nero pari a lui. Ora la nostra delusione è profonda perché, nonostante le grida lancinanti di ieri e più che mai di oggi, lo sfruttamento disumano guadagna ancora terreno.
La letteratura africana è sempre stata una letteratura impegnata. Una letteratura di battaglia, di un conflitto che chiede un sistema di abolizione di cose, la rivoluzione radicale, l’emancipazione. Senghor ha ben presentato il ritratto infantile ma severo del negro che deve tutti i giorni imparare dai suoi maestri. “Noi siamo- così diceva- dei grandi bambini”. E ci domandiamo ora se abbiamo forse finito di apprendere da questi maestri e se questi continueranno in eterno a considerarci dei “bambini”. Chi dunque ci darà questa risposta e quando? La Negritudine non può essere separata neppure dai fattori economici, politici e sociali. Cosi come forte è stata l’oppressione, dura oppressione, così non potrà che essere efficace l’azione. E queste voci non hanno mancato di attirare l’attenzione di qualche europeo. Sartre Frobenius ed altri, ad esempio, ne sono stati colpiti.
Il loro contributo non è certo passato inosservato. Molti esperti europei hanno così cercato di convincere l’opinione pubblica che il modello europeo, o comunque occidentale, non è l’unica via d’uscita.
Lo stesso comunismo ha avuto l’opportunità d’attirarsi l’attenzione e la simpatia dei popoli già colonizzati. Ci fu allora un’esplosione letteraria senza precedenti. Il popolo negro sciolse la sua lingua e parlò dicendo tutto ciò che aveva chiuso nel cuore. Le diramazioni raggiunsero tutti i filoni letterari; dalla poesia al romanzo, dal romanzo al teatro, dal teatro al saggio critico e via di seguito. Allora certi bianchi erano curiosi di sapere come si poteva esprimere una “scimmia”; la”scimmia così ne approfittò.
I padri della Negritudine non erano che un piccolo gruppo di giovani studenti emigrati. Con le radici del movimento potevano resistere, essendo i suoi germogli solo formati da una minoranza con un futuro politico. Finiti gli studi questi pionieri si sarebbero inevitabilmente seduti sui posti già occupati dai colonizzatori. E che ne sarebbe stato della realtà africana, forse che loro la conoscevano, forse che avrebbero saputo gestire il futuro dei loro popoli? Fu allora che nacque il nero dramma del continente nero, dramma cupo, dramma che ha la sua origine quando questi intellettuali, oramai non più africani prendono in mano le sorti dei loro paesi. E l’astuto colonizzatore da parte sua affida loro il potere volentieri, perché vede in loro traumi futuri ed incapacità ben note. Ed essi diventano delle pedine, dei burattini, delle semplici comparse.
Ci si accorse di sbagliare nel credere che l’elite era “ciò che vi è di meglio nella società africana”. Fu così che questi furono chiamati “maestri evoluti” e gli si attribuirono onorificenze quando, al contrario, erano loro i neri ignoranti, “i buoni stupidi”. Gli uomini dalla “pelle nera e la maschera bianca” di Fanon. Una cosa è certa; questi intellettuali “parigini” sarebbero vissuti meglio a Parigi che in un qualsiasi villaggio africano. L’esempio di Senghor è illuminante. Questo nostro saccente intellettuale infatti, è si africano ma certo solo di pelle e non di cultura. Così, da un lato, è respinto da chi l’ha formato e dall’altro, da chi lo deve formare. Doppiamente sradicato, questo intellettuale malato di corruzione è diventato talmente ibrido e spersonalizzato da invocare a gran voce una personalità. Ed è perciò che chi è privo d’identità, chi s’è perso e non sa ritrovarsi, chi non si conosce non potrà mai rivendicare qualcosa di valido. In definitiva, osserviamo ora, infatti, che il negro sfrutta il negro.
Questi prodotti europei hanno sempre rappresentato un grave pericolo per la promozione culturale dell’Africa. E come se non bastasse, si sentono pure investiti da debiti morali.
La letteratura africana è chiamata a un’etica imparziale che le assicuri un attivo sviluppo nel tempo e nello spazio. Bisogna così combattere non la razza bianca ma il gioco meschino europeo sullo sviluppo del Terzo Mondo del quale sono efficaci complici certe conoscenze africane. Alcune fra queste sono ancora quegli “intellettuali parigini” che parlavano con una tale povertà di sentimenti, solo per i vantaggi materiali cui aspiravano.
Finché si continuerà a sperare su un’elite prodotta in Europa, le sorti del continente nero saranno sempre più drammatiche. Un africano, preoccupato del suo sviluppo totale deve avere fiducia in se stesso. È dimostrato in modo chiaro e netto che non sono gli africani a essere venuti a sviluppare l’Europa; no di certo. Così non saranno neppure gli stranieri che verranno a risvegliare un’Africa sonnolenta, pigra e traditrice.
Riportiamo le nostre speranze nell’attuale fiorente generazione letteraria del Terzo Mondo.
Ma essa deve per forza parlare, se non vuole sparire, come ci ammonisce bene il congolese Sony Labou Tansi.
Una chiara, lucida analisi di Lunanga che precorre i tempi. Ci troviamo con l’UE confusa, divisa e un’Italia indebitata, con governi incapaci e senza idee, tanto meno sulla politica estera, che si accinge (da sola?) a fare che cosa per una nostra ex colonia quale la Libia? È un ricorso storico?
C.E.

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