Categoria: Politica (Pagina 1 di 4)

Il FEDERALISMO; modello scomodo alla politica italiana

Alla base di ogni forma di governo esistono ragioni provocatorie fondamentali che ne giustificano la nascita, lo sviluppo e l’affermazione. Userò un termine che va compreso nel suo vero etimo ma che la politica ha volgarmente denigrato e volutamente travisato: l’Etnismo.

Termine coniato, probabilmente, da François Fontan, (Fondatore nel 1959, del Partito Nazionalista Occitano e morto nel 1979, ad appena cinquant’anni).

Etnismo, come fenomeno permanente della nostra società, teso a rimettere in discussione i quadri geopolitici attuali, ed una loro indispensabile risistemazione.

Da decenni i politici italiani continuano imperterriti a voler testardamente confondere il razzismo con l’etnismo. L’enorme differenza è chiara e palese, ed è sufficiente un po’ di buon senso per capire: il razzismo è lo studio delle razze, mentre l’etnismo studia le etnie. Lo stesso etimo dei due termini è chiaro. Ma in questa drammatica decadenza di valori nell’attuale classe politica, parlare di etimologia, o di etimo, può essere scambiato per un tipo di pizza.

Etnismo, come espressione di rispetto sull’individualità dei gruppi, sulla lingua, sul diritto, sulla libera decisione, ed alla propria autonomia, nel valore intrinseco del termine.

Etnismo come fenomeno permanente della nostra società di individui attivi e pensanti e da tempo posto in un canto in nome di una innaturale pianificazione è pronto a rimettere in discussione i quadri geopolitici attuali e una loro necessaria risistemazione.

Questa necessità di autonomia che sta rinascendo nel paese dopo anni di silenzio, ha un richiamo potente dalla storia, essa ci ricorda la sua lontana origine politica nelle forme di governo oligarchiche e di potere fortemente accentrato che già avevano caratterizzato la formazione della Storia Costituzionale d’Italia.

Un pretesto Risorgimentale è stato ed è l’unificazione nazionale nata contro il volere del popolo e voluta intensamente dalla borghesia intellettuale per il proprio interesse economico e politico (vedere lo specchietto in coda: “I risultati del referendum istituzionale del 2 giugno 1946”, rilevato dal volume “Storia costituzionale d’Italia 1848/1948” del Ghisalberti”).

È sufficiente osservare la composizione della “Legge Elettorale” in Piemonte nel 1848 ove la Camera rispecchiava la struttura della Società Subalpina del tempo che, con il sistema elettorale fondato sul metodo “uninominale”, si era assicurata una sicura egemonia nel Parlamento e nel Paese.

Infatti la prima legislatura risulta composta in prevalenza da liberi professionisti, avvocati, uomini di legge, funzionari di Stato e magistrati, pochi gli ecclesiastici (cinque in tutto), ed una lieve presenza di proprietari di terre (trenta su 204 deputati). Questa visione di amministrazione statuale, uniforme, omogenea nei sui poteri e fortemente centralizzata, era di chiara origine giacobina. In parallelo era il netto rifiuto di ogni forma regionalistica, che determinasse un decentramento articolato delle funzioni statali, considerate allora, inalienabili. Era, inoltre, quasi inesistente il proletariato industriale e una forte voce di popolo in opposizione. Siamo nel 1848 e in questo contesto è facile immaginare le enormi difficoltà che dovette affrontare Carlo Cattaneo nel proporre alla cultura politica del tempo le sue avanzatissime idee di matrice regionalista e soprattutto federalista. Fu nettamente sconfitto ma lasciò una traccia indelebile di linea politica. La caratteristica peculiare del suo pensiero politico non è stata soltanto la lungimiranza ma la positività e il realismo facevano sì che il suo ragionamento arrivasse a conclusioni utili sia nella filosofia che nella storia, nell’economia e nella politica.

Il Cattaneo, fervente propugnatore dell’idea federalista, non fu comunque il primo a proporre questa nuova forma statuale. Il pensiero federalista ebbe la sua prima espressione nei fondatori degli Stati Uniti d’America alla fine del 700, ed Alexander Hamilton ne fu il più acceso sostenitore.

l testo della “Costituzione degli Stati Uniti” approvato dalla Convenzione di Filadelfia il 17 settembre 1787, è stato definito da Gladstone: “l’opera più meravigliosa che sia stata espressa in un dato momento dalle capacità progettuali dell’uomo”. Tuttavia, va rilevato che questo disegno non corrisponde alla volontà dei fautori di questa forma statuale. Essa fu un compromesso fra due posizioni politiche contrapposte; la corrente unitaria e la corrente particolaristica che voleva il rafforzamento della confederazione senza mettere in discussione la sovranità degli Stati. Questi compromessi diedero origine alla forma di organizzazione di potere politico idoneo al conciliare l’unità con l’indipendenza degli Stati.

Fu certamente grandissima la capacità politica intuitiva di questi uomini, considerando che a quell’epoca non era concepibile una forma di Stato diverso da quello unitario.

Perché rafforzamento e perfezionamento della confederazione? Perché essa è un’organizzazione incapace di superare l’anarchia. Ha la sostanza politica delle alleanze tra Stati, ed ha un organo permanente per affrontare problemi comuni che, però, non è subordinato agli Stati stessi e non è quindi capace di dominare le divergenti ragioni di Stato. Manca in sostanza un organo ufficiale, centrale di coordinazione posto al di sopra dei singoli interessi dei vari Stati e Nazioni.

Compito di grande difficoltà è l’unificazione politica di più Stati o Nazioni. Già in tempi remoti è dimostrato l’insuccesso dei tentativi effettuati per unificare le città Stato della Grecia classica e più vicino gli Stati regionali dell’Italia alla fine del XV secolo. L’unificazione dei governi e dei popoli ottenuta senza guerra è avvenuta una sola volta nella storia, ed è stata quella nata con la formazione degli Stati Uniti d’America. Tocheville, che aveva colto questa novità assoluta, ebbe a dire: “che un popolo lotti con estrema energia per conquistare la sua indipendenza è uno spettacolo che tutti i secoli hanno potuto mostrarci ma… ciò che è nuovo nella storia delle Società umane è il vedere un grande popolo volgere senza orgasmo e senza timore lo sguardo su sé stesso, sondare le profondità del male, raccogliersi per due anni interi al solo scopo di scoprirne con calma il rimedio e dopo averlo trovato, adottarlo volontariamente e senza che ciò costasse all’umanità, né una lacrima, né una goccia di sangue”. Indubbiamente una grande lezione di civiltà.

Il pensiero federalistico che, dagli Stati Uniti d’America ha avuto la sua naturale continuazione nell’ ideale (oggi scomparso) degli Stati Uniti d’Europa, ha sempre combattuto su due fronti che rappresentano due esigenze diverse: uno verso l’esterno nel superamento dello Stato Nazionale in una nuova forma di Stato di Stati tendenzialmente universale e “ultra/nazionale”, l’altro verso l’interno nella disarticolazione dello Stato nazionale unitario in una nuova forma di Stato di Stati in cui gli “Stati” non s’intendono enti sovrani degradati a parti di uno Stato più grande ma parte o territori dello Stato elevati a “Stati membri”. In sintesi: l’uno è l’unificazione di ciò che è disunito, l’altro è la disunione di ciò che è unito. Un pensiero molto importante che va compreso nella sua vera essenza.

Questi due aspetti della dottrina federalistica, pur richiamandosi l’uno con l’altro, non sono storicamente connessi. Vi sono federalisti su entrambi i versanti. Carlo Cattaneo sostenne con eguale convinzione sia l’idea degli Stati Uniti d’Italia che quella degli Stati Uniti d’Europa. Solo successivamente, in Cattaneo, prevalse poi l’idea della prima sulla seconda e questo in base alle risultanze delle sue esperienze socio-politiche.  Mazzini fu certamente un fautore degli Stati Uniti d’Europa e a lui si ispirarono gran parte delle Società democratiche per la pace, che nacquero nella metà del secolo scorso; ma non fu altrettanto per gli Sati Uniti d’Italia. Quindi l’idea dei due federalismi può non compenetrarsi nello stesso autore.

Anche gli eventi storici in cui nascono i due modelli di federalismo possono non essere gli stessi. Il federalismo “esterno” nesce prevalentemente da una crisi bellica, da una crisi internazionale, da una reazione ad un certo sistema di rapporti fra gli Stati sovrani. Il federalismo “interno” nasce invece prevalentemente da una crisi interna, dalla disgregazione di uno Stato accentrato, da forme di partitismo dispotico ed arrogante, dalla crisi del diritto.

Il federalismo interno è appunto l’argomento che ci interessa in modo più specifico.

In Italia dopo Carlo Cattaneo, vi fu una stasi nel propugnare dottrine federaliste e ciò a causa dell’ondata unitaria che investì il nostro Paese. Bisogna risalire al 1941 per risentire ventate di federalismo ma più come federalismo esterno che interno.

Il manifesto di Ventotene, elaborato da Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e Altiero Spinelli, venne presentato pubblicamente nel 1943. Presenta un compiuto progetto di “Federazione Europea” ma non vi è alcuna traccia di una eventuale riforma dello Stato Italiano in senso federalista, inoltre, ancora ai giorni nostri, si è mantenuto presso ché inalterata una costituzione superata e del tutto antitetica.

Eppure questa nostra travagliata patria è fondamentalmente federalista, la mancanza di un carismatico “volere di popolo”, non ha mai permesso questa sistemazione dei quadri geopolitici.

La sua stessa struttura fisica ne conferma indiscutibilmente la naturale necessità, non rendersene conto, per interesse politico o per altri motivi addotti da formule errate in politiche astruse, è folle.

È una penisola lunga 1200 Km. e questa lunga estensione di territorio comporta notevoli variazioni climatiche che influiscono fortemente nel carattere delle persone che vi abitano, nel loro sistema di vita, di lavorare, con altri costumi, culture e tradizioni. Il tutto comporta un grande spirito di adattamento per portare alla normalità e serenamente il percorso della vita di tutti i giorni. Un fattore importantissimo mai preso nella giusta considerazione, in quanto la movenza politica ha sempre mirato fortemente alla “pianificazione del gregge umano”, ovvero; zittire la vox populi. L’unificazione è stata un falso risorgimentale, in quanto imposta da una classe politica intellettuale e da una borghesia asservita al potere, in un particolare momento storico. Già Napoleone III trasse le sue conclusioni dicendo: “prima di parlare di unità d’Italia si deve pensare ad una unione di questi Stati, così differenti, in una unione federativa”.

I valori unitari creatisi con la “Resistenza”, annullati da un partitismo settario che ha posto in primo piano i propri interessi, dividendo irrimediabilmente il Paese in forme di classismo di diverso valore e peso. Queste nuove realtà che si sviluppano rapidamente e incalzano nell’Europa di oggi, ci trovano impreparati ad affrontare le violente ventate guerrafondaie che accelerano, come non mai, processi di involuzione politica. Processi che portano su strade pericolosissime; verso lo scontro armato.  Dobbiamo augurarci che le stesse armi europee fornite in modo così sconsiderato all’Ucraina, secondo i dettami di Joe Biden, non si rivolgano contro noi stessi.

E l’Italia? una repubblica allo sbando, immobile da ben oltre sessant’anni è la triste eredità lasciata da politiche unitarie predatrici e pianificatrici dì sinistra che, coadiuvate da un sindacalismo partitocratico, hanno fermato le industrie e il mondo del lavoro in qualsiasi settore di specialismo e competenza (follia pura la fuga della FIAT, senza un commento o una sola voce di protesta dal governo, dagli italiani, dai sindacati, come fosse successo nulla). Inoltre, tacciando l’artigianato, ricco di tecnicismo, capacità ed esperienza imprenditoriale e di modello per il futuro dei giovani, si è prodotto nel paese, in tempo di pace, un tale disastro, da creare una spaventosa crisi economica senza precedenti nella storia; e attenti; proditoriamente voluta e perfezionata da oscure forze revansciste.

Ne contempo nella scuola pubblica si scatenava un terremoto. A partire dai cosiddetti “Decreti Delegati del 1974” (tutt’ora in vigore), le sinistre, già pronte, si appropriarono indisturbate della gestione, dando inizio al grande e ambizioso progetto di “pianificazione” dell’insegnamento verso il basso a partire sin dall’infanzia, prestamente manipolata diminuendo e degradando l’istruzione e lo studio. Ebbene, tutti questi gravissimi fatti non sarebbero mai successi in uno Stato federale, ovvero, uno Stato di autonomie federate.

I debiti. Oggi il nostro paese, beneficia di cospicui prestiti di denaro europeo e il nuovo governo, che al momento, si mostra piuttosto tiepido nella realizzazione delle riforme; dovrebbe dare più concretezza ai fatti con meno chiacchere. Accelerare al massimo i lavori per uscire dal pantano in cui è fatalmente insabbiato è prevalente su tutto. Un debito enorme che ci rende asserviti a una Europa pericolosamente impreparata ad affrontare con il giusto approccio ed esperienza parlamentare, folli guerre, mostrando atteggiamenti più che altro mirati alla “solidarietà”. Intanto, in un’aura di falso pacifismo, si forniscono armi provocando migliaia e migliaia di morti; una vergogna. Questa è pura demagogia: non si gioca con la morte. Noi l’abbiamo vissuta nel passato da molto, molto vicino.

È un’antica, luttuosa storia che si ripete costantemente da millenni e sempre drammaticamente inutile: allora, chi vuole le guerre? C’è veramente un Dio che ci protegge?

Siamo sotto scacco; il fatidico ”ombrello” americano è alle prese con un Presidente (Joe Biden), guerrafondaio e per nulla all’altezza del pesante e delicato ruolo che a lui compete, costui ci sta trascinando verso l’irreparabile. L’attendismo europeo non serve, forse è troppo tardi ma si deve trovare a tutti i costi un percorso parlamentare di vere trattative mirate alla pace con la Russia, una realtà oramai inevitabile. Inoltre non dimentichiamo che l ‘Europa non è neppure uno Stato e tanto meno una Federazione, non solo, non ha mai veramente voluto esserlo; le consultazioni popolari fatte qualche decennio fa lo hanno chiaramente dimostrato. La formula federativa per una vera ’Europa Federale non è più differibile, o saremo sempre soggetti al potere economico e militare di altri.

Alla buonora; questo immobilismo che ci connota deve essere rimosso ed il nostro pensiero non può che rivolgersi a quell’apostolo infaticabile ed indimenticato che fu Carlo Cattaneo nel promuovere l’autonomia politica e non soltanto amministrativa delle regioni, riunite tutte nell’idea federale.

Ma non dobbiamo dimenticare Silvio Trentin, un grande fra i federalisti, non solo un teorico ma un uomo attivo, d’azione. I suoi scritti sono il nocciolo teorico del suo pensiero. Scritti fra il 1935 – 1943, anni in cui fascismo e nazismo colpivano le libertà individuali, egli propugnava con forza e coraggio le sue idee. Il libro “Federalismo e libertà”. Scritti teorici 1935 – 1943 di Marsilio Editori è un volume che tutti i cittadini e non solo i federalisti dovrebbero leggere.

È indispensabile il superamento del “pregiudizio” formalistico proprio della nostra generazione ed operare un mutamento radicale di opinione sul tema di una nuova forma di Stato.

L’organizzazione di uno Stato moderno non può essere connotato dal partitismo e dal sindacalismo ma dal federalismo, vale a dire dall’autonomia di tutti i centri di vita collettiva esistenti all’interno del gruppo che esso coordina. Federalismo e Stato delle autonomie sono quindi concetti scambiabili.

La futura costituzione della repubblica italiana dovrà basarsi sul principio di autonomia e questo processo evolutivo rappresenterà il trionfo integrale del federalismo.

Mancano ancora molti particolari istituzionali nei disegni di costituzione ma il progetto di uno Stato come quello federale, costituito da autonomie progressivamente ascendenti sia territoriali che professionali verso l’ente maggiore che le regola senza comprimerle, era già delineato da Gianfranco Miglio in alcuni volumi pubblicati negli anni ’90 ma ancora oggi più che mai, attuali.

In sintesi la federazione aggiunge, alla divisione funzionale del potere legislativo, esecutivo e giudiziario, la divisione sostanziale del potere tra due livelli di governo sovrani ciascuno nella propria sfera: quello dello Stato federale e quello degli Stati federati, tutti a base democratica.

Per concludere, la relazione tra i due livelli di governo della federazione, non è dunque di livello gerarchico tra superiore ed inferiore ma un rapporto di coordinazione tra poteri indipendenti.

 

Carlo Ellena

Risultati referendum istituzionale 2 Giugno 1946

Risultati referendum istituzionale 2 Giugno 1946

 

Condividi questo articolo

La pulce e gli elefanti

Marzo 2022

Macron e Joe Biden (ricordi il ’62 a Cuba?), usate sagge parole, non armi e morte.

E lei Papa, esca dal suo castello e in nome del suo Dio mostri il petto alla guerra.

Fermate Draghi, in nome di Dio! Con quest’uomo avremo solo lutti e miseria.

E lei signor Draghi, se è un uomo responsabile,

Lusisti satis, edisti atque bibisti: / tempus abire tibi est

Orazio, Epistole, II, 2, 214-15

Menzione; Emmanuel Macron è stato votato, Joe Biden è stato votato, Boris Johnson è stato votato. Mario Draghi non è stato votato e il parlamento italiano è abusivo, esiste per un colpo di mano d Mattarella, il quale ha ribaltato l’esito delle votazioni del 2018. Questo significa che dopo circa un secolo, al popolo è estorta la “sovranità popolare”.

Ieri (a casa nostra)

Notte del 13 luglio 1943. È stato il più devastante dei bombardamenti a tappeto su Torino. Il suono assordante e tetro delle sirene che risuonava minaccioso nella notte accompagnava la fuga della gente per raggiungere di corsa i rifugi (che erano semplici cantine di stabili civili ancora indenni dalle bombe). Ritornano e rivivono oggi i ricordi agghiaccianti un uomo di 84 anni che sente sulla pelle il brivido freddo della paura nel pericolo assurdo di una nuova guerra assurda.

Torino C.so Giulio Cesare angolo Corso Brescia – Bombardamento del 13 luglio 1943

Gli ultraottantenni rammentano bene che a Torino, la Barriera di Milano era (si, era, perché oggi non esiste più) il cosiddetto “Borgo operaio”, per il poderoso concentramento di industrie, officine, fabbriche, laboratori e stabilimenti FIAT. Era l’area tatticamente presa di mira dai bombardamenti aerei degli alleati, per cui, causa la stretta vicinanza con le abitazioni civili, le bombe, che cadevano a grappolo, non facevano alcuna distinzione e la distruzione era quasi totale (vedasi le due immagini). Ebbene, incuranti del pericolo i cittadini della barriera non fuggirono e non abbandonarono mai le loro abitazioni. Cessato il “coprifuoco” rientravano nelle loro abitazioni, a volte ridotte quasi a ruderi, evitando, in buona parte, le scorribande dei facinorosi, lo sciacallaggio e i ladri. Era gente dura, coraggiosa e proteggeva a tutti i costi la propria casa. C’erano inoltre anche le milizie Repubblichine e le Camice nere del Fascio che presidiavano le strade, per cui bisognava muoversi con molta circospezione, poiché costoro sparavano a vista, senza indugio.

Foto di impiccati a Torino nel ’43, vittime di rastrellamenti e rappresaglie

Foto di impiccati a Torino nel ’43, vittime di rastrellamenti e rappresaglie

A fine guerra, lentamente, la vita riprese con fatica, riparando i danni alle abitazioni, aiutandosi, a volte anche nell’azienda devastata in cui era impellente riprendere il lavoro. Sono stati anni difficili e faticosi; poi la lenta ricostruzione con gli aiuti del Piano Marshall e decenni di pace e lavoro. Ma il passato non si dimentica e non si cancella.

 

Torino Via Aosta – Bombardamento del 13 luglio 1943

A proposito del Piano Marshall mi vien bene accennare a un fatto importante, ossia «Quando Epicarmo Corbino nel 1945/46 “in stretta e fattiva collaborazione” con Luigi Einaudi varò l’adesione dell’Italia agli accordi di Brettonwoods, denunciò la nuova parità della lira con il dollaro a 230 lire e conseguentemente con l’oro, proseguì la politica di liberalizzazione del commercio.  Nel maggio del 1947, dopo l’allontanamento delle sinistre dal governo e quando la situazione precipitò, con il dollaro a 430 lire e poi a 600, Einaudi divenne ministro del Bilancio, con funzione di vicepresidente del consiglio dei ministri del quarto governo di Alcide De Gasperi. Nell’agosto del 1947 il “sistema delle riserve minime obbligatorie”, già applicato all’estero con successo, doveva rivelarsi un valido argine all’espansione inflazionistica. Fu la proposta di Einaudi, che trovò forte opposizione con rilevantissimi interessi e rischiò l’impopolarità “assegnando alla stabilità della moneta la priorità sull’espansione economica e riuscì in un anno ad arginare l’inflazione e a stabilizzare la lira”. L’indice generale dei prezzi all’ingrosso che, nel luglio del 1947, era di circa 58 volte quello del 1938, nel dicembre del 1947 era caduto a 47 volte, Il disavanzo del bilancio dello Stato, che nel 1945/46 aveva raggiunto i 1.130 miliardi di lire (a potere 1951) era ridotto a 363 miliardi. Dopo quattro anni, tutti questi risultati importanti furono acquisiti ancora prima che venisse messo in atto il Piamo Marshall». (Tratto da “Luigi Einaudi di Gianni Marongiu, Editore ECIG”).

 

Oggi

Le guerre? Esisteranno sempre e sempre per lo stesso motivo: l’inscrutabile stupidità e inattendibilità dell’uomo. Egli stesso è poi l’artefice dei propri errori che paga troppe volte con il sangue di altri uomini, ovvero di coloro che non hanno colpe: la gente comune. Essa ha vissuto e vive ogni ora, ogni giorno, impotente gli eventi passati e il dramma di quelli presenti, quindi il suo severo giudizio di condanna è obiettivo, veritiero e insindacabile, semplicemente perché è esperienza di vita vissuta, voluta e subita sulla propria pelle, per volontà di altri.

La situazione di oggi ci pone in gravissimo allarme. Un rapido, quanto inaspettato ribaltamento della politica europea e americana verso la Russia, avventato e poco chiaro, è tale da non giustificare una guerra non dichiarata ma con migliaia di morti.

Avevamo ascoltato parole come diplomazia, mediazione, prestamente cancellate dai capi di Stato europei, per una tardiva coscienza della realtà, da improvvisazione e da una manifesta inesperienza che genera l’incapacità di trovare a tutti i costi vie diplomatiche. Una verità vergognosamente palese ma nascosta e taciuta da tutti i mezzi d’informazione e da fiumi di bla bla bla delle TV.

È molto facile, anzi troppo facile far leva sui sostantivi PACE e SOLIDARIETÀ secondo la bellicosa faciloneria europea. Tutti contro Putin ma costui non è uno sprovveduto, tutt’altro. Ne vedremo ben donde.

Non dimentichiamo che se i paesi dell’Europa, in generale, sono pressoché autosufficienti per il fabbisogno energetico di gas, petrolio, carbone, centrali nucleari e quant’altro, l’Italia importa quasi tutto, per non dire tutto. Questa costumanza, che si trascina da sempre per calcoli imprevidenti, data anche la pochezza di generazioni di uomini politici del passato, ribalta, com’è solito, il costo sui cittadini italiani che pagheranno un prezzo spaventosamente alto. Sono già arrivate le prime bollette con costi ben oltre il raddoppio. Cosa ci aspetta in futuro? Vedremo cosa farà l’acume del nostro Presidente del Consiglio.

Questo stato di cose, trova il nostro paese, già da anni in profonda crisi economica, coinvolto in queste assurde ritorsioni che ci costeranno l’inimicizia della Russia, la quale provvederà, o a già provveduto a sua volta, al taglio delle forniture energetiche all’Italia, che sono pari al 75/80% circa, per cui siamo allo smarrimento totale.

Pesa inoltre sugli italiani, questa forma imposta di falso pietismo solidale che accoglie, oltre alle frotte di extracomunitari che seguitano ad arrivare, migliaia di profughi in fuga dalla guerra Ucraina; il tutto con costi spaventosi. Ormai l’Italia è stata trasformata in un centro di accoglienza permanente privo di regole; c’è, inoltre, lo sfruttamento insistente, ossessivo di richiesta fondi al cittadino e ancora più vergognoso è l’abuso mediatico delle TV nel mostrare bambini gravemente malati, storpi e distrofici mediante decine di postulanti televisivi ambigui e posticci che agiscono in nome di dubbie associazioni umanitarie, sulle quali un’inchiesta sarebbe, alla buon’ora, indispensabile.

Purtroppo la nostra economia allo sfascio ci mostra un paese completamente abulico, passatista, imbelle, mentre il governo, formato dagli stessi componenti della sinistra responsabile del fallimento trentennale della loro politica, che è concausa della crisi, fa il paio con una pletora di politici europei impreparati ad affrontare questa terribile situazione. Ebbene, costoro ci stanno rapidamente portando allo stato di guerra trasformando Russia e Europa, in uno sconfinato scacchiere in conflitto; una vera follia.

Immediata viene alla mente la crisi dei missili di Cuba in cui, in quel tragico ottobre del ’62, fummo sull’orlo di una guerra nucleare fra Stati Uniti e Russia, i cui attori principali furono Castro, Kennedy e Kruscev e le loro rispettive compagini di governo. Questi uomini si mostrarono saggi, malgrado le differenti ideologie politiche e la crisi si concluse in tredici giorni di intense, frenetiche trattative condotte sul filo del rasoio ma senza uso delle armi e fu l’inizio dell’invisibile guerra fredda.

Ritornando all’oggi, si dice che è finita da tempo “la guerra fredda” ma le mire espansionistiche (nascoste in malo modo) da quelle che “sembra” siano le due o tre parti sono parse evidenti agli occhi increduli dei soli sciocchi. La prima ad aprire il fuoco è stata la Russia. C’è tuttavia un interrogativo: perché? La domanda merita una pur breve spiegazione.

 

L’Ucraina oggi.

L’Ucraina è un o Stato indipendente dal 1991, confina con la Bielorussia, Polonia, Slovacchia, Ungheria, Romania, Moldavia e la Federazione Russa che è il più vasto stato del mondo.

È un’enorme territorio da sempre in continuo fermento a seguito della dissoluzione dell’Unione Sovietica. L’instabilità è dovuta da coloro che parteggiano per la vicina Unione Europea e la controparte è quella fedele al legame storico con la Russia.

Nel 2013 il presidente ucraino Viktor Yanukovych rifiuta di firmare l’accordo di libero scambio con l’Unione Europea. Il paese è in rivolta; immediate e violente le proteste di piazza dei filo-occidentali e gli antirussi, Dopo tre mesi e un centinaio di morti, la rivolta si conclude con la fuga di Yanukovych.

Non passa un mese che l’Ucraina perde un altro pezzo del proprio territorio: Nel marzo 2014 la Russia annuncia la secessione della Crimea dall’Ucraina e la sua annessione alla Russia.

La regione del Donbass, nell’Est dell’Ucraina, segue a ruota l’esempio della Crimea, scatenando una guerra civile nelle province di Donetsk e Lugansk, che si autoproclamano repubbliche indipendenti (si tratta delle due repubbliche riconosciute da Putin nel discorso di pochi giorni fa). Nel febbraio 2015, con l’accordo detto Minsk II, si giunge a un cessate il fuoco ma gli impegni assunti in quel momento non vengono del tutto rispettati dalle parti, con la conseguenza che il conflitto prosegue di fatto ininterrottamente fino a oggi.

Su tutta questa situazione incandescente si innesta il progressivo allargamento a Est della Nato (a eccezione degli Stati dell’ex Jugoslavia, tutti i paesi entrati nell’Alleanza Atlantica dal 1990 a oggi erano parte dell’Unione Sovietica o legati a essa dal Patto di Varsavia: parliamo di Lettonia, Lituania, Estonia, Polonia, Romania, Bulgaria, Repubblica ceca, Slovacchia, Ungheria). È il timore da parte della Russia che l’Ucraina possa entrare a far parte del Patto atlantico: una prospettiva inaccettabile per Putin che avrebbe così gli americani sul portone di casa.

(Tratto da un articolo di Ingrid Colanicchia del 24 febbraio 2022).

«Tuttavia, per chiarezza, a tutt’oggi non vi sono ancora certezze riguardo alle relazioni tra Ucraina e UE nel prossimo futuro. Nel marzo 2016, il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha dichiarato che ci vorranno almeno 20-25 anni perché l’Ucraina aderisca all’UE e alla NATO. Attualmente, la nazione è solamente membro della Politica di Vicinanza Europea».

 

Una valutazione personale.

Putin è Presidente della Federazione Russa al suo quarto mandato. È un uomo intelligente e un politico di grande esperienza anche per il suo passato al kgb, dove era definito “affidabile e disciplinato”. Una possibile debolezza militare dell’Europa e il problema ucraino possono averlo spinto a un’azione decisa per far capire alla stessa Europa e alle Nazioni Unite di non “sconfinare” con azioni di propaganda inappropriata; la risposta intimidatoria dell’occidente può averlo sorpreso. Chissà, forse qualche migliaio di morti gli servivano per far capire le sue intenzioni all’Occidente.

 

Storia pregressa.

In geografia il continente europeo comprende anche la Russia europea e più precisamente: la Russia (ufficialmente Federazione Russa) è uno Stato transcontinentale che si estende per un quarto in Europa e per tutto il resto in Asia ed è il più vasto Stato del mondo. La Russia europea occupa circa il 30% dell’Europa.

Nella storia politica non è così e nel nostro caso, bisogna risalire al Congresso di Vienna del 1814 – 1815, nel quale si discussero i nuovi confini politici degli Stati dopo il “terremoto” Napoleone Bonaparte e dove si mise in discussione “il principio di legittimità” del Vecchio Regime sancito nel tempo dalle monarchie. In sostanza il Congresso formulava proposte per ricomporre in qualche modo il potere dei vecchi regnanti. Chi tentò di mettere ordine nel vuoto istituzionale europeo e non solo, creatosi dopo il “terremoto”, fu Charles Maurice Talleyrand de Périgod, principe di Benevento. Lo storico e scrittore politico Guglielmo Ferrero (1871 – 1942 autore del libro, “Il Congresso di Vienna 1814-1815 Talleyrand e la ricostruzione d’Europa”) sostiene che l’Europa “fu ricostruita dalla saggezza e dall’intuizione di tre grandi personaggi: Alessandro I, Zar di Russia, Luigi XVII, re di Francia, e soprattutto da Talleyrand. Questi uomini salvarono un intero continente minacciato dal rischio di un’interminabile guerra e la loro non fu una semplice “restaurazione” ma la ricostruzione, con materiali vecchi e concetti nuovi, dell’edificio politico europeo. Il percorso fu arduo e complesso.

[1]«Nei diversi stati europei la “restaurazione” avvenne con modalità differenti. In Spagna fu abolita la costituzione, in un regime di ferrea restaurazione monarchica; in Prussia si tornò a un rigido assolutismo ma con l’intervento di importanti riforme, tra cui quella dell’esercito; l’Austria di Metternich respinse ogni idea di riforma, instaurando un regime di controllo poliziesco; nel Granducato di Toscana fu ripristinato il Codice leopoldino, mentre nel Regno di Sardegna venne restaurato l’assolutismo, con l’appoggio del potere ecclesiastico; la repressione caratterizzò il Regno delle Due Sicilie; il papato riaffermò il suo potere,  venne ricostruita  la Compagnia di Gesù e vennero presi provvedimenti contro gli ebrei, accompagnati tuttavia da un programma di riforme; in Francia Luigi XVIII concesse la Carta che riconosceva l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, garantiva la libertà individuale e l’inviolabilità della proprietà privata. La Carta attribuiva al re tutti i poteri, erano istituite due camere con modeste facoltà di effettivo intervento, in cui però iniziarono a prendere forma i partiti politici, a seconda del proprio orientamento ideologico. Tuttavia risulta evidente che la restaurazione in Francia non causò un declino dell’attività civica, il dispotismo di Napoleone era ora soppiantato da libertà e diritti. Il concetto di restaurazione veniva quindi introdotto al fine di troncare ogni velleità rivoluzionaria, nel segno della ricostruzione dei poteri monarchici per la salvaguardia delle nazioni, una spinta controrivoluzionaria vista come necessaria per ridurre il disordine sociale e la sovversione.

La stabilità politica tra gli stati europei instaurata con il Congresso di Vienna durò effettivamente fino al 1914 ma il limite di questo accordo internazionale fu quello di cercare di riproporre un modello precedente, senza tenere in debita considerazione alcuni aspetti fondamentali. Innanzitutto con l’affermazione del principio secondo cui lo stato era di proprietà del sovrano si esplicava la sostanziale negazione del concetto di nazione, fatto che andava inevitabilmente a scontrarsi con le istanze nazionaliste e indipendentiste presenti sul territorio, si pensi ad esempio la dominazione austriaca nel Lombardo-Veneto. Secondariamente il tentativo di ritorno alla vecchia normalità non teneva conto degli inevitabili mutamenti culturali che nel frattempo avevano preso forma nelle coscienze europee, proprio in conseguenza della molteplicità degli accadimenti e della loro portata. Inoltre tra gli stati non consideravano le spinte sempre crescenti in ambito commerciale, che in qualche maniera necessitavano di interferire con le scelte politiche. L’Europa e l’Italia dunque si trovavano in un momento cruciale. Crescevano le istanze liberiste ma l’economia era ancora prevalentemente agricola. Il successivo formarsi di una borghesia industriale e commerciale, consapevole del proprio ruolo all’interno della società, favorì l’affermarsi di posizioni liberali, quale l’idea di sovranità popolare e l’esigenza di governi di stampo repubblicano che garantissero la certezza del diritto e l’eguaglianza formale tra i cittadini.

Nel 1815 fu siglata anche la Quadruplice Alleanza tra Russia, Prussia, Austria e Gran Bretagna al fine di vigilare contro i possibili tentativi di rivincita francesi e contro sommovimenti rivoluzionari che potessero minacciare l’equilibrio europeo. La Russia, da par suo, era una potenza demografica e militare ma sostanzialmente ancora arretrata economicamente ma non stava di certo, solo a guardare. Tutti questi avvenimenti e sforzi non riuscirono comunque a fermare i moti rivoluzionari che dopo pochi anni agitarono nuovamente l’Europa e che, in Italia, portarono al Risorgimento».

Sergio Romano, nella nota introduttiva del libro di Ferrero fa un’attenta riflessione sui tempi attuali: «Ferrero morì nell’agosto del 1942, otto mesi dopo l’ingresso degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale, se fosse vissuto più a lungo avrebbe certamente salutato nella politica di Harri Truman e nel piano Marshall una “ricostruzione” non meno importante di quella a cui Talleyrand e Alessandro avevano lavorato fra il 1814 e il 1815. Per contenere l’espansione dell’Unione Sovietica e impedire che l’ideologia comunista contagiasse le società dell’Europa occidentale i vincitori rinunciarono ai sentimenti di rivalsa e si impegnarono nella ricostruzione dell’ordine europeo. Il “principio di legittimità” in questo caso fu una accorta combinazione di fattori diversi: l’integrità degli Stati (la Germania fu dimezzata per ragioni indipendenti dalla volontà dell’America), la democrazia, la promessa di una crescente prosperità e la prospettiva di una federazione europea. Per fortuna “i Talleyrand” del secondo dopoguerra furono molti: Truman, il generale Marshall, Jean Monnet, Robert Schuman, Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi, Carlo Sforza. Quando Ricostruzione apparve per la prima volta in italiano, il 10 aprile del 1948, l’Italia erta alla vigilia delle elezioni che avrebbero permesso di partecipare, di pieno diritto, a tale processo».

È stata una lunghissima battaglia iniziata con fatica con il Trattato di Pace del 30 maggio 1814 e infine con la deposizione definitiva e l’esilio di Napoleone Bonaparte a Sant’Elena. Eventi che segnarono la fine dei continui conflitti fra le monarchie; dispute che per secoli hanno provocato solo morte e distrutto monumenti e paesi.  Ma fu solo una breve pausa, altri conflitti erano dietro la porta.

[1] Brani tratti da uno scritto di Monica Monici.

 

Eventi di guerra passati: “La guerra di Crimea 1853 – 1856”.

Per ricordare la storia ma in un contesto molto diverso, c’è un fatto relativo a “La guerra di Crimea” che riguarda l’intervento Sardo Piemontese. Nel 1854 la Francia e l’Inghilterra propongono al Regno Sardo Piemontese di aderire alla Coalizione contro la Russia. Vittorio Emanuele II e Cavour vedono un’opportunità in una futura guerra contro l’Austria che domina il Lombardo Veneto. Cavour è appoggiato dal Re, la proposta viene ampiamente discussa e il 26 gennaio 1855 viene firmata la Convenzione con Francia e Inghilterra, Cavour fa il suo intervento con foga e il 10 febbraio la Camera approva il Trattato di Alleanza. Il 14 aprile parte da Genova per l’imbarco un Corpo di Spedizione forte di 17 mila uomini. Dopo circa due anni di guerra, Il 16 marzo 1856 si firma in Crimea l’armistizio per la cessazione delle ostilità.

Il 6 maggio 1856, Cavour, alla Camera dei Deputati, rende conto dell’opera svolta al tavolo della pace. Il vero successo di Cavour fu che, da quel momento, il Piemonte diviene lo stato guida dei movimenti patriottici italiani nella lotta contro l’Austria per ottenere l’indipendenza; si assicura inoltre definitivamente l’aiuto di Francia e Inghilterra nella politica antiaustriaca.

La guerra di Crimea pose basi per un’altra guerra; quella del 1914-1918 contro l’Austria.

L’ultima guerra, in ordine di date, è quella del 1939-1945 (Ma pare non sia ancora finita).

 

Ancora l’Ucraina oggi. 

In Ucraina gli eventi si sono succeduti rapidissimi e nella fretta si son fatti troppi errori nelle scelte politiche verso la Russia per mancanza di volontà e esperienza in diplomazia estera. Il pacifismo non basta per coprire gli errori con la “solidarietà alla Ucraina” da un lato e un viatico dall’altro a fornire armi; un palese controsenso. Gli italiani, pacifisti stolti e immaturi aiutano tutti ma con denari prestati, quindi un debito che “deve” essere pagato, perdendo per strada la drammatica realtà del loro paese.

I rapporti Italia / Russia sono stati ottimi per decenni, anzi noi compriamo (oggi “compravamo”) da Putin circa il 75/80% del nostro fabbisogno energetico (il gas soprattutto), con la politica delle ritorsioni alla Russia, messa in atto dagli Stati Uniti e dall’Europa, Italia compresa, si denomina e concretizza questa politica in un’Unione Europea, che non è, nei fatti, neppure Nazione. Tuttavia agisce con governo franco/tedesco (e Regno Unito?) che parla tardivamente e impropriamente di diplomazia dopo le provocazioni al russo Putin il quale, da politico navigato ha risposto da par suo con le bombe, in fin dei conti la Russia è casa sua. Situazione che spiegata in modo semplice e comprensibile, è una guerra in cui; prima si spara e poi si bussa alla porta.

Orbene, riporto in toto un articolo su ITALIA OGGI di Tino Oldani del 22 febbraio 2022.

Lo scoop è apparso in larga misura su molti quotidiani e su Internet, quindi è di dominio pubblico ma il mondo politico italiano e europeo lo hanno completamente ignorato.

 

Lo scoop di Der Spiegel sull’impegno Nato di non espandersi a Est si basa su un verbale desecretato, che dà ragione a Putin.

« I lettori di Italia Oggi sono stati i primi, in Italia, e essere informati circa le vere origini delle tensioni politiche e militari tra la Russia di Vladimir Putin e la NATO sulla questione Ucraina. Con editoriali e articoli scritti in base ai fatti e non con la propaganda, il direttore Pierluigi Magnaschi e firme autorevoli come Roberto Giardina e Pino Nicotri hanno ricordato, unici in Italia, che dopo la caduta del Muro di Berlino (1989) i leader dei maggiori paesi della Nato avevano promesso a Mosca che l’Alleanza atlantica non sarebbe avanzata verso Est «neppure di un centimetro». Una promessa smentita dai fatti, visto che da allora ben 14 paesi sono passati dall’ex impero sovietico all’alleanza militare atlantica. Da qui le contromosse di Putin: la guerra in Georgia, l’occupazione della Crimea, l’appoggio ai separatisti del Donbass, lo schieramento di oltre centomila soldati al confine con l’Ucraina, infine la dura linea diplomatica con cui ha ribattuto alle minacce di sanzioni da parte di Usa ed Ue: «Mosca è stata imbrogliata e palesemente ingannata».

Per tutta risposta, il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha ripetuto quella che per anni è stata la linea difensiva di Washington sull’allargamento a Est della Nato: «Nessuno, mai, in nessuna data e in nessun luogo, ha fatto tali promesse all’Unione sovietica». Una dichiarazione smentita dal settimanale tedesco Der Spiegel con uno scoop clamoroso, destinato a lasciare il segno. L’inchiesta, intitolata «Vladimir Putin ha ragione?» e ripresa integralmente negli Usa da Zerohedge, si basa su un’ampia ricostruzione storica dei negoziati tra Nato e Mosca che hanno accompagnato la fine della guerra fredda.

Tra i documenti citati, spicca per importanza quello scovato nei British National Archives di Londra dal politolo americano Joshua Shifrinson, che ha collaborato all’inchiesta del settimanale tedesco e se ne dichiara «onorato» in un tweet. Si tratta di un verbale desecretato nel 2017, in cui si dà conto in modo dettagliato dei colloqui avvenuti tra il 1990 e il 1991 tra i direttori politici dei ministeri degli Esteri di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania sull’unificazione delle due Germanie, dopo il crollo di quella dell’Est. Il colloquio decisivo, riporta Der Spiegel, si è svolto il 6 marzo 1991 ed era centrato sui temi della sicurezza nell’Europa centrale e orientale, oltre che sui rapporti con la Russia, guidata allora da Michail Gorbaciov. Di fronte alla richiesta di alcuni paesi dell’Est Europa di entrare nella Nato, Polonia in testa, i rappresentanti dei quattro paesi occidentali (Usa, Gran Bretagna, Francia e Germania Ovest), impegnati con Russia e Germania Est nei colloqui del gruppo «4+2», concordarono nel definire «inaccettabili» tali richieste. Il diplomatico tedesco occidentale Juergen Hrobog, stando alla minuta della riunione, disse: «Abbiamo chiarito durante il negoziato 2+4 che non intendiamo fare avanzare l’Alleanza atlantica oltre l’Oder. Pertanto, non possiamo concedere alla Polonia o ad altre nazioni dell’Europa centrale e orientale di aderirvi». Tale posizione, precisò, era stata concordata con il cancelliere tedesco Helmuth Khol e con il ministro degli Esteri, Hans-Dietrich Genscher.

Nella stessa riunione, rivela Der Spiegel, il rappresentante degli Stati Uniti, Raymond Seitz dichiarò: «Abbiamo promesso ufficialmente all’Unione Sovietica nei colloqui 2+4, così come in altri contatti bilaterali fra Washington e Mosca, che non intendiamo sfruttare sul piano strategico il ritiro delle truppe sovietiche dall’Europa centro –orientale e che la NATO non dovrà espandersi al di là dei confini della nuova Germania né formalmente né informalmente».

È innegabile che questo documento scritto conferma alcun i ricordi di Gorbaciov circa le promesse da lui ricevute, ma soltanto orali, sulla non espansione a est della NATO. I un’intervista sul Daily Telegraph (7 maggio 2008), Gorbaciov, ultimo leader dell’Unione Sovietica, disse che Helmuth Khol gli aveva assicurato che la NATO «non si muoverà più di un centimetro a EST». Identica promessa aggiunse un‘altra occasione, gli era stata fatta dall’ex segretario di Stato Usa James Baker, il quale però smentì, negando di averlo mai fatto. Eppure, ricorda Der Spiegel, anche Baker fu smentito a sua volta da diversi diplomatici, compreso l’ex ambasciatore USA a Mosca, Jack Matlock, il quale precisò che erano state date «garanzie categoriche» all’Unione Sovietica sulla non espansione a EST della NATO. L’inchiesta del settimanale aggiunge che promesse dello stesso tenore erano state fatte a Mosca anche dai rappresentanti britannico e francese.

La storia degli ultimi trenta anni racconta però altro: Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, ricorda Der Spiegel, sono entrate nella NATO nel 1999, poco prima della guerra contro la Jugoslavia, Lettonia, Lituania ed Estonia, confinanti con la Russia, lo hanno fatto nel 2004. Ora anche l’Ucraina vorrebbe fare altrettanto. Il che ha scatenato la reazione di Putin: «La NATO rinunci pubblicamente all’espansione nelle ex repubbliche sovietiche di Georgia e Ucraina, richiamando le forze statunitensi ai confini del blocco del 1997». La prima apertura è giunta dal cancelliere tedesco, Olaf Scholz; «L’ingresso dell’Ucraina nella NATO non è in agenda». Parole che confermano la prudenza della Germania verso Putin e l’importanza strategica del Nord Stream 2 per la sua economia. Se alla fine sarà pace o guerra, dipenderà dal vertice Biden-Putin, agevolato da Macron. Un vertice dove Biden, nonostante la martellante propaganda anti-Putin delle ultime settimane, entra indebolito da uno scoop che riscrive la storia. Un’inchiesta così ricca di documenti finora inediti da far pensare all’aiuto di una manina politica, in sintonia con la Spd di Scholz, partito da sempre filorusso».

Conclusione

L’Europa ha vissuto in pace gli ultimi ottant’anni e ora tutto si ripropone pericolosamente, causa la mancanza di uomini d’esperienza, vissuti e ricchi d quei valori che rendano l’uomo degno di essere tale. La situazione ci mostra, purtroppo, individui potenti, con alte cariche di responsabilità ma immaturi e incapaci di muoversi nella misura più consona, atta a trattare e risolvere con senno e senza violenza l’insieme degli attuali, gravi, accadimenti. Il percorso attale non ha sbocchi e denota una vaga e distorta visione di un futuro che sta causando solo danni irreparabili, distruzione e morte.

 

Carlo Ellena

 

 

Condividi questo articolo

Ieri, oggi, domani; ma quale futuro?

Quando la prima peluria ha iniziato ha invadermi il viso, avevo già l’idea di immaginare la vita su questa terra come un viaggio. Ricordo che questa fantasiosa interpretazione ha avuto origine nel lontano 1951, quando da ragazzo seguivo affascinato i racconti avventurosi di un missionario salesiano che aveva girato il mondo in lungo e in largo. Quest’uomo era Don Saino; un personaggio veramente straordinario, nostro insegnante di francese all’Istituto Salesiano “Michele Rua”, la scuola di avviamento professionale che allora frequentavo in Via Paisiello a Torino, la mia città.

Di tanto in tanto, raccontando le sue avventure, era solito dire: “ragazzi, la vita su questa terra è un meraviglioso viaggio, sta a voi trovare la giusta strada”. Per noi ragazzi allora tredicenni, queste parole potevano essere un po’ vaghe e poco comprensibili, invece, chissà perché, divennero un chiodo fisso nella mia mente. Col trascorrere degli anni spesso rammento quella frase, in quei momenti si fa vivo il ricordo e rivedo nitido quel volto barbuto ma sereno, buono, del mio maestro: il missionario Don Saino.

È come una forte sensazione che lui, nell’inconscio, mi suggerisca che è giunto il momento di volgersi indietro.

In senso figurato, immaginiamo un uomo che lungo il suo cammino si segga sul bordo del sentiero non per stanchezza, ma per osservare la strada percorsa. Chiudere gli occhi e lasciarsi andare in un fantastico viaggio nella memoria del tempo, nel nostro passato e via via correre col pensiero sino ai giorni nostri in una rapida cavalcata. Noi, “giovani”, ormai ottantatreenni, ci rendiamo ben conto di quale tumultuoso ma straordinario periodo storico abbiamo vissuto. Soltanto nel 1938 (anno della mia nascita) si udiva ancora l’eco del disastro del dirigibile Hindenburg, accaduto nel maggio dell’anno precedente e attraverso un viaggio immaginario, vivere il travolgente progresso della tecnica, soffrire per una guerra terribile, poi la ricostruzione e infine la lenta rinascita del paese distrutto.

Con una corsa a perdifiato negli anni, ci troviamo costretti a vivere con i ritmi di un tempo che corre sempre più veloce; tant’è che quasi per magia, le distanze nel mondo diventano un semplice giro di compasso. Ebbene, tutto questo in “appena” settant’anni: non è straordinario? I nostri anni giovanili sono stati anni intensi, vissuti, certo, entro le nostre possibilità e capacità ma da protagonisti, anni liberi per imparare, acquisire coscienza della nostra realtà e costruire con il lavoro il nostro futuro.

Trovare gli stimoli per migliorare noi stessi e contribuire, fiduciosi, al benessere della nostra patria cita (piccola patria), coraggiosi e fiduciosi nell’esporsi e infine orgogliosi di essere parte vitale di un paese tutto spinto verso il futuro. Libertà di agire e concretezza nei fatti, ma anche versatilità, fantasia, capacità di sognare ad occhi aperti e tante possibilità per realizzare i propri sogni.

Tutto questo esisteva nel vecchio modello di società.

Sono aspetti scomparsi nel nuovo modello che oggi ci propongono; è come la faccia vuota di una medaglia, con nulla impresso. Oggi tutto è sfuggente, per nulla chiaro, pensiamo al senso della parola, “globalizzazione”; termine, ormai di costume ma orribile, che ci dà l’idea dell’immenso, di qualcosa che sfugge al nostro controllo, ma in definitiva, che cosa significa? che la nostra patria è il mondo e che in qualche punto sperduto del medesimo qualcuno ci offre lavoro, sicurezza, serenità?

Una comunità universale pianificata tutta uguale, certa di nascere di vivere e morire non si sa come. Poche volontà occulte con poteri immensi che mirano al dominio mondiale? È folle immaginare simili eventualità ma purtroppo il dominio è in fase di avanzata realizzazione proprio davanti agli occhi semichiusi di cittadini che la politica ha insegnato loro a essere abulici e inerti.

Siamo immersi in un mondo virtuale costruito da false immagini, da ragazzi, da uomini e donne che quasi giocano premendo pulsanti, da leggi, regolamenti, orari, norme e regole assurde che ci suggeriscono in modo distorto cosa dire e cosa fare, come sarà il tempo, cosa mangeremo, quale sarà il nostro lavoro, che, con l’attuale “menar il can per l’aia” non ci sarà più, poiché questo noioso impegno è ormai ignorato, o quasi, nell’inconscio collettivo delle nuove generazioni.

Tutto è profondamente mutato, ma non nelle forme sperate.

Nella ricerca affannosa di conquiste apparentemente facili abbiamo perso per strada quei valori che ci rendono esseri pensanti e non automi o un composto di formule chimiche. Ai giorni nostri c’è la paura reale e diffusa per un futuro senza costrutto, mancante di una base seria che proponga progetti credibili, il tutto, purtroppo, in un contesto statuale politico inconsistente, disorganico, financo pericoloso, in quanto produce soltanto precarietà e malessere. Stiamo attenti e vigili; questa condizione annuncia disordini che, se protratti ancora nel tempo possono sfociare in ben altro.

Molto diverso rivedo il giovanotto di un tempo, che con sogni e speranze era pronto a sconvolgere il mondo, libero di lavorare, fare sport, studiare o di uscire sereno e senza paure la sera con la ragazza, con gli amici, di passeggiare in riva al fiume, di volere un futuro radioso, di avere tanti figli, insomma, vivere la vita come una magnifica avventura.

I sogni per molti di noi non si sono poi del tutto realizzati, ma quanto abbiamo avuto, impegnandoci nel lavoro e nello studio, è stato ugualmente appagante. Oggi i più giovani potranno avere e dire altrettanto? Ebbene, riprendiamo nuovamente a sognare, a usare la fantasia, a ribellarsi al quotidiano, a raccogliere ogni briciola del nostro tempo e viverlo appieno giorno per giorno e sopra ogni cosa, riappropriarci della nostra storia, della nostra cultura e identità e infine della nostra vita, traendone insegnamento e facendone tesoro.

 

Fermiamo l’attimo fuggente, non lasciamo che passi e svanisca.

Immaginarsi di fermare nel tempo l’attimo fuggente è come una sequenza di emozioni senza fine, un’eternità in un battito di ciglia, un gioco mentale di autosuggestione.

È affascinante pensare l’innaturale e avvertire forte la sensazione che lo scorrere del tempo non è misurato sul quadrante di un orologio, o sul nascere o tramontare del sole, ma dall’intensità in cui un uomo vive ogni attimo della propria vita. La concezione del tempo può avere una sua variabile a seconda delle situazioni che di volta in volta siamo coinvolti, o in fatti particolari vissuti in un arco temporale più o meno lungo della nostra vita. Ad esempio: l’ora passata furtivamente con la donna amata può trascorrere in un attimo, mentre l’attimo d’attesa per la nascita di nostro figlio si trasforma in ore, o come il corso della vita di due amici; l’uno chiuso in un ufficio, e l’altro intento a viaggiare o scalare le montagne di mezzo mondo; il rapporto del medesimo spazio-tempo trascorso dal primo sarà immensamente più breve del secondo. L’uno nell’attesa che termini in fretta la giornata, l’altro invece vorrebbe che non finisse mai. È pur vero che questa è solo una forma di autosuggestione e che tutto avviene in tempo reale, ma l’immaginazione ha un potere immenso e ai nostri occhi la vita dell’uno può apparire ben più lunga dell’altro, anche se poi in realtà è solo più “vissuta” dell’altro. Ma il gioco mentale è invero allettante e ci piace pensare e credere che il tempo è quello che noi vogliamo che sia, fluttuando nell’infinità misteriosa dello spazio cosmico.

Foto del 1951, all’oratorio e scuola Michele Rua; a Torino. Ragazzi liberi, spensierati e con un futuro, che, come il gioco delle “gamale”, oggi non c’è più.

10 dicembre 2021

Griboja

 

Oratorio e scuola Michele Rua

Oratorio e scuola Michele Rua, Torino – Bambini che giocano

 

Condividi questo articolo

25 ottobre 2021

Il discorso è tratto da un opuscolo che precisa: Estratto da Mondo Occidentale n° 86, luglio-agosto 1962. In calce, UNITED STATES INFORMATION SERVICE ROMA.

Titolo dell’opuscolo:

Indipendenza e interdipendenza- di John F. Kennedy

 

Indipendenza e interdipendenza di John F. Kennedy

Philadelphia 4 luglio 1962

In occasione delle celebrazioni per la ricorrenza del 186° “Independence Day”, il presidente John F. Kennedy ha pronunciato a Philadelphia, nel vasto spiazzo davanti all’edificio della Independence Hall, dove il 4 luglio del 1776 venne firmata e proclamata la famosa “Dichiarazione d’Indipendenza” delle tredici colonie americane originarie, un discorso di vasta apertura e significato storico di cui riproduciamo il testo.

Per qualsiasi cittadino della nostra grande Repubblica è un alto onore parlare in questa “Hall of Independence” in occasione della «Giornata dell’Indipendenza». Parlare come Presidente degli Stati Uniti ai Governatori dei nostri 50 Stati è, al tempo stesso, un’opportunità e un impegno. La necessità di una solidarietà operante tra il Governo nazionale e i vari Stati è un insegnamento incancellabile della nostra storia.

Poiché il nostro sistema mira a incoraggiare sia la diversità che il dissenso, poiché i “controlli e contrappesi” di cui esso è fornito sono intesi a preservare i diritti dell’individuo e dell’amministrazione locale contro il parere dell’autorità centrale, voi ed io ci rendiamo entrambi conto di come dipendiamo gli uni dagli altri per quanto riguarda il buon funzionamento della nostra eccezionale e felice forma di governo. Il nostro sistema e la nostra libertà permettono che occasionalmente il Potere Legislativo si trovi a misurarsi con l’Esecutivo, lo Stato con il Governo Federale, la città con lo Stato, la Provincia con la città, un partito con un altro partito, dati interessi con altri interessi, tutti in competizione o in contesa l’uno con l’altro. Il nostro compito – il vostro nel Palazzo del Governo degli Stati, il mio alla Casa Bianca – è di interesse da tutti questi intricati stami una trama di leggi e di progresso, Altri possono limitarsi ai dibattiti, alle discussioni e a quel supremo lusso che è l’esprimere liberamente il proprio parere.  Ma la nostra è una responsabilità di decisione, ché governare è scegliere.

Pertanto, in senso molto concreto, voi ed io siamo gli esecutori del testamento che ci è stato tramandato da coloro che qui ci riunirono in questa storica sede 186 anni or sono. Essi si riunirono, infatti, per apporre la loro firma a un documento che era, principalmente, un documento non di retorica ma di audace decisione. Era, è vero, un documento di protesta ma anche in precedenza erano state formulate proteste. Esso enunciava con eloquenza le loro rivendicazioni ma anche prima si era udita una eloquenza del genere. Quello che distingueva tale pezzo di carta da ogni altro era – tuttavia – la decisione estrema, irrevocabile che essi avevano presa e così veniva sancita: di affermare l’indipendenza come Stati liberi di quelle che erano state colonie e di consacrare a questo scopo le loro vite, i loro averi e il loro sacro onore.

Oggi a 186 anni di distanza, quella Dichiarazione – la cui pergamena ingiallita e i cui caratteri sbiaditi, quasi illeggibili, ho riesaminato la settimana scorsa agli Archivi di Stato – è tutt’ora un documento rivoluzionario. Rileggerla oggi è come ascoltare uno squillante appello di tromba. Ché tale Dichiarazione dette il via non solo una rivoluzione contro gli inglesi ma ad una rivoluzione nelle umane vicende. I suoi autori erano profondamente consapevoli delle sue ripercussioni mondiali; e George Washington ebbe a dichiarare che la libertà e l’autogoverno in ogni parte del mondo erano «in definitiva legati all’esperimento affidato alle mani del popolo americano».

Questa profezia si è avverata per 186 anni. Questa dottrina dell’indipendenza nazionale ha sconvolto il globo e tuttora rimane la forza più poderosa ovunque esistente nel modo di oggi. Ci sono uomini che lottano per strappare una grama esistenza ad una terra amara e che non hanno mai udito parlare della libera iniziativa, eppure essi hanno cara l’idea dell’indipendenza. Ci sono uomini alle prese con formidabili problemi di analfabetismo e di igiene e che non sono attrezzati per indire libere elezioni, eppure essi sono fermamente risoluti a mantenere la loro indipendenza. Persino coloro che non vogliono o non possono partecipare ad una lotta tra l’Est e l’Ovest, sono risolutamente dalla parte dell’indipendenza. Se c’è un problema che oggi divide il mondo, è quello dell’indipendenza: l’indipendenza di Berlino o del Laos o del Vietnam, l’anelito all’indipendenza, al di là del sipario di ferro, il pacifico passaggio all’indipendenza in quelle regioni oggi in fase di ascesa, le cui difficoltà taluni cercano di sfruttare. La teoria dell’indipendenza – antica quanto l’uomo stesso – non fu inventata in questa sede. Ma è qui che tale teoria venne tradotta in pratica; è da qui che venne diffuso in tutto il mondo il verbo che «quel Dio che ci ha dato la vita ci ha dato al tempo stesso la libertà». E oggi questa nazione – concepita nella rivoluzione, nutrita nella libertà, maturata nell’indipendenza – non ha alcuna intenzione di abdicare alla sua funzione di guida in questo movimento mondiale per l’indipendenza a vantaggio di qualsiasi nazione o società dedita ad una sistematica oppressione.

Per quanto vitale e applicabile sia oggi questa storica Dichiarazione d’Indipendenza, faremmo tuttavia bene a rendere onore anche all’altro storico documento che venne stilato in questa stessa sede: la Costituzione degli Stati Uniti. Ché esso sottolineò non l’indipendenza ma l’interdipendenza, non la libertà individuale del singolo ma libertà indivisibile di tutti.

Nella maggior parte del vecchio mondo coloniale, la lotta per l’indipendenza sta ora giungendo al suo termine. Anche nelle zone al di là del sipario di ferro, quello che Jefferson chiamava: «il male contagioso della libertà», sembra ancora oggi diffondersi. Col tramontare di antichi imperi, oggi meno del due per cento della popolazione mondiale vive in territori ufficialmente definiti “dipendenti”. E mentre questo sforzo per l’indipendenza – informato allo spirito della Dichiarazione americana – si avvicina ad una felice conclusione, un grande, nuovo sforzo –  quello per l’interdipendenza – va trasformando il mondo intorno a noi. E lo spirito che informa questo nuovo sforzo è quello dello stesso spirito che dette origine alla Costituzione americana.

Questo spirito si manifesta oggi nella maniera più evidente al di là dell’Oceano Atlantico. Le nazioni dell’Europa Occidentale, a lungo divise da lotte intestine ben più aspre di quelle che mai si produssero fra le tredici Colonie, si stanno ora unendo insieme e cercano, come cercarono i nostri padri, di trovare la libertà nella diversità e la forza nell’unità.

A questa vasta impresa gli Stati Uniti guardano con speranza e ammirazione. Noi non consideriamo un’Europa forte ed unita come un rivale, bensì come un socio ed amico. Aiutarne il progresso è stato uno degli obiettivi fondamentali della nostra politica estera da diciassette anni a questa parte. Riteniamo che un’Europa unita sarà in grado di svolgere una più grande funzione della difesa comune, di rispondere più generosamente ai bisogni delle nazioni più povere, di unirsi agli Stati Uniti e ad altri paesi nel ridurre le barriere commerciali, risolvere i problemi di carattere monetario e merceologico, ed elaborare direttive coordinate in tutti gli altri settori economici, diplomatici e politici. Noi vediamo in un’Europa del genere un socio col quale poter trattare su una base di piena eguaglianza in tutti i grandi e onerosi compiti concernenti l’edificazione e la difesa di una comunità di nazioni libere.

Sarebbe prematuro, in questo momento, far qualcosa di più che manifestare l’alto valore che attribuiamo e la soddisfazione con la quale vedremo il formarsi di questa associazione. La prima cosa in ordine di tempo è che i nostri amici europei proseguano nello sforzo per creare quella perfetta unione che un giorno renderà questo possibile.

Un grande, nuovo edificio non può essere costruito da un giorno all’altro. Dalla Dichiarazione d’Indipendenza alla stesura delle Costituzione trascorsero undici anni. La costruzione di istituti federali efficienti richiese ancora un’altra generazione. Le opere maggiori dei fondatori della nostra nazione non consistono di documenti e dichiarazioni, bensì in un’azione creatrice e risoluta. La costruzione della nuova casa dell’Europa ha seguito questo stesso corso pratico e determinato. L’edificazione dell’Associazione Atlantica non potrà essere compiuta a buon mercato o con facilità. Ma desidero dire, in questa sede e in questa giornata dell’Indipendenza, che gli Stati Uniti si terranno pronti per una Dichiarazione di Interdipendenza, che noi saremo preparati a discutere con un’Europa Unita i modi e i mezzi per costituire una concreta associazione atlantica, un’associazione de reciproco vantaggio tra la nuova Unione che va ora formandosi in Europa e la vecchia Unione americana che venne qui fondata poco meno che due secoli fa.

Tutto questo non sarà portato a termine nel giro di un anno ma che il mondo sappia che questa è ora la nostra meta.

Nel sollecitare l’approvazione della Costituzione, Alexander Hamilton invitò i suoi concittadini dello Stato di New York a «pensare in termini continentali». Oggi gli americani debbono imparare a pensare in termini intercontinentali. Operando da soli non possiamo instaurare la giustizia in tutto il mondo. Non possiamo garantirne la tranquillità interna, o provvedere alla sua comune difesa, o promuoverne il benessere generale, o assicurare le benedizioni della libertà a noi stessi e alla nostra posterità. Ma uniti ad altre nazioni libere, potremo fare tutto questo e ancora di più. Potremo aiutare le nazioni in fase di sviluppo e scuotere il giogo della miseria. Potremo equilibrare i nostri scambi e pagamenti mondiali al più alto livello possibile d’incremento. Potremo costituire una forza deterrente sufficientemente poderosa per scoraggiare qualsiasi aggressione. E, infine, potremo contribuire alla realizzazione di un mondo basato sulla legge e sulla libera scelta, ponendo al bando il mondo della guerra e della coercizione.

Ché l’Associazione Atlantica di cui parlo non si chiuderebbe in sé stessa, preoccupandosi solo del proprio benessere e del proprio progresso. Essa deve guardare anche all’esterno, ad una collaborazione con tutte le nazioni per soddisfare i comuni interessi. E fungerebbe da nucleo per una futura unione di uomini liberi, quelli già liberi oggi e quelli che hanno fatto voto di esserlo un giorno.

Nella ricorrenza del genetliaco di Washington, nell’anno 1861, Abraham Lincoln, allora Presidente eletto, durante il viaggio che lo avrebbe portato nella capitale della nazione si fermò a parlare in questa sede. E rese un breve ma eloquente tributo agli uomini che avevano stilato la Dichiarazione d’Indipendenza ed avevano combattuto ed erano morti per essa. La sua assenza, egli disse, consisteva nel fatto che essa racchiudeva una promessa non solo di libertà «per il popolo di questo paese ma di speranza per il mondo…speranza che a suo tempo tutti gli uomini potessero essere liberati dai loro fardelli e tutti potessero godere di uguali possibilità».

In questo 4 luglio 1962, noi che siamo riuniti in questo stesso luogo – e cui sono affidati la sorte e il futuro degli Stati Uniti e della Nazione – solennemente assumiamo ora l’impegno di fare quanto sta in noi per liberare tutti gli uomini del loro fardello, di unirci agli altri uomini e alle altre nazioni per preservare sia la pace che la libertà e di considerare qualsiasi minaccia alla pace o alla libertà di un solo come una minaccia alla pace e alla libertà di tutti. E a sostegno di tale dichiarazione, con ferma fiducia nella protezione della Divina Provvidenza, noi offriamo reciprocamente in pegno gli uni agli altri le nostre vite, i nostri averi e il nostro sacro onore.

John F. Kennedy

 

Commento.

L’Europa e l’Italia pongano mente e memoria a questo discorso, mai come in questi tempi, così attuale. L’oscurantismo che manifesta la politica tutta in quest’ultima fase storica, è l’alimento che nutre, avvelena e uccide il liberalismo e la democrazia, che, pur nella loro imperfezione, noi, uomini e donne del popolo, vi abbiamo creduto operando con fervore e lavorando sodo dal dopo guerra sino ad una decina d’anni or sono; poi il cronico ripetersi di crisi economiche e in ultimo, il terrore imposto per coprirle, ci ha reso sfiduciati e posto in difesa a oltranza.  

In questi drammatici frangenti il discorso è rivolto soprattutto all’Italia politica, la quale “pare” si sia persa, nel malcostume, la volgarità, l’ignominia e l’improvvisazione, che si sposa con l’incapacità, oggetto e causa dell’infimo livello dell’attuale “casta” di politicanti (e non solo) che, senza distinzione alcuna, governano il paese soltanto per cupidigia di potere, sovvertendo la volontà espressa democraticamente del popolo; non dimentichiamolo. Una vergogna che non ha pari.

Carlo Ellena

Il presidente Kennedy dinanzi alla “Campana della libertà” a Philadelphia

Condividi questo articolo

Immunità di gregge

È l’ultimo elegante appellativo “tecnico” affibbiato ai cittadini italiani dall’ultimo governo, ovvero dal nuovo Messia con i suoi apostoli e predicatori della sinistra italiana, oggi allargata per costituire l’amletico “partito unico”. Partito sostenuto con gran vigore dall’esercito dei dipendenti RAI con i suoi commentatori ben pagati ma scarsi di mestiere; da una pletora di pseudo giornalisti da scrivania; da troppi medici ospedalieri titolati “anticovid” più o meno ricattati dal governo e i vari ruffiani che pascolano servili e cerimoniosi nei vari settori dello sterminato apparato pubblico dello Stato.

A ben vedere è una nomea non del tutto errata a costatare il comportamento garrulo e ciarliero del gregge, mascherato a dovere da fantasiose mascherine (come dispone il decreto legge) e per nulla preoccupato del suo futuro, di quello dei giovani e del paese che li mantiene (ad oggi si calcola che circa il 68% degli italiani sono dipendenti a stipendio fisso nelle centinaia di strutture che lo Stato ha messo in piedi per motivi di voto politico).

E che dire delle centinaia di associazioni pseudo/umanitarie che giornalmente, in TV, chiedono denaro ai cittadini? Perché non aprire un’inchiesta per scoprire la destinazione di quel denaro?

Mi pregio di dilungarmi un tantino sul significato di “gregge”; chiedendo scusa ai dotti italianisti.

Nel dizionario Garzanti il sostantivo gregge è così definito: gruppo numeroso di pecore o altri ovini guidato, o custodito da un pastore; gran numero di persone adunate; in linguaggio religioso, da millenni sono i fedeli guidati spiritualmente dal clero; moltitudine di persone prive di iniziativa e di autonomia, pronte a ubbidire o approvare senza discutere; distinguersi dalla massa.

Nelle millenarie bibbie, il sostantivo gregge è correntemente usato dando interpretazioni a volte poco chiare. Nel vangelo di Giovanni è la pericope del buon Pastore.

Ce né per tutti i gusti, tuttavia chi ha proposto questo sostantivo dimostra poca dimestichezza con l’intelligenza, tantomeno nel mestiere ‘d savèj fé ‘n politica.

Tutto codesto scavare alla ricerca dell’etimo di una parola, da un senso o un significato di cosa realmente è il corpus di un popolo (nell’oggetto, italiani) nel pensiero politico dalla nostra illustre, ancorché abusiva, compagine di governo, il cui comportamento opera in toto fuori dalla condizione di gravità in un paese in perenne crisi e che s’illude essere in democrazia. Un pensiero che, supposto che nasca da un gruppo italiano d’individui pensanti e che sia tradotto da costoro in azioni politiche mirate a manovrare la produzione di vaccini, siringhe, ampolle, attrezzatura varia e pure l’andamento pilotato della pandemia a piacere nel tempo, con centinaia di migliaia di morti endemici; ebbene, credo che costoro meritino una pena perlomeno proporzionata alle loro responsabilità tuttora impunite.

Tutta l’estrema precisione matematica con cui, ora per ora, è stato reso pubblico alle TV il decorso del COVID sugli infetti ricoverati e sui morti, ha dell’incredibile, considerando il caotico disordine esistente da almeno un quarantennio nel settore sanitario, inoltre, non vi sono parametri di comparazione con il passato. Teniamo ben presente, ed è un fatto importante, che per il tempo precedente l’attuale epidemia, non esistono dati circa la situazione dei casi d’influenze e i loro decorsi più o meno gravi, tanto meno i casi mortali. Possiamo ipotizzare con una certa variabile, che quasi ogni famiglia abbia avuto almeno un membro influenzato curato dal medico di famiglia a casa propria. Onde per cui, il periodo che viviamo e moriamo è terrificante ma c’è un ma grande come un universo; a causa della disorganizzazione in cui la Sanità si è trovata ad affrontare; una situazione di estrema urgenza e gravità. Peggio ancora è che l’improbabile governo precedente e quello di quei giorni, abbia cavalcato con sinistra pervicacia la situazione, addossando al virus la gravissima crisi occupazionale già in atto da decenni in Italia, sulla quale c’è un silenzio a dir poco, reboante.

Ormai il nostro paese è in continuo stato di deliquio, ed è follia morire tragicamente per un cinico atto politico che produca fortune e denaro a miliardi per qualche finanziere pazzo, anche se siamo quasi giunti alla fine della festa.

L’autocrate che esercita il potere sul gregge a suon di decreti colorati, blocca di fatto tutto un paese che da troppi anni non lavora o lavora poco producendo quasi nulla. Pare che il virus, sia un prodotto da laboratorio, creato col proposito di scatenare un’epidemia, poi pandemia, chissà, forse per un tragico errore o sfuggito al controllo. Una situazione che inculca terrore e che uccide molto più dei fucili, in un sordido clima d’inganni e tradimenti, complice anche la chiesa guidata da un Papa, un piccolo prete comunista. Dire anarchia oggi è eufemistico, siamo oramai in un clima di latente rivolta. Tuttavia su quest’orrenda tragedia il dubbio permane, forte, ed è più che giustificato; mi si dia atto che queste ipotesi non sono affatto campate in aria.

L’Italia non produce più benessere da almeno un ventennio, causa governi incapaci di produrre trend positivi in ogni settore del mondo del lavoro, anzi, si è fatto tutto l’opposto e si costatano i pessimi risultati. E l’attuale governo ha rivendicato una tragica continuità rispetto ai precedenenti governi della sinistra che non hanno mosso dito per operare alla tutela di quel che rimane della fabbrica che produce seriamente lavoro.

Il Piemonte è stato un settore principe in economia dello sviluppo, dando benessere a tutta l’Italia.

Industrie, fabbriche, medie e piccole aziende, libere imprese, dove ancora operano sparuti gruppi di abili operai, tecnici, specialisti e artigiani trattati quale esecrabile manovalanza.

Tutto un mondo produttivo importante, che dipende in tutto e per tutto dalla manualità operaistica e artigianale creato con capacità e determinazione in due secoli e in soli pochi lustri portato volutamente dalla politica sulla via dell’estinzione in nome di un ipotetico settore dei servizi, quale il decantato “turismo” e la ristorazione, dove mestano rubicondi cuochi impegnati soprattutto a vendere casseruole e cucine personalizzate.

Dare a piene mani il denaro prestato, non serve a nulla, è una carità temporanea senza ricarica, che non ha futuro, poiché dopo queste generazioni non più giovani di lavoratori, di specialisti e artigiani, c’è il vuoto assoluto, quindi, nessuna cultura del lavoro da tramandare e soprattutto, nessuna certezza per il domani.

Nell’essere lavoratori nel settore artigianato, dobbiamo intendere l’artigiano moderno, ai giorni  nostri visto come soggetto politico, poiché con l’industrializzazione qualcosa è cambiato; attrezzi, materiali, condizioni e sistemi di lavoro; è giusto seguire i tempi ma non il modo di essere, la passione nel lavorare, l’uso delle mani, che è il modo più antico, che si perde nella notte dei tempi per produrre “lavoro” come accezione. Penso sia utile un breve accenno di storia:

il termine artigiano deriva dal latino artifex, che è formato da due vocaboli: ars e fare, cioè fare arte. Lo stesso significato i greci intendevano con il termine demiourgos, che aggiunge qualcosa al significato complessivo; il termine greco si scompone in demos e ergon, ossia opera popolare. Quindi demiourgos significa colui che lavora per il pubblico, colui che esercita una professione per il pubblico. La radice di ars è il verbo aro che corrisponde al nostro arare, identico al greco aroo.

Poiché fin dagli albori della civiltà l’arare è stata una delle prime forme in cui l’uomo ha espresso il proprio intervento sulla natura, tale attività è passata, per uso metonimico, a indicare il lavoro in genere. Tale accezione è presente nel latino ars, che racchiude una varietà di significati: mestiere come professione ma anche come scienza, regole che precisano l’esercizio di un mestiere; attitudine a compiere una professione, con la conseguente acquisizione della “maestria”; infine, un modo di essere di chi è avvezzo alla pratica di un mestiere. L’arte non era un aspetto sopraggiunto ma era sentita come dote, anzi come indole propria, coltivando la quale, l’apprendista conseguiva un’abilità che lo portava a diventare maestro “master”. Per conseguire questo risultato, doveva passare attraverso una lunga pratica di esercizi, un apprendistato; era “iniziato”, edotto gradualmente sulle regole e i segreti del mestiere, che riceveva con la consegna di tacerli. L’artigiano che praticava un mestiere aveva la propria consegna, quasi un forziere da non aprire ma da cui trarre l’arte.

Artifex: fare arte servendosi del sapere e le mani erano lo strumento con cui modellavano e modellano tuttora l’opera, un mondo che sta scomparendo e la nuova Italia ne avrà ben donde.

 

Da un’indagine dell’Unione Artigiana-Confartigianato di Torino e Provincia.

Categorie iscritte albo imprese artigiani nel quinquennio 1995/2000.

01) Meccanica 6.390
02) Auto moto cicli 4.261
03) Galvanici 298
04) Installatori 7.345
05) Abbigliamento 3.728
06) Tessitura 251
07) Cuoio e calzature 773
08) Orafi e orologiai 503
09) Parrucchieri e affini 5.081
10) Arti ausiliarie SANIT 1.129
11) Legno 2.545
12) Arredamento giardino 899
13) Progettisti 62
14) Vetro e ceramica 389
15) Grafici 1.411
16) Fotografi 644
17) Strumenti musicali 39
18) Trasporti 6.731
19) Edili 9.026
20) Pittori decoratori 2.477
21) Materie plastiche 403
22) Varie 4.364
23) Chimici 162

Il numero dei lavoranti artigiani fa parte dell’indagine ascritta soltanto per dare un’idea sulla consistenza degli occupati in quegli anni ma è esclusa dall’attuale ricerca, poiché essa si basa, nello specifico e in modo molto sintetico, sulle imprese artigiane ancora esistenti e sul grado di ammodernamento dei vari settori o categorie, per la rapida, enorme evoluzione tecnico-scientifica tuttora in corso.

Nel 2021 si calcola che si sia perso circa il 38% delle categorie indicate, causa la crisi politica incombente da troppi, troppi anni.

Partiamo dal sistema impiantistico idraulico, sanitario, termico ed elettrico nei nuovi edifici in costruzione nell’edilizia. Materiali, sistemi di lavorazione e attrezzatura idonea per una posa in opera corretta, tutto è completamente diverso da appena un quindicennio fa. Un meccanico d’auto, alzato un cofano motore, oggi si trova di fronte a problemi irrisolvibili per riparare un guasto, tanta è l’elettronica, non solo nel motore ma in tutta l’auto, per cui bisogna rinnovarsi e imparare l’uso di una nuova attrezzatura, ovvero: il computer.

A ben vedere, in pratica, sono fattori che coinvolgono quasi tutte la categorie artigiane, poiché il modernismo e la specializzazione corrono su binari paralleli. È un’ulteriore spinta, un invito per l’artigiano intelligente a coniugare la tradizione e l’arte dei “magister”, ovvero il “mestiere”,  con il  sapere scientifico.

Questo è l’intento ma sono solo parole al vento se non seminate su un terreno fertile nel quale crescere una robusta impalcatura che funga da nuovo, grande edificio in cui il “lavoro” e la “scuola” siano le basi future per questo povero paese dormiente che sarà, alla luce dei fatti, sempre più indebitato, povero e servo se non si sveglia. Da questo signor Draghi ci aspettiamo per le imprese il peggio del peggio. Costui e il suo governo sono orientati a trasformarci un paese turistico, che pensa con il ventre e tutto sommato, zuzzurellone; che bel futuro si sta approntando per l’italietta europea!

 

Una frase che si sente ripetere dai solerti commentatori RAI “Il presidente è al lavoro nella stesura dei nuovi decreti”; ovvero, le variabili colorate a pastello delle regioni italiane date dal caos esistente nelle  percentuali numeriche dei contagiati. Andamento che ha uno sviluppo altalenante, calcolato in misura approssimativa dalla somministrazione del vaccino; milioni di ampolle di cui non sappiamo nulla sul contenuto e che va inoculata a tutti costi,  poiché dev’essere consumata, in quanto deve crescere l’industria farmaceutica del vaccino “anticovid” e i vari componenti, quali; tamponi, siringhe, mascherine e tutto il corredo utile per eternare l’infezione, anche se oggi siamo passati al colore regionale giallo ma con milioni di volti cittadini “gialloverdi” dalla rabbia.

Il tradimento perpetrato alle votazioni del 2018, da parte del signor Mattarella e del PD, con la complicità della Merkel palesa i fatti. A costoro poco o nulla interessa la salute dei cittadini: somministrare a tutti il vaccino è ciò che conta nella cruda realtà; questi individui stanno preparando (ma è già pronta) una sorta di schedatura con un codice sui vaccinati, una sorta di provvedimento adottato a suo tempo dai nazisti nei confronti degli ebrei; siamo a questi livelli?

A questo punto anche Salvini e Berlusconi, alleati e ormai assoldati nel crogiolo del partito unico, riceveranno la loro paga, i trenta denari. Nei fatti l’opposizione è composta, forse dalla sola signora Meloni, donna decisa e siamo con lei ma stia attenta, sono molto potenti e s’inventeranno qualunque cosa per zittirla, è il loro subdolo metodo.

Intanto gli italiani stanno immobili a guardare, mentre la RAI trasmette, martellante, su tutte le reti, con una faccia tosta senza eguali, gli spot sulla favola dell’eccellenza italiana (i milioni di disoccupati?) e alla fine, vada come vada, festeggerà comunque in grande pompa nel prossimo Sanremo Festival le rovine del paese tra urla e parolacce, volgarizzando il bel canto e la buona musica.

Nel primo dopoguerra, finito precocemente il “miracolo economico italiano”, grazie soprattutto ai dollari del Piano Marshall ma anche dalla gran voglia di rinascita e ripresa degli italiani; ebbene, in circa un decennio gli effetti positivi cessarono, causa una sorta di folle guerra sindacale scatenata dai comunisti nelle grandi fabbriche (Brigate rosse e altri), che aveva coinvolto, nella cruda realtà, tutto il mondo del lavoro che, con fasi alterne nel corso dei decenni trascorsi, oggi volge verso un tragico epilogo, nonostante l’alibi del Covid.

Vittorio Ghidella

Vittorio Ghidella
Immagine tratta da www.quattroruote.it

 

Vale la pena accennare sul come, nella brevità storica di qualche decennio, si sia potuto distruggere, nel senso più tragico del termine, un secolare sistema industriale piemontese costruito con fatica e sudore, da una cinica, criminale, classe politico-bancaria complice della sinistra italiana, in nome del solo profitto ad ogni costo.  Una biblioteca non basterebbe per raccontare queste storie ma sono parole scritte nell’acqua; gli italiani e soprattutto i piemontesi se ne infischiano.

Il Piemonte, privato della sua egemonia industriale, è stato, suo malgrado, concausa di grave danno per il resto del paese, tuttavia ha delle responsabilità, anche se in parte giustificate dalla morte di alcuni importanti eredi di famiglie titolari di grandi industrie e di altri giovani rampanti, rivelatisi manager incapaci, colpevoli di irreparabili iniziative fallimentari.

Comunque è bene evidenziare, che il colpo ferale inferto a questi “gioielli” dell’industria piemontese in quel periodo dinamico e fiorente, sono stati uomini, che per circa un ventennio hanno fatto “terra bruciata” di importanti industrie che si erano sviluppate a livello mondiale.

Costoro, senza essere industriali d’esperienza ma finanzieri e banchieri, avevano messo le mani su queste industrie indebitate e bisognose di liquidità ma la visione dei professionisti della finanza sullo sviluppo di queste industrie era prettamente economico, ovvero; creare profitti riducendo drasticamente i costi materiali e umani che sono poi i dipendenti; in sostanza, spolparle, ridurle all’osso, per poi abbandonarle al loro destino.

Una visione allucinante, mancante di piani d’investimenti atti alla crescita e allo sviluppo, anzi, si panificava la chiusura di alcuni settori della progettazione, con licenziamenti e spostamenti di personale altamente specializzato in altri settori, persino in altri stabilimenti, con mansioni non di loro competenza, creando problemi insormontabili ai tecnici ma soprattutto nella produzione. In conclusione tutto aveva come obiettivo il profitto a qualunque costo.

Un sistema che può essere riassunto in una celebre frase: “meno auto più finanza”, detta da un principe dei banchieri; Cesare Romiti, l’uomo che fece quasi fallire la FIAT. In antitesi a l’ingegner Vittorio Ghidella, costui lo fece dimettere, poiché era un ostacolo alla sua carriera. L’ingegnere è stato il creatore della Uno, la Thema, la Y10, la Croma, la 164, tutte auto di grande successo per la FIAT. Alla fine il buon Romiti ha ricevuto, alla sua uscita dal gruppo, una  gratificata “buona/uscita” di ben 105 miliardi di lire.

Ma il potente Cesare Romiti, o meglio la famiglia Romiti, aveva le mani in pasta anche in altre grandi aziende. Maurizio Romiti, figlio di Cesare, teneva i rapporti con Marco Rivetti, di Val Cervo, titolare dell’importante gruppo GFT (Gruppo Finanziario Tessile).

Spirito di gruppo. Gft, storie di moda e di costumi, ma soprattutto di persone

Spirito di gruppo. Gft, storie di moda e di costumi, ma soprattutto di persone
Edizioni Sottosopra

Gruppo GFT (Gruppo Finanziario Tessile).

Il gruppo, nel 1992, con i suoi 70 anni di vita e che comprendeva i marchi Facis, Marus e Cori, travolto dai debiti, era finito in una convulsa girandola di vari Istituti finanziari e banche. Marco Rivetti, malato, si era trovato al centro di una battaglia per il suo controllo tra Citibank e Gemina, la società guidata dall’onnipresente Cesare Romiti e di cui Mediobanca (di Enrico Cuccia), era socio di riferimento. Alla fine il controllo era passato a Gemina, la holding, che aveva acquistato la GFT nel settembre del 1993. Nel 1996 muore a 53 anni il presidente Marco Rivetti, nel 1997 Gemina trasferisce le attività industriali alla HDP (Holding di partecipazioni industriali) della famiglia Romiti.

Sede del GFT in Borgata Aurora

La foto della sede del GFT in Borgata Aurora. Oggi ridotta a un reperto industriale
Immagine tratta da www.rottasutorino.it

Nel 2000 viene creata GFT Net (GFT international network), subholding di HDP, a cui viene trasferito anche il marchio Valentino. Sempre nel 2000, compra il marchio statunitense Joseph Abboud.

Nel febbraio 2003 la società chiude e vengono ceduti i marchi Facis e la collezione Valentino.

Fine della GFT e con essa i suoi dipendenti, le centinaia di laboratori artigiani e negozi dell’indotto sparsi in tutta Italia. Si noti che a questo grave problema occupazionale la famiglia Romiti proprio non era interessata.

Il “sistema” GFT era un modello particolare di lavoro compartecipe con il “padrone” Marco Rivetti sempre presente in azienda, come in una grande famiglia; una formula che ha funzionato bene nei diversi comparti della fabbrica sino all’ultimo giorno della sua esistenza.

L’immagine riprodotta è la copertina del libro di ben 349 pagine corredato da un numero imprecisato di fotografie che fissano, dalla nascita alla fine, la storia della GFT e il rapporto della famiglia Rivetti con i dipendenti.

Il titolo “SPIRITO DI GRUPPO” è significativo; queste poche parole sintetizzano in modo inequivocabile il corpo dell’azienda, che come un essere umano ha funzionato perfettamente in tutti i suoi organi interni e periferici. È opera dell’«Associazione Gruppo Anziani “Silvio Rivetti”, ex dipendenti GFT – ONLUS».

Un libro essenziale, che parla di “lavoro”, quello vero, non quello fatto di chiacchiere, inganni, truffe e debiti spaventosi, ovvero, il castello di carta sul quale è stata costruita la nuova Italia dissanguata, smembrata da voraci banchieri.

La FIAT e Cesare Romiti.

Un bancario, un finanziere attivissimo senza scrupoli, al pari di Enrico Cuccia e altri simili dei quali faccio seguito.

Romiti era compartecipe in decine di aziende, un personaggio ingombrante, un genio distruttore di gruppi industriali, che ha soltanto fatto soldi, nel nome del “non lavoro” e che ha ridotto la FIAT sull’orlo del fallimento. Un fatto che ha scandalizzato persino i tedeschi ma non gli italiani.

Sotto, l’immagine degli ex uffici direzionali della FIAT che dopo 115 anni lasciano Torino.

Tobias Piller ha scritto, nel non troppo lontano 22 febbraio 2014, sul Frankfurter Allgemeine un lungo articolo su questo accadimento incredibile, tutto italiano: ne riporto alcuni brani.

«La FIAT abbandona l’Italia ma questo non interessa quasi a nessuno. Cosa succederebbe invece negli Stati Uniti se la General Elettric trasferisse la sua sede in Olanda, o come reagirebbe la Gran Bretagna se Vodafone traslocasse a Zurigo, si chiede il piccolo giornale di intellettuali delle destra “Il Foglio”. L’approccio pragmatico degli anglosassoni condurrebbe a meditare su ciò che manca al loro Paese e quale fascino verso l’estero abbia subìto un Gruppo così grande, fino ad abbandonarlo. In un tale paese, senz’altro verrebbe subito promulgata una legge con il fine di trattenere Gruppi economici in patria, affinché desistano dal de localizzare. La decisione della FIAT rappresenta “uno schiaffo dell’economia globale all’interpretazione italiana della modernità”, recita il piccolo quotidiano, che viene finanziato tra l’altro anche da Silvio Berlusconi, che in economia politica non ha mai avuto la sufficienza».

 

Cesare Romiti

Nella foto, il sorriso accattivante del banchiere Cesare Romiti
Immagine tratta da www.avvenire.it

«Il dibattito politico italiano ritorna subito ad occuparsi della faccende minuscole, di cui si compone la politica a Roma. Il giorno prima della comunicazione ufficiale circa la decisione di trasferire la sede legale del Gruppo, dopo la fusione con la Chrysler, in Olanda e la sede amministrativa in Gran Bretagna, il presidente della FIAT, John Elkann, insieme al suo amministratore delegato Sergio Marchionne, hanno reso visita al Presidente del Consiglio dei Ministri, per aggiornarlo in termini informali dei futuri sviluppi. Elkann, l’erede degli Agnelli, si è fatto intervistare dal gazzettino di corte e con toni tranquillizzanti ha garantito personalmente:  “Il mio ufficio rimarrà a Torino”. È infatti previsto di riattivare quelle fabbriche già smantellate in Italia e che Torino rimarrà la centrale europea. Il governo comunque non si muove.

I sindacati si lamentano come sempre della cassa integrazione a zero ore, ripetutamente applicata nelle quattro fabbriche della FIAT operanti in Italia; rammentano inoltre a Marchionne le sue promesse di effettuare investimenti, espresse nel lontano 2010 ma rimandate e causa della crisi economica e del comportamento non cooperativo da parte dei sindacati. Gli appelli al governo ricalcano schemi degli anni settanta e ottanta e si limitano a richiedere che la FIAT sia convocata ad una tavola rotonda. Intanto il governo presieduto da Enrico Letta non si è finora mosso.

Ex uffici direzionali della FIAT

Nell’immagine gli ex uffici direzionali della FIAT che dopo 115 anni lasciano Torino
Immagine tratta da www.automoto.it

Inconsueto è stato però il commento minaccioso delle Entrate e della Riscossione, Attilio Befera che annunciava di verificare attentamente tale operazione di trasferimento della sede legale in Olanda e fiscale in Gran Bretagna. E questo potrebbe significare grossi problemi per il Gruppo. Infatti, come in altri diversi casi analoghi, verrebbe chiesto alla FIAT di tassare l’intera plusvalenza accumulata nella vecchia sede di Torino, al momento del trasferimento, comprese le licenze che si sono formate nel tempo grazie a ricerche e sviluppo italiani e che ora vengono sfruttate all’estero per la costruzione e la vendita dei marchi e dei modelli creati in Italia».

 

L’occupazione nel territorio viene ridotta.

«Per diversi imprenditori e direttori di alto livello non era stato necessario osservare il destino orribile di Marchionne al fine di orientarsi adeguatamente. Le decisione sugli investimenti all’estero vengono infatti prese cautamente e in tutto silenzio. Numerose imprese evitano di indicare nei loro bilanci ufficiali, ovvero, nei prospetti pubblici lo sviluppo dell’occupazione nelle loro unità all’estero. Uno studio di questo quotidiano evidenzia invece che da anni le imprese più importanti quotate in borsa, si orientano verso l’estero e tendenzialmente riducono l’occupazione nelle loro aziende sul territorio italiano. Proprio la FIAT ha mantenuto costante la sua forza lavoro in Italia sulla carta, poiché i lavoratori in cassa integrazione vengono annoverati ufficialmente tra gli occupati. Pur nel breve periodo tra il 2008 e il 2012 si registra un incremento dell’occupazione all’estero e una diminuzione sul territorio italiano, in capo a numerose imprese. Ciò riguarda persino i gruppi industriali controllati dallo Stato, come ENI e ENEL. Anche gruppi privati di comprovato successo come la Luxottica e Pirelli hanno diminuito l’organico italiano ed assunto migliaia di lavoratori all’estero. Delle 35 imprese industriali quotate nell’indice standard FTSE mib e nell’indice della media impresa FTSE mib cap, 14 hanno ridotto il personale in Italia, solo sei hanno incrementato il loro organico. All’estero il numero dei dipendenti di 25 imprese è cresciuto. Nel totale, l’occupazione all’estero dell’imprenditoria italiana è aumentata di 80.000 unità».

 


Tuttavia l’articolo si chiude con un severo monito che nessuno ha mai preso in considerazione.

«Il Presidente della Confindustria mette in guardia di fronte al pericolo che senza una modifica di rotta, in Italia si allargherà la desertificazione industriale. Ma tali rituali senza alcun esito si ripetono da tempo in Italia».

E oggi siamo giunti alla desertificazione industriale, ovvero, l’avverarsi del severo monito che aveva paventato il Presidente della Confindustria di quel tempo.

L’OLIVETTI gestione Carlo De Benedetti.

Giuseppe Silmo (uno dei tanti quadri intermedi olivettiani, come si definisce egli stesso), un testimone diretto, quindi nella possibilità di dare un contributo sul vissuto in drammatica storia di quella che è stata una grande azienda. Ha scritto un bel libro: “Olivetti. Una storia breve”. Termina con l’ingresso di Carlo De Benedetti nella Olivetti.

Silmo risponde alla domanda frequente: Come è potuta fallire la Olivetti?

Anche Roberta Garruccio e Franco Novara sul loro libro “Uomini e lavoro alla Olivetti”, in sintesi, danno una loro risposta:

«Fu la nuova cultura d’impresa portata da De Benedetti a distruggere la cultura precedente: la competizione interna non ne faceva parte; la Olivetti subì quindi una sorta di mutazione genetica e proprio il mutare delle politiche del personale si rilevò causa della crisi dell’azienda più che conseguenza di questa».

 

La “vecchia” fabbrica Olivetti di Adriano

La “vecchia” fabbrica Olivetti di Adriano
Immagine tratta da www.grey-panthers.it

Giuseppe Silmo spiega in un articolo, scritto tempo addietro, il disastro che ha condotto l’azienda Olivetti alla rovina totale che, detto in modo sintetico, è il sistema “meno prodotto e più finanza” adottato da Cesare Romiti alla FIAT; da Enrico Cuccia e soci alla GFT; da Colaninno e Tronchetti Provera alla SIP-TELECOM e altre centinaia d’aziende dell’indotto di piccola e media grandezza che contavano molte centinaia di dipendenti che, quasi nell’immediato, si sono trovati disoccupati.

«Da un lato, una gestione sempre più orientata unicamente al risultato finanziario, con il passaggio da una conduzione industriale mirata alla produzione e agli investimenti nella ricerca e sviluppo, alla loro progressiva diminuzione, favorendo sempre più l’acquisto anziché il fabbricare, riducendo così drasticamente il valore aggiunto dei prodotti. Dall’altro il passaggio da una forte integrazione aziendale, con un comune sentire e una forte identità di squadra vincente, all’esaltazione del risultato individuale, mirato a massimizzare quello generale, ma con risultati nefasti sulla conflittualità interna e sul risultato stesso a medio lungo termine.

Tuttavia se questi sono i motivi che costituiscono il filo conduttore della gestione De Benedetti ma anche quella del suo successore Roberto Colannino, con conseguenze sempre più evidenti e gravi sul tessuto aziendale, ci sono nella Olivetti di De Benedetti, alcuni punti nodali che ne hanno segnato la storia; prima in positivo e poi sempre più in negativo».

L;’avventura olivettiana per De Benedetti inizia nel 1978 in positivo e con l’apporto di denaro fresco avvia con coraggio dei progetti pronti da tempo ma non attuati per problemi di solvibilità.

È un periodo fecondo, nel 1983, De Benedetti stipula un accordo con la AT& T (ATT American Telephone and Telegraph), la più grande compagnia telefonica di quel tempo, trasformando la Olivetti il primo produttore di PC europeo e il terzo a livello mondiale grazie alla fornitura del PC M24.

La “nuova” fabbrica Olivetti Benedettiana

La “nuova” fabbrica Olivetti Benedettiana
Immagine tratta da www.interris.it

 

Ma Carlo De Benedetti ha una visione molto ampia, che mira ben oltre la Olivetti. Sente di avere una visione imprenditoriale allargata, più Europea, consona alle sue capacità imprenditoriali, ed è preso da un frenetico eclettismo operativo, intraprendendo una serie di audaci operazioni finanziarie trascurando il suo management alla Olivetti.

Carlo De Benedetti

Carlo De Benedetti

Carlo De Benedetti
Immagine tratta da www.ilpost.it

Nel 1988 tenta la scalata alla Société Générale de Belgique, un importante gruppo industriale belga ma viene fermato dall’opposizione locale e dal gruppo francese Suez. Utilizza le finanziarie di famiglia De Benedetti CIR e CERUS, tuttavia un profondo cambiamento di gestione modifica la struttura manageriale e i consolidati equilibri di squadra nei metodi di lavoro, inoltre la sua assenza in azienda negli anni 1987 / 88 segnano particolari difficoltà di mercato pesanti per l’impresa.

Così disse Roberta Garruccio, in una sua conferenza l’11 maggio 2007, sul libro da lei scritto con Franco Novara “Uomini e lavoro alla Olivetti”, nei locali di quella che fu la Nuova ICO: «Fu la nuova cultura d’impresa portata da De Benedetti a distruggere la cultura precedente: la competizione interna non ne faceva parte; la Olivetti subì quindi una sorta di mutazione genetica e proprio il mutare delle politiche del personale si rivelò causa della crisi dell’Azienda più che conseguenza di questa».

Che é lo stesso ragionamento fatto da Giuseppe Silmo in un suo articolo sulla Olivetti: «Da un lato una gestione sempre più orientata unicamente al risultato finanziario, con il passaggio da una conduzione industriale  mirata alla produzione a egli investimenti nella ricerca e sviluppo, alla loro progressiva diminuzione; dall’altro il passaggio da una forte integrazione aziendale, con un comune sentire e una forte identità di quadra vincente, all’esaltazione del risultato individuale, mirato a massimizzare quello generale ma con risultati nefasti sulla conflittualità interna e sul risultato stesso a medio lungo termine».

Grosso modo questi sono i motivi di fondo che costituiscono il filo conduttore di tutta la gestione De Benedetti e del suo successore, par suo, Roberto Colaninno, con conseguenze sempre più gravi sull’apparato aziendale.

(Rivedremo il Colaninno, quale disastroso attore principale, nel losco affaire Telecom).

Nel frattempo, con un’abile manovra,  la AT&T acquista la maggioranza delle azioni della Olivetti, in pratica diventano i proprietari ma per formalizzarne la vendita, si scatena una vera guerra del management Olivetti contro De Benedetti deciso a venderla. Ma non viene venduta; all’ultimo

istante il De Benedetti, già in volo per firmare l’accordo con la AT&T, clamorosamente rinuncia

alla vendita. Ed è la rottura definitiva con gli americani.

Roberto Colaninno

Roberto Colaninno
Immagine tratta da www.topmanagers.it

Nel 1988 De Benedetti lascia l’incarico di Amministratore Delegato. Il nuovo management concretizza un’idea da tempo in punta di penna e divide l’azienda in due unità separate.

L’idea prevede due nuove strutture: la Olivetti Office e la Olivetti System and Network, con l’intento che i due nuovi settori avrebbero definito e snellito in modo migliore le branchie di attività migliorando il mercato. La realizzazione del progetto, affrontata in modo semplicistico e per nulla avveduto, non aveva tenuto conto della struttura ben collaudata di un’azienda profondamente integrata che operava all’unisono con i dipendenti. Questa spaccatura improvvisa crea confusione nei ruoli del personale, contrasti e una conflittualità mai esistita prima in fabbrica, provocando inoltre disorganizzazione nei settori commerciali e costi altissimi per lo sdoppiamento delle strutture. Nel 1992 il Bilancio del Gruppo Olivetti è fortemente negativo.

Per ridurre i costi, in quegli anni si è adottato il metodo spiccio dei banchieri e finanzieri, ovvero, massicci licenziamenti del personale. Nel 1988 il personale è di 57.760 unità, nel 1992 è ridotto a 40.401 unità. Vengono richiesti altri massicci licenziamenti che provocano dimissioni di importanti dirigenti anziani.

Nel 1992 la situazione è insostenibile e si corre ai ripari procedendo alla riunificazione dei rami dell’azienda. Ma oramai la Olivetti è alle corde; nel 1996 si scopre la grave situazione dei conti e il settore bancario blocca i fidi, vengono alla luce falsi nei bilanci, si dimettono direttori e dirigenti, nel 1996 il titolo va a picco mentre la Procura d’Ivrea apre un’inchiesta.

Ancora Giuseppe Silmo: «De Benedetti dopo 18 anni lascia la presidenza all’avvocato Antonio Tesone. Manterrà quella onoraria ancora per qualche anno. Anche Caio si dimette e gli subentra Roberto Colaninno, fino ad allora a capo della Sogefi (Società del gruppo De Benedetti).

L’azienda viene nuovamente divisa, i nomi sono cambiati ma questa volta l’esito è diverso: l’OLSY (Olivetti Systems, parte dell’ex OS&N) è ceduta alla Wang, l’Olivetti Personal Computer è anch’essa ceduta, l’Elea pure, e l’Olivetti Lexikon (in cui sono confluite le attività della Olivetti Office) diventa dopo la cessione anche dell’Olivetti Syntesis, l’erede di quasi tutte le poche attività operative e industriali Olivetti rimaste»

Si è giunti alla pura speculazione affaristico finanziaria e nel 2012 si realizza la parte più triste: chiude definitivamente l’ultimo pezzo della  fabbrica Olivetti.

La triste realtà italiana della FIAT, della Olivetti, della GFT, della Telecom e tante altre aziende è  stata rappresentata e guidata da  banchieri senza scrupoli che le hanno distrutte o fatte fuggire (come la FIAT). Oggi abbiamo il “migliore” di tutti questi che governa l’Italia tutta e ne abbiamo un assaggio costatando gli attuali accadimenti e le sue intenzioni nelle ultime dichiarazioni pubbliche. Stiamo in attesa del peggio, grazie ai partiti dell’opposizione, traditori confluiti nel paradossale “partito unico”. Abbiamo paura e la paura porta terribili presagi e cattivi pensieri.

 

Carlo Ellena
 

Condividi questo articolo

Il CAOS perfetto, l’alibi per una pessima politica
QUARTA PUNTATA – LA SCUOLA

La storia del sistema scolastico italiano parte dal 1861 con l’Unità d’Italia. Era stato riformato e uniformato in tutta Italia a quello piemontese, come previsto dalla legge Casati entrata in vigore appunto nel 1861, in risposta all’alto tasso di analfabetismo (circa il 75%dalla popolazione). La legge prevedeva la coscrizione obbligatoria, sostituendo la Chiesa Cattolica, l’unica, da secoli, a occuparsi dell’istruzione.

Nel primo dopoguerra, la scuola, per oltre sessant’anni è stata terreno di conquista politica dei partiti della sinistra, ovvero; il  P.C.I., simbolo storico dei comunisti, quindi P.D.S. poi D.S., costola del P.D.S. e altri marchi “mascherati” sotto diverse forme “vegetali”, la “Quercia e “l’Ulivo. Sono nomee di comodo, acquisite per mescolare le carte ma sono sempre gli stessi comunisti. L’occupazione di questo partito, durata molti decenni (particolarmente in Piemonte), ha operato secondo la loro dottrina di rigido livellamento dei programmi e pianificazione culturale.

Difficile da credere ma nella realtà è stata bellamente inserita in un modo soffuso nei programmi e a volte nei libri, una scuola di partito, applicando il suo sistema arcaico un po’ annacquato: il marxismo. Si è lavorato soprattutto a ritroso, con poca istruzione, il minimo necessario, abbassando la qualità dei programmi portandoli ai livelli dei primi anni ottanta, già in previsione di un allargamento delle maglie dell’accoglienza, permettendo un massiccio arrivo di extracomunitari illegali, in nome di un sostantivo tanto amato dai piemontesi: la “solidarietà”.

La sventatezza e l’incapacità di ministri e assessori crearono grande confusione nei programmi scolastici, causa l’inserimento di questi bambini stranieri, a volte analfabeti, stravolgendo programmi costituiti, rallentando e complicando il normale corso degli studi. Questo malessere era subito bollato dall’ottusità dei politici, quale “razzismo”, niente di più sbagliato.

Questa “istituzione” ha una storia. Perché tale è la Scuola;l’Istituzione più” per l’importanza che essa riveste in uno Stato che si autodefinisce “civile”. Istituzioni come la Giustizia, la Magistratura, il Parlamento, l’Università e molte altre, ognuna nella propria forma specifica.

Possiamo dividerla in due distinti sistemi sociali: “primitiva” e “complessa”.

Primitiva, se è una società governata da pochi eletti, con un capo che, in genere, è l’anziano della tribù o del villaggio. Non esiste nessuna tutela della salute, la quale è affidata a stregoni, maghi o sciamani; non vi sono scuole e i bambini assimilano i costumi e le credenze religiose vivendo in famiglia.

Quando gli agglomerati crescono, le comunità si amplificano e via, via con aree abitate sempre più ampie; le società d’individui diventano “complesse”, poiché s’incrementano aumentando di popolazione; il villaggio diventa un paese, il paese si trasforma in città, è tutto un fervore. La crescita stimola le idee, le iniziative creano lavoro e si aprono negozi, officine, laboratori di artigiani nei loro mestieri, e altre svariate attività. A questo punto cresce un’esigenza diversa. Si rivelano indispensabili i servizi essenziali, quali; l’ordine pubblico, il medico, un piccolo ospedale, la chiesa, e una scuola, perché i bambini imparino e s’istruiscano. È un continuo, intenso fermento operoso: è il progresso che avanza. S’incrementa l’agricoltura, il commercio. Poi arrivano le industrie, la ferrovia, i trasporti, gli operai specializzati, i tecnici, indi gli ingegneri, gli architetti, persone istruite, di cultura e la scuola deve rispondere a tutti questi figli, adeguarsi prontamente con insegnanti e professori più preparati; studiare richiede tempo e gli orari scolastici aumentano progressivamente.

Ecco che la scuola assume un ruolo fondamentale nella società come istituzione pubblica con la coscrizione obbligatoria imposta dalla legge Casati. Non bastano più le elementari, si aggiungono le medie, i licei, le università. Il suo ruolo prende corpo e si amplifica.

È il momento dell’assunzione di grandi impegni e responsabilità, il suo compito è di formare in modo adeguato gli allievi, prepararli a “entrare” in questa società complessa con le opportune conoscenze per rispondere alle nuove esigenze culturali e sociali in tutto il paese, non solo nelle grandi città ma anche nei piccoli comuni, nelle frazioni e per questo abbisogna di un’organizzazione capillare adeguata.

Si tratta di un compito irto di difficoltà, poiché il sistema era stato il medesimo che il Piemonte aveva adottato per l’unificazione della penisola, ovvero sul modello del Regno di Sardegna di stampo“Sabaudo”. Modello che aveva incontrato subito notevoli problemi d’applicazione per lo scontro con culture e consuetudini molto diverse nella penisola, perché la rigida disciplina d’insegnamento di derivazione militare, non trovava proseliti al Centro, soprattutto al Sud del paese.

Tuttavia questo modello, se confrontato all’oggi, aveva grosse lacune. « La scuola materna non esisteva, era affidata all’iniziativa privata; mentre la scuola elementare, destinata alle sole classi popolari, era poi stata gradualmente prolungata a  tre, a sei e finalmente a otto anni ma non dava accesso ad altri studi; il ginnasio-liceo di otto anni, cioè la scuola media secondaria, destinata alle classi dirigenti, iniziava a undici anni, con un esame d’ammissione e accoglieva ragazzi istruiti in famiglia e anche alunni della quinta classe della scuola elementare che, attraverso l’esame, avessero dimostrato di poter affrontare studi ulteriori. Il ginnasio-liceo dava accesso all’università. Soltanto nell’ultimo mezzo secolo il nostro sistema scolastico, attraverso una lunga serie di trasformazioni era diventato unitario, addirittura unico da sei a dodici anni e si era poi articolato in modo da soddisfare tutte le esigenze moderne d’istruzione ». (Tratto da l’introduzione di Raffaele Laporta, dal volume  la “Storia della scuola” di Saverio Santamaita, ediz. Bruno Mondadori).  

Ma le società “complesse” costano, perché i servizi costano e occorre investire molto denaro nella scuola, perché essa possa guardare lontano e lo Stato deve essere pronto per operare insieme a politici intelligenti e ben preparati. Non dimentichiamo che nella storia istituzionale della scuola si riflette uno spaccato della storia italiana, che con fatica cercava di acquisire la coscienza di essere uno Stato.

Tuttavia, col tempo, lo sviluppo crea benessere ma nascono anche differenze che creano attriti fra le classi sociali. Inizia un periodo storico di conflitti in nome di un antipatico sostantivo: il “classismo”. Esso genera divisioni nella politica, subito la sinistra coglie il clima di tensione e interviene attraverso il sindacalismo che fa suo lo slogan: “lotte sociali”. Per le scuole italiane inizia un lungo periodo in cui l’istruzione, intesa come “sapere” cede il passo al grigiore della mediocrità.

Una data importante è il 31 maggio 1974, quando il Presidente della Repubblica Mariano Rumor emana i “decreti delegati”, che prevedevano l’entrata dei genitori nella gestione dell’organizzazione scolastica, anche nei programmi di studio. Il dibattito politico, aveva segnalato la necessità, nella scuola, di una più ampia gestione, democratica e condivisa. Sono stati questi decreti la causa del tracollo della scuola, intesa quale fonte d’istruzione seria. Subito i cambiamenti arrivarono; in ogni scuola si predisponeva un’aula atta alla bisogna. In realtà la funzione di questo locale era di una sede decentrata del P.C. che affiancava le Circoscrizioni della città.

Dopo una lunga battaglia, i comunisti avevano vinto ancora una volta.

Causa il virus Covid 19, la scuola ha viaggiato a ritroso ritornando nel pieno degli anni ’70, quando gli insegnanti regalavano il sei (6) di Stato; tutti promossi. Inoltre, tenendo conto delle attuali, precarie condizioni di salute, da quegli anni a oggi la scuola è ancora peggiorata. All’uscita dalla guerra i programmi scolastici del regime sono stati cambiati ma gli insegnanti sono rimasti, come sono rimaste le tracce lasciate dalle immagini del Duce e del Re sui muri. Tuttavia, contava docenti non di primo pelo, usciti da una dittatura ma culturalmente preparati all’insegnamento. Il sottoscritto nel’44 aveva sei anni e frequentavo la 1° elementare; rammento ancora i loro insegnamenti e quando li rivedo nelle foto provo un po’ di nostalgia.

Ricordo ai corti di memoria, che da circa sessant’anni, con la “nuova” Repubblica, i comunisti hanno fatto molta strada, per cui, nelle scuole di ogni ordine e grado, si è insegnato con docenti preparati con un modello d’istruzione prodotto da una sinistra di stampo “comunista” mirato a un livellamento; ossia di pianificazione verso il basso, (istruzione ma non troppo, insegna il partito), quindi abbiamo almeno due generazioni nutrite con questi principi e in costoro vige la cultura di gruppo. Niente competizione nella scuola, nella vita, nel lavoro, nello sport e il calcio è l’optimum, quindi, niente meritocrazia, la promozione è garantita, accesso alla vita senza ostacoli, problemi vari discussi in gruppo; sembra tutto facile, come fosse un gioco, lo è stato per anni; ma la realtà che si presenta oggi non è così, occorre volgere lo sguardo altrove e per i giovani capaci è meglio la fuga.

Intanto un altro dramma colpisce la scuola: lo “jus soli”, subito accolto dalle sinistre italiane.

(Ius soli (in latino «diritto del suolo») è un’espressione giuridica che indica l’acquisizione della cittadinanza di un dato Paese come conseguenza del fatto giuridico di essere nati sul suo territorio indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori). (Da Wikipedia).

Giuseppe De Lorenzo ci informa, con un vecchio, ma sempre attuale articolo del 28/09/2017 dal titolo; Lo spot allo ius nel libro di scuola:“Immigrati sono indispensabili”, da un libro dell’Editore Loescher di Torino, che è stato adottato da alcuni istituti italiani di scuole medie. Scrive De Lorenzo nella sua indagine:

«In questi anni infatti pare vada di moda sponsorizzare l’immigrazione sin dalla pubertà. Volete un esempio? Eccovi serviti. Prendete la collana “Zoom. Geografia da vicino” edito dalla Loescher Editore di Torino. I tomi scritti a tre mani da Luca Brandi, Guido Corradi e Monica Morazzoni vengono proposti per le scuole secondarie di primo grado (tradotto dal burocratichese: le medie). In prima si studia “Dall’Italia all’Europa”, in seconda “L’Europa: Stati e istituzioni” e in terza “I continenti extraeuropei”. Nulla da dire sulla qualità del prodotto. Sembra tutto nella norma, eppure sfogliandolo pagina dopo pagina si arriva a scoprire che presenta gli stranieri come una “indispensabile” risorsa per il Belpaese e che sponsorizza, velatamente, l’approvazione dello ius soli.

Vi chiederete: perché un testo scolastico dovrebbe spiegare ad un bambino di 11 anni che l’immigrazione è cosa buona e giusta? Risposta logica: non c’è motivo. Eppure succede. Acquistando “Zoom. Geografia da vicino” per la prima media, infatti, i genitori ricevono a casa anche un piccolo tomo intitolato “In prima!”, una sorta d’introduzione allo studio della materia. Alle pagine 31 e 32 gli autori hanno inserito alcuni esercizi in cui l’ignaro studente può provare a mettere in pratica i consigli su “come leggere i testi non continui” (tradotto: le tabelle). Il brano proposto è stato estratto dalla pagina 182 del “tuo libro di geografia” e non elenca le province dell’Umbria o i confini della Lombardia, ma parla di migranti (perché? Mistero). “Oggi l’Italia è il quinto Paese europeo per numero di residenti stranieri”, si legge. E ancora: “Secondo i dati dell’ultimo censimento 2011 (…) gli stranieri residenti in Italia sono circa 4,5 milioni, il triplo di dieci anni prima”. Ma il meglio arriva alla pagina successiva. La tabella viene divisa in due: da una parte la foto di un barcone carico di disperati “al largo delle coste italiane” (incredibilmente chiamati col loro vero nome: “Immigrati clandestini”); dall’altra il paragrafo intitolato Una presenza indispensabile. Il contenuto è un inno al pensiero unico: “Ormai quindi l’Italia è terra d’immigrazione e gli immigrati sono una presenza indispensabile, soprattutto in alcuni settori lavorativi come l’edilizia, il lavoro domestico, l’assistenza a bambini e anziani”. Manca solo il classico ritornello del “ci pagano le pensioni” per chiudere il cerchio. Ma per ora meglio puntare sullo ius soli: “La convivenza tra italiani e stranieri – si legge infatti – non è sempre facile e non sempre la legge italiana favorisce l’integrazione”. Che brutta cosa, penseranno gli studenti. E come mai la coabitazione è così complessa? Per via dei reati commessi dagli stranieri? Macché. Tutta colpa dell’assenza dello ius soli. “Ad esempio – spiegano gli autori agli ignari pargoletti – i figli di stranieri nati in Italia continuano a non aver diritto alla cittadinanza italiana, anche se vivono nel nostro Paese da sempre”. Molto commovente e di certo convincente per alunni che ancora non hanno sviluppato senso critico».

Se questi sono gli editori che producono “cultura”, ebbene, preferiamo le lezioni di un anziano capo tribù africano…

Condividi questo articolo

Il CAOS perfetto, l’alibi per una pessima politica
TERZA PUNTATA – IL FEDERALISMO DI ASSAGO

In questo articolo viene presentato il progetto del Federalismo di Assago. Il tema del Federalismo è già stato trattato in questo blog con altri due articoli di approfondimento: Italia, timida voglia di autonomia e Italia, timida voglia di autonomia – APPROFONDIMENTO

Un progetto serio dimenticato: Il Federalismo di Assago. (tratto da Wikipedia).

Il decalogo di Assago è un documento redatto da Gianfranco Miglio con il contributo dei collaboratori della Fondazione Salvatori, presentato al secondo congresso della Lega Nord il 12 dicembre 1993 (che si svolse, appunto, ad Assago). Esso è costituito da una serie di punti atti al superamento della Repubblica italiana e la sua rifondazione su basi federali.

Il testo

Art. 1 – L’Unione Italiana è la libera associazione della Repubblica Federale del Nord, della Repubblica Federale dell’Etruria e della Repubblica Federale del Sud. All’Unione aderiscono le attuali Regioni autonome di Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e del Friuli-Venezia Giulia.

Art. 2 – Nessun vincolo è posto alla circolazione ed all’attività dei cittadini delle Repubbliche Federali sul territorio dell’Unione. Tale libertà può essere limitata soltanto per motivi di giustizia penale.

Art. 3 – Le Repubbliche Federali sono costituite dalle attuali Regioni, sia a Statuto ordinario che speciale; le Regioni a Statuto ordinario gestiscono le stesse competenze attualmente attribuite alle Regioni a Statuto speciale. Plebisciti definiranno l’area rispettiva delle tre Repubbliche Federali.

Art. 4 – Ogni Repubblica Federale conserva il diritto di stabilire e modificare il proprio ordinamento interno; ma in ogni caso la funzione esecutiva è svolta da un Governo presieduto da un Governatore eletto direttamente dai cittadini della Repubblica stessa.

Art. 5 – La Dieta provvisoria di ogni Repubblica Federale è composta da cento membri, tratti a sorte fra i consiglieri regionali eletti nell’ambito della Repubblica medesima. Secondo la Costituzione definitiva la Dieta sarà eletta direttamente dai cittadini. Le Diete riunite formano l’Assemblea Politica dell’Unione. La funzione legislativa spetta esclusivamente ad un altro Collegio rappresentativo, formato da 200 membri, eletti da tutti i cittadini dell’Unione e articolato in una pluralità di corpi e competenze speciale.

Art. 6 – Il governo dell’Unione spetta ad un Primo Ministro, eletto direttamente dai cittadini dell’Unione stessa. Egli esercita le sue funzioni coadiuvato e controllato da un Direttorio da lui presieduto e composto dai Governatori delle tre Repubbliche Federali e dal responsabile del Governo di una delle cinque Regioni che per prime hanno sperimentato un’autonomia avanzata, cioè quelle indicate come Regioni a Statuto Speciale, che ruotano in tale funzione. Le decisioni relative al settore economico e finanziario, e altre materie indicate tassativamente dalla Costituzione definitiva, devono essere prese dal Direttorio all’unanimità.

Art. 7 – Il Governo dell’Unione è competente per la politica estera e le relazioni internazionali, per 1a difesa estrema dell’Unione, per l’ordinamento superiore della Giustizia, per la moneta e il credito, per i programmi economici generali e le azioni di riequilibrio. Tutte le altre materie spettano alle Repubbliche Federali ed alle loro articolazioni. Il Primo Ministro nomina e dimette i Ministri i quali agiscono come suoi diretti collaboratori; la loro collegialità non riveste alcun rilievo istituzionale. Il primo Ministro può essere deposto dal voto qualificato dell’Assemblea Politica dell’Unione.

Art. 8 – Il sistema fiscale finanzia con tributi municipali le spese dei Municipi medesimi. Il gettito degli altri tributi viene ripartito fra le Repubbliche Federali in funzione del luogo dove la ricchezza è stata prodotta o scambiata, fatte salve la quota necessaria per il finanziamento dell’Unione e la quota destinata a finalità di redistribuzione territoriale della ricchezza.

Art. 9 – Nei bilanci annuali e pluriennali dell’Unione delle Repubbliche Federali deve essere stabilito il limite massimo raggiungibile dalla pressione tributaria e dal ricorso al credito sotto qualsiasi forma. Le spese dell’Unione, delle Repubbliche Federali, delle Regioni e degli Enti territoriali minori e di altri soggetti pubblici, non possono in alcun momento eccedere il 50% del prodotto interno lordo annuale dell’Unione. La Sezione economica della Corte Costituzionale è incaricata di vegliare sul rispetto di questa norma e di prendere provvedimenti anche di carattere sostitutivo.

Art. 10 – Le Istituzioni e le norme previste dalla Costituzione promulgata il 27 dicembre 1947, che non siano incompatibili con la presente Costituzione Federale provvisoria, continuano ad avere vigore, fino all’approvazione, con Referendum Popolare, della Costituzione Federale definitiva.

Conseguenze politiche

Il progetto venne fatto proprio dalla Lega Nord solo marginalmente: il segretario federale, Umberto Bossi, preferì infatti seguire una politica di contrattazione con lo stato centrale che mirasse al rafforzamento delle autonomie regionali.

Nel 1994 il professore lasciò il partito, non condividendone le scelte politiche. Nonostante ciò, moltissimi militanti e sostenitori leghisti continuarono a provare grande simpatia e ammirazione per il professore e per le sue teorie.

Il 12 dicembre 1993, il sottoscritto era presente alla presentazione del “Modello di Costituzione Federale per gli Italiani”. Un progetto per una nuova Italia non voluto da forze con radici oscure.

Modello di Costituzione Federale per gli Italiani

Condividi questo articolo

Il CAOS perfetto, l’alibi per una pessima politica
SECONDA PUNTATA – LE AZIENDE E IL COMUNISMO IN ITALIA

Il tutto “italiano” improvvisamente. Una grossolana falsità in sole tre righe.

Il prodotto “tutto italiano”, come si affanna a comunicare la solita TV nei suoi spot pubblicitari, non esiste, non c’è; è sufficiente entrare in un supermercato o in una ferramenta per rendersene conto. Un’antica massima dice che la “menzogna ripetuta all’infinito si trasforma in realtà”.

Le aziende italiane un tempo prime nel mondo, oggi schiacciate o vendute.

Dopo oltre un trentennio di sistematica persecuzione sindacale alle imprese e l’incontrollato trapasso di molti nostri gioielli industriali a gruppi stranieri, i quali, attraverso le frequenti “ristrutturazioni”(che in genere prevedevano il taglio degli occupati) e ridotto le commesse al settore delle piccole, medie imprese e artigianato, hanno avuto, quale unico risultato finale un forte calo occupazionale (sempre contenuto dalla C.I.G.) e in molti casi, con la svendita dell’azienda da parte dei nuovi proprietari che, talvolta, prima di fuggire, tentano di appropriarsi del prezioso marchio.

Storia del partito comunista bolscevico

Tuttavia vanno riconosciute le colpe anche ai figli eredi di grandi industrie e a manager incapaci, senza una visione del futuro che, in definitiva, con la complicità della politica, hanno trasformato l’Italia in una colonia industriale. Dobbiamo inoltre ammettere che alcuni grandi vecchi dell’industria non hanno trovato degni eredi e tantomeno manager capaci di gestire saggiamente le loro aziende. Due generazioni cresciute comodamente sotto l’ombrello dei padri fondatori, che alla loro scomparsa, in breve tempo, hanno preferito vendere a stranieri ingordi i gioielli di famiglia creati con enormi fatiche. E i sindacati? Costatando i risultati è meglio stendere un nero manto pietoso su costoro. “Nel nostro secolo, un paese che non possegga una grande industria manifatturiera, l’industria in senso stretto, rischia di diventare una sorta di colonia, subordinata alle esigenze economiche, sociali e politiche di altri paesi che tali industrie posseggono”. (Luciano Gallino). Ed è proprio quello che è accaduto.

La politica nei miti del comunismo italiano. Il Piemonte: ma com’è potuto accadere tutto questo? Lo vediamo in un breve excursus.

Nel 1946, il libro (di ben 500 pagine) di cui vedete la copertina, circolava in tutte le sedi del P.C. torinese, negli stabilimenti FIAT e in tutte le fabbriche e officine metal/meccaniche. Per gli operai era la bibbia che in quegli anni imperava.

 Il simbolo storico del Partito Comunista Italiano.

Soprattutto il primo dopoguerra è stato un’importante scuola di vita per quella generazione che la guerra l’ha vissuta. La molla che ha fatto scattare questa voglia di rinascita è stata la fine della dittatura e la riacquistata libertà. Il denaro del piano Marshall ha dato un notevole aiuto ma ha fare il salto di qualità sono state le idee, capacità di realizzarle e la grande voglia di riscatto del popolo italiano. Sino alla metà degli anni sessanta la macchina piemontese produceva lavoro a pieno ritmo e il “doppio lavoro” aveva creato benessere diffuso. Ricordo come fosse ieri il 6 maggio 1961, all’inaugurazione dell’esposizione internazionale per il centenario dell’unità d’Italia, quando noi alpini sciatori del “Battaglione Aosta”, in tuta bianca, sfilavamo orgogliosi in “ordine chiuso” di fronte al presidente Gronchi e ai vari ospiti europei e americani, allibiti e ammirati dal “miracolo economico italiano” operato in appena un decennio. Oggi ricordiamo quel giorno con in bocca l’amaro fiele della delusione nel vedere com’è ridotta l’Italia, senza nemmeno un esercito di leva da mostrare al paese i suoi giovani pronti alla difesa della patria. Oggi abbiamo si un esercito ma di disoccupati nullafacenti.

 

Simbolo del P.C.I

Dopo questo flash nostalgico riprendo la parabola “italiana” sul “lavoro” (ricordo che questo sostantivo va inteso quale attività produttiva in cambio di un compenso), soprattutto piemontese e torinese, luogo in cui si sono svolte le più cruente battaglie politiche, con morti e feriti.

Dopo quel periodo di grande fermento lavorativo arrivano gli “anni di piombo”, del 1967/68/69; in cui le battaglie sindacali e il partito comunista raggiungono il parossismo e la pura violenza con l’occupazione delle fabbriche, in particolare negli stabilimenti FIAT, dove il P.C. spadroneggia con i suoi sindacalisti,inneggiando allo sciopero.

Simbolo delle Brigate Rosse

Intanto nel 1969 nasce “Lotta continua” da una scissione all’interno del Movimento operai-studenti di Torino. L.C. è un movimento di orientamento comunista che trasforma la lotta in una sorta di guerriglia urbana, a volte in contrasto con il P.C.. Il movimento conta due giovani militanti morti; Walter Rossi, caduto durante scontri a Roma con dei neofascisti e il 1° ottobre 1977, durante una manifestazione antifascista, organizzata a Torino per denunciare l’assassinio di Roma, un gruppo di militanti incendia un bar ritenuto ritrovo di militanti di destra; nel rogo resta ferito Roberto Crescenzio, che morirà due giorni dopo per le gravi ustioni riportate.

Il braccio con pugno, simbolo di Lotta Continua.

Poi arrivano gli anni 1975/76/77, periodo che s’incrocia con il terrorismo assassino delle “Brigate Rosse”. In questi anni Torino era diventata un caposaldo comunista e il centro operativo della guerriglia più spietata da parte dei brigatisti. Costoro colpivano a morte avvocati coinvolti nei loro processi e poliziotti del N.a.t.(Nucleo antiterrorismo).

Il 28 aprile 1977 un nucleo armato di tre uomini e una donna uccidono il presidente dell’ordine degli avvocati Fulvio Croce;  il 16 novembre del 1977 colpiscono ancora con l’attentato mortale al   vice-direttore della STAMPA Carlo Casalegno, gambizzato e morto dopo 13 giorni di agonia. Continua la catena di uccisioni a Torino; il 10 marzo 1978, alla fermata del tram di Corso Belgio, a pochi passi da casa sua è ucciso a colpi di mitra e pistola il maresciallo Rosario Berardi. Il Berardi, in precedenza, aveva fatto parte del N.a.t., nucleo antiterrorismo torinese e impegnato nelle inchieste contro gruppi eversivi neofascisti quali Ordine Nero e Ordine Nuovo; era stato ucciso per vendetta o era per colpire lo Stato?

Ancora “Le Brigate Rosse” rapiscono Aldo Moro a Roma, poi ritrovato ucciso nella bagagliera di un’auto il 9 maggio 1978 dopo 55 giorni di prigionia.

Qualche opportuna informazione sul Piemonte rosso.

È stata la Regione che ha costituito da casa a una miriade di movimenti (circa un centinaio), quasi tutti con ideologie di estrema sinistra, comunismo, marxismo, operaismo, altri con queste dottrine un po’ altalenanti. Ne mostro alcuni, i più conosciuti. (Tratti da Wikipedia e Feedback).

Simbolo Terza Posizione

Terza Posizione
Immagine tratta da it.wikipedia.org

 

Partito Marxista, Leninista Italiano

Partito Marxista, Leninista Italiano
Immagine tratta da it.wikipedia.org

 

P.C. Internazionalista

P.C. Internazionalista
Immagine tratta da it.wikipedia.org

 

Partiti di sinistra comunista

Partiti di sinistra comunista
Immagine tratta da ilpartitocomunista.it

 

Uno slogan di Potere Operaio
Immagine tratta da www.starwalls.it

Questa “mostra” è all’insegna dei simboli politici di una Torino “comunista”.

L’enorme base operaia di Torino, in quegli anni poderosa città industriale unica in Italia, era stato il facile obiettivo su cui  mirare tutte le proteste e le cruente lotte sindacali/politiche del P.C e dei gruppi della sinistra estrema (periodo che va circa dalla metà degli anni ’60, ai primi anni ’80).

Il “lavoro operaio” si era trasformato in un’interpretazione filosofico/politica dei comunisti, del P.C. e dei movimenti di estrema sinistra italiani.

Costoro non vengono mai sconfitti, sono come un dolce veleno che uccide. La battaglia è quasi impossibile, perché devono essere annientati, ma anche così, qualche virus letale resta.

Serve un’opposizione durissima, aspetto che non si coglie nell’attuale, parolaia e inconcludente.

Il basso livello di scolarità imposto in quegli anni e una divulgazione capillare nelle fabbriche delle ideologie marxiste, sono i motivi che hanno prodotto i peggiori guasti nel sistema economico e nel mondo del lavoro in generale. Celebre una frase di Karl Marx I comunisti possono riassumere le loro teorie in questa proposta: abolizione della proprietà privata.” — Karl Marx.

Marx mostra con  agghiacciante chiarezza l’idea catastrofica del suo concetto politico.

La monarchia in Italia nata torinese/piemontese, ha prodotto, per logica condizione, disposizioni e leggi monarchiche relative al lavoro, d’altra parte era l’assolutismo di quel tempo, quale le altre monarchie europee. Monarchia e soprattutto il fascismo hanno variato questa “condizione”.

In periodo fascista la prima “Carta del Lavoro” è varata nel 1927. Si tratta di una derivazione della “Carta di Carnaro” del 1920, creata dall’interventismo dei “Fasci rivoluzionari di sinistra” e dalla quale furono escluse tutte le istanze democratiche/libertarie, poi riprese successivamente dalla Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.). Si rivelavano già i primi palpiti di una sinistra latente, viva.

Dopo laboriose trattative, anche da parte dell’antifascismo i Patti erano accettati e l’11 febbraio 1929 si firmavano gli accordi fra Stato e Chiesa detti “Patti Lateranensi”. Si compongono di due parti: la prima è il Trattato Internazionale con Roma capitale e riconosciuta la sovranità dello Stato della Città del Vaticano. La seconda parte è costituita dal “Concordato” che regola i rapporti fra Chiesa e Regno d’Italia.

“Nell’agosto del 1938, c’era stato un incontro in Svizzera tra un monsignore della Curia e due esponenti del Partito comunista in esilio; questi ultimi rassicuravano l’interlocutore che non avrebbero messo in discussione il trattato ma solo il concordato. Posizione, che nel 1943, sarebbe stata riconfermata dal comunista Giorgio Amendola al direttore dell’Osservatore Romano”.

La destra storica, trasformatasi nel 1882 nel Partito Liberale Costituzionale (P.L.C) è stato uno schieramento politico che ha governato ininterrottamente l’Italia dal 1849 al 1876.

La destra storica aveva dato alla neonata Italia, un’economia basata sul libero scambio. Un altro grave problema che affliggeva il paese, la difformità legislativa lungo la penisola, era stato risolto mediante l’accentramento dei poteri (accantonando i progetti di autonomie locali proposti da Marco Minghetti), estendendo la legislazione piemontese a tutta la penisola e dislocandovi in modo capillare le prefetture come strumento di governo.

Un aspetto politico da tener conto ma che dal dopoguerra non desta più stupore; con la nuova Repubblica, la Chiesa con il Partito comunista ha avuto costantemente uno stretto rapporto per la formula che li accomunava; per la Chiesa si usa la terminologia “potere temporale”, per il P.C. “potere indiscriminato”. Sono e rimangono due rovine per l’Italia.

Condividi questo articolo

Il CAOS perfetto, l’alibi per una pessima politica
PRIMA PUNTATA – LA PANDEMIA

Edward Lorenz, matematico-metereologo, a seguito dei suoi studi, aveva coniato una metafora, diventata poi un’espressione di uso comune: “l’effetto farfalla”. In parole semplici spiega come un avvenimento di piccole dimensioni può diventare causa scatenante di un evento di enorme portata, esempio: “il battito delle ali di una farfalla a Parigi può scatenare un uragano in Messico o a Pechino”, è il senso della rivoluzionaria teoria del caos di Lorenz.

Spiega Lorenz: «L’effetto farfalla aveva un nome tecnico: dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali…essa aveva un posto nel folklore:

Per colpa di un chiodo si perse lo zoccolo;

per colpa di uno zoccolo si perse il cavallo;

per colpa di un cavallo si perse il cavaliere;

per colpa di un cavaliere si perse la battaglia;

per colpa di una battaglia si perse il regno!

«Nella scienza, come nella vita, è ben noto che una catena di eventi può avere un punto di crisi in cui piccoli mutamenti sono suscettibili di ingrandirsi a dismisura. Ma il caos significava che tali punti erano dappertutto. Erano onnipresenti».

Prendo a prestito la metafora, quale termine di confronto, per dare un senso causale agli accadimenti che stiamo tragicamente vivendo, infatti, c’è una sorta di analogia con il “caso” Italia, ovvero; da un invisibile virus, alla pandemia.

Orbene, l’uragano di Lorenz può arrivare, ad esempio in Messico e colpire indifferentemente la baraccopoli messicana, costituita da abitazioni fatiscenti, senza servizi e assistenza sanitaria e fare disastri con distruzioni e morte, o una città ben costruita, organizzata e in grado di sopportare la violenza dell’uragano, quindi fare danni minori.

Il parallelo è sintomatico. Il nostro virus Covid 19 è oramai pandemia, semplicemente perché sono mancati o mancano i servizi essenziali e le strutture della Sanità pubblica attuale sono fatiscenti; tutto è affidato al caso e al volontariato, non siamo in grado di affrontare con decenza neppure la minima urgenza. La Sanità (come la scuola) è da decenni preda esclusiva delle sinistre, impegnate solo ad assegnare stipendi ai loro militanti e non posti di lavoro seri. Operazione che definisco: semina indisturbata della clientela politica. Questo sostantivo, pandemia, che sommata al mòlok dei disastri italiani perpetrati in tutti i settori della vita civile, nella politica, nel lavoro, nella TV pubblica, nel cinema, nello sport, ovvero il calcio, l’unico gioco concepito erroneamente sport; sono oramai endemici per il paese.

Manca un controllo efficiente del sistema geologico del paese, delle strade, dei ponti, ogni opera pubblica supporta le mafie o è opera di sfruttamento clientelare, tutto in funzione alle politiche della sinistra che non ha, ripeto non ha neppure una traccia d’idea costruttiva sulle politiche del lavoro d’iniziativa privata, non pubblica.

Il “sistema paese” è crollato di fronte a un assolutismo di Stato che, alla buonora, non è più possibile chiamarlo Stato; un potere “padrone di ogni cosa, delle risorse economiche, delle istituzioni, degli uomini e persino delle idee”. La democrazia, ormai defunta, è sostituita da una sorta di, totalitarismo all’italiana indefinibile che non è neppure bolscevismo. Non è possibile  formulare, un’ipotesi, tracciare una linea definibile nei folli comportamenti di questo governo.

Siamo quasi alla pari con la baraccopoli messicana: ci troviamo nel bel mezzo di un uragano che sta facendo terra bruciata dietro di sé. Imputabili sono i governi precedenti ma è quest’ultimo, del corrivo signor Conte che, amministratore della “bella” Italia, impone, con la sua maggioranza, una sorta di regime atipico che legifera senza controlli, divorando ogni risorsa materiale, finanziaria, scolastico/educativa, umana, disprezzando in modo offensivo la stessa identità storica degli italiani negando al popolo stesso persino la sua sovranità costituzionale. Tutto è svanito, perso, semplicemente perché non c’è stata, volutamente o meno, la capacità ma soprattutto un progetto per costruire uomini colti, intelligenti, politici d’esperienza, capaci e volonterosi. Manca il senso patrio, il voler bene al proprio paese, persa la sacralità del senso di appartenenza che, da oltre sessant’anni, la scuola e tanto meno in famiglia, nessuno ha più insegnato.

 

La R.A.I. ( circa 1700 dipendenti) degli italiani del Sud.  

Altro tema; la TV (nazionale?) spende miliardi di parole nel tentativo di coprire, mascherare il fallimento italiano. I commentatori RAI costretti a leggere bollettini precompilati, mentre mediocri cantanti, comici e attori, un vero esercito di comparse asservite e pagate dalla TV di Stato, ciarlano instancabili nel loro linguaggio italo/romanesco di una volgarità tale che mostra a quale grado di decadenza si è giunti.

L’uso e l’abuso senza ritegno della televisione politica nel condurre tutta l’operazione COVID 19, evidenzia in primis, un’azione mirata a far propaganda pro domo sua e di seguito per impartire a ritmo serrato una miriade di “melliflui” consigli bonari, trattando i cittadini quali semianalfabeti e imbecilli. Lo stile è elementare ma diretto, sottilmente insinuante, che crea panico, fatto con tale glaciale premeditazione da escludere ogni dubbio agli ingenui benpensanti.

Inoltre rivolgo l’attenzione a una questione di equa parità; tenendo conto di quanto il governo predica l’italianità, si ricordi che la R.A.I. è una struttura nazionale, ovvero italiana e non a solo uso e consumo del Sud e Napoli non è la capitale d’Italia.

Comunque, come ben si sa, tutte le reti RAI sono monocolore (vecchio termine adottato da Fanfani), vale a dire, rosse, del P.D. Una conquista di quel partito acquisita col tempo senza il minino ostacolo, mentre le opposizioni, forse, erano in altre faccende affaccendate.

Gli italiani devono svegliarsi dal torpore che li avvolge; aprite gli occhi; canti, balli, giochi dai balconi, sono cose di altri tempi, oggi non servono. Cerchiamo di essere adulti maturi.

Sono oramai tre mesi che dal piccolo schermo continua l’implacabile, assordante richiesta di denaro rivolta ai cittadini per “aiutare” centinaia di fantomatici enti, associazioni, fondazioni create all’uopo, persino la protezione civile e la storica Croce Rossa. Crescono in media di due o tre la settimana e su questo fatto sarebbe urgente fare un’indagine governativa. L’arrogante millanteria dei governanti ha oramai raggiunto livelli indecenti, dimostrando, alla parte onesta del paese, chi sono costoro ai quali il signor Mattarella, ribaltando con un colpo gobbo il risultato delle votazioni politiche, ha ridato il potere. I cospicui prestiti europei in miliardi, arrivati o da arrivare servirebbero alla nostra disastrata Sanità. Non abbiamo più nessuna fiducia in questa Europa, tuttavia speriamo che sia almeno attenta alla strada che prenderanno i fondi, poiché abbiamo sentore che verranno bruciati in un battito di ciglia per finanziare mafie ingorde, associazioni, e pagare stipendi a personale mal gestito e già in esubero. Ricordo par pari, l’esecrabile “diritto di cittadinanza” una legge ignobile per lo sperpero insensato di denaro distribuito a piene mani e senza opportuni controlli nel “mucchio” e non a chi lo merita veramente e ne abbisogna.

Intanto la TV insiste; non uscite, state in casa, è la filastrocca scritta e parlata che continua martellante. Abbiamo persino letto e sentito una dichiarazione in TV di questo Papa comunista. Nelle sue omelie ha aggiunto una preghiera per il governo. A questo punto, dovrebbe spiegare ai suoi credenti se quest’atto ha un significato “politico” o religioso. Lo spieghi pubblicamente a tutti.

 

Virus Covid 19

Questa epidemia, codificata Covid 19 e iniziata con il 1° caso il 21 febbraio 2020, è stata affrontata dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, con l’autorità di cui si è proditoriamente impossessato, in modo disorganico, caotico; ordina, comanda a parole e azioni, delibera severe direttive, decreti, protocolli, leggi e chissà cos’altro sta preparando. Tuttavia, con arguzia ha prontamente capito che il virus è un’occasione unica per consolidare il suo potere in modo indefinito e con qualsiasi mezzo, può farlo, perché nessuno lo contrasta.

Qual è la costante preoccupazione di costui per gli italiani? Le ferie, le vacanze, il turismo.  Settori di tutto riguardo ma occupano il campo dei “servizi”, che significa “non produttivi”. Il cittadino deve spendere per usufruirne, poca attenzione invece a chi produce e crea profitti ossia: alle aziende, alle imprese, all’artigianato, alle fabbriche superstiti. Gli aiuti in denaro, in questo triste periodo, sono indispensabili, ogni giorno si parla di soldi, piogge di miliardi; vedremo dove andranno a finire, se arrivano. Tuttavia per il futuro serve ben altro; il governo deve tutelare le aziende ma non ha la capacità, tanto meno l’esperienza di farlo, perché servono persone di idee liberali, che mancano.

L’insufficiente conoscenza della realtà presuppone a un processo cognitivo di tutte le attività produttive del lavoro; un ribaltamento dei rapporti tra Stato e aziende; un’equa tassazione, finalmente una riforma seria del sindacato, non politico ma rivolto a una vera tutela dei lavoratori. In fin dei conti il “settore servizi”; turismo, servizi alla persona ecc. sono di grande importanza fintanto che c’è un cliente che guadagna e spende. Oggi abbiamo un esempio; con la crisi, concausa il virus, si produce poco o nulla e si spende poco o nulla. I numeri non mentono; “La matematica non è un’opinione”, è sempre una “costante matematica”. Urge ritornare al “libero arbitrio”.

Questo governo di pericolosi apprendisti, barricati dietro uno statalismo accentratore, poi  tradotto in un assolutismo sovrastatale dei poteri finanziari europei che dominano quelli nazionali oramai inerti. Deve cambiare totalmente politica nei comportamenti, oppure andarsene, altrimenti sparire velocemente, prima che succeda l’irrimediabile disastro.

 

Sulla normativa delle vituperate “seconde case”, dove il caos è perfetto.

Ma il signor Conte, forse, non conosce nulla della variegata compagine italiana con la quale ha a che fare, ed ecco che arrivano le prime “cantonate” a partire dall’encomiabile coraggio della presidente della Regione Calabria Jole Santelli; una donna eccezionale. Un’iniziativa che l’Italia delle Regioni dovrebbe imitare fin da subito ma non credo lo farà. La signora Jole pare rischi l’incriminazione, perché la disobbedienza è reato (un reato per sopravvivere?) e magari incarcerata in una delle celle svuotate dai capi mafia liberati dal pietoso e solidale governo.

Le “seconde case”, (oggi è un tipo mercato immobiliare a deficere) sono l’indicatore del benessere, quando l’utilizzo è rifugio vacanziero. Tuttavia molte di esse (cascine con orti e terreni) sono frutto di eredità di famiglia, la quale deve operare una costante, costosa manutenzione, fatta, in genere dagli anziani, perché i giovani preferiscono impegni meno gravosi e faticosi, per cui, questo tipo di “seconde case” si trasforma in un peso. L’abbandono forzato, anche parziale imposto dall’imperversare del virus, è dannoso e purtroppo, con i casi di razzie dei ladri costituiscono un doppio danno. Questa proibizione obbligatoria, fatta con buona intenzione ma imposta “nel mucchio”, come usa fare questo governo, ha provocato diseguaglianze, notevoli costi e disagi; oltre all’abbandono delle coltivazioni si aggiunge il ladrocinio perpetrato da ignoti.

Che fine ha fatto il mercato immobiliare? Non ha più mercato, un altro settore allo sbando perché non ha più regole, sogghignano gli speculatori e sono molte le agenzie (quelle superstiti) che sopravvivono grazie alla gestione degli affitti.

 

Condividi questo articolo

C’è un altro virus mortale che infetta il paese: il PD e tutto il loro governo

Giunto alla mia veneranda età (81 agn e ‘n tòch) mi trastullo nei ricordi con qualche parola nel mio amato piemontese. “Dòp milanta bataje i saro le parpèile e i vad  an arculon ant ët temp” (dopo mille battaglie chiudo le palpebre e vado a ritroso nel tempo). Poiché l’oggi è ossessiva disperazione per il mio Piemonte e in coda, per l’Italia.

Non avvicinarti al pari tuo, stai lontano almeno un metro, non lavorare, non guardare e osservare, non sentire e ascoltare, non parlare, zitto stai, non favellar coi sordi, coi muti e coi ciechi. Tempo est che ne l’occhi tui sia noctis. Impéra l’invisibile assassino, l’angelo della morte che scuote e uccide. Umano: serra l’uscio e piomba la catena alli pulsus.

Questo par essere l’innominato virus che morte pur porta, mentre l’amico svizzero mi chiede se piemontesi e italiani sono tutti impazziti e in preda a una sorta sonno ipnotico. Rispondo con serena flemma che gl’italiani, puranco se terrorizzati da un esercito di politici esagitati e confusi, s’arrangiano come possono; cercano di sopravvivere come fanno da decenni e oggi più che mai. Agli inviti contraddittori dei balbettanti, ridicoli commentatori TV, dall’esercito di maldestri super/esperti parassiti e chiacchieroni, da politicanti guasconi e sciocchi che impongono provvedimenti a ordine chiuso, sempre loro, i cittadini, oppongono il buon senso, con la rabbia di chi subisce l’ingiustizia e il tradimento, ben sapendo e che ne pagheranno molto caro lo scotto. Ma… nulla vien sempre per nuocere!

Si comprende l’urgenza del virus ma sono stati presi provvedimenti senza obiettivi mirati, attuati alla rinfusa su esercizi privati ma soprattutto pubblici; musei e attività culturali connesse, cinema, manifestazioni varie, sport compreso, persino le riunioni di famiglia, tutto può essere utile e lo è ma giunti a questo punto, chiudiamo tutto? Pare di sì, tuttavia l’indispensabile resta quasi ignorato: sono le fabbriche, le aziende, il lavoro. Una delle massime urgenze è salvare la produzione, il lavoro, ed è ovvio, i lavoratori, che non sono quattro gatti ma decine di migliaia. Attraverso il Servizio Sanitario Regionale collegato con il S.S.N., organizzare e predisporre presidi sanitari con almeno un medico e un’infermiera diplomata dotati dell’occorrente minimo utile e posti in fabbrica o in locali predisposti per gruppi di fabbriche, onde prevenire e intervenire con urgenza in caso di contagio: è stato fatto? Non credo, anzi, di sicuro no. Questa gente che forma il governo, sono comunisti autarchici, come buona parte dei sindacalisti e costoro, per loro natura, vedono la fabbrica, come luogo di lavoro composto da individui che producono un profitto a beneficio a una o più persone considerate sfruttatori, una dicotomia in politica.

È la loro secolare “dottrina” che, pur con involuzioni pseudo moderniste, nei contenuti non è mai cambiata. La fabbrica è sempre e comunque un luogo di propaganda politica per il loro partito e nient’altro. Vista la situazione odierna disastrosa della realtà lavorativa piemontese e italiana, si dimostri il contrario.

Stiamo attenti! Questi patrioti non hanno il volto stanco ed emaciato; loro sono avvezzi a simulare. I tristi accadimenti arrivano mentre il paese già da tempo, proprio loro, l’hanno ridotto allo stremo. Non usano ascoltar urla di dolore; morituri te salutant! Mentre altri buoni e bravi cercano una via di fuga, costretti, obbligati da una patria tradita, che non offre loro, ne lavoro, ne un futuro, ma bensì un carico di debiti da pagare a quest’Europa assurda, che nemmeno i pronipoti estingueranno.

Evviva gli inglesi che l’hanno presa a calci; onore e stima a un popolo artefice del proprio destino.

Il Male fisico che vuole carpirci la vita, si assomma al male della Paura, palpabile e concreta in questo paese del nulla, del niente in cui viviamo: Paura per i figli e per gli altri che verranno, se non faremo qualcosa.

Chiudo con un urlo rabbioso contro questi individui saccenti, traditori che hanno schiacciato il Piemonte, non solo ma anche quanto rimane di buono della gente d’Italia.

Ebbene, non credano codesti beoti, lo scriba, benchè provato da mille battaglie frangar non flectar e con me molti, moltissimi altri.

 

Piemonte, 6 marzo 2020

Carlo Ellena

Ex vice-presidente Confartigianato-Torino

 

Condividi questo articolo
« Articoli meno recenti

© 2024 Il mio blog

Tema di Anders NorenSu ↑