Categoria: Politica internazionale

25 ottobre 2021

Il discorso è tratto da un opuscolo che precisa: Estratto da Mondo Occidentale n° 86, luglio-agosto 1962. In calce, UNITED STATES INFORMATION SERVICE ROMA.

Titolo dell’opuscolo:

Indipendenza e interdipendenza- di John F. Kennedy

 

Indipendenza e interdipendenza di John F. Kennedy

Philadelphia 4 luglio 1962

In occasione delle celebrazioni per la ricorrenza del 186° “Independence Day”, il presidente John F. Kennedy ha pronunciato a Philadelphia, nel vasto spiazzo davanti all’edificio della Independence Hall, dove il 4 luglio del 1776 venne firmata e proclamata la famosa “Dichiarazione d’Indipendenza” delle tredici colonie americane originarie, un discorso di vasta apertura e significato storico di cui riproduciamo il testo.

Per qualsiasi cittadino della nostra grande Repubblica è un alto onore parlare in questa “Hall of Independence” in occasione della «Giornata dell’Indipendenza». Parlare come Presidente degli Stati Uniti ai Governatori dei nostri 50 Stati è, al tempo stesso, un’opportunità e un impegno. La necessità di una solidarietà operante tra il Governo nazionale e i vari Stati è un insegnamento incancellabile della nostra storia.

Poiché il nostro sistema mira a incoraggiare sia la diversità che il dissenso, poiché i “controlli e contrappesi” di cui esso è fornito sono intesi a preservare i diritti dell’individuo e dell’amministrazione locale contro il parere dell’autorità centrale, voi ed io ci rendiamo entrambi conto di come dipendiamo gli uni dagli altri per quanto riguarda il buon funzionamento della nostra eccezionale e felice forma di governo. Il nostro sistema e la nostra libertà permettono che occasionalmente il Potere Legislativo si trovi a misurarsi con l’Esecutivo, lo Stato con il Governo Federale, la città con lo Stato, la Provincia con la città, un partito con un altro partito, dati interessi con altri interessi, tutti in competizione o in contesa l’uno con l’altro. Il nostro compito – il vostro nel Palazzo del Governo degli Stati, il mio alla Casa Bianca – è di interesse da tutti questi intricati stami una trama di leggi e di progresso, Altri possono limitarsi ai dibattiti, alle discussioni e a quel supremo lusso che è l’esprimere liberamente il proprio parere.  Ma la nostra è una responsabilità di decisione, ché governare è scegliere.

Pertanto, in senso molto concreto, voi ed io siamo gli esecutori del testamento che ci è stato tramandato da coloro che qui ci riunirono in questa storica sede 186 anni or sono. Essi si riunirono, infatti, per apporre la loro firma a un documento che era, principalmente, un documento non di retorica ma di audace decisione. Era, è vero, un documento di protesta ma anche in precedenza erano state formulate proteste. Esso enunciava con eloquenza le loro rivendicazioni ma anche prima si era udita una eloquenza del genere. Quello che distingueva tale pezzo di carta da ogni altro era – tuttavia – la decisione estrema, irrevocabile che essi avevano presa e così veniva sancita: di affermare l’indipendenza come Stati liberi di quelle che erano state colonie e di consacrare a questo scopo le loro vite, i loro averi e il loro sacro onore.

Oggi a 186 anni di distanza, quella Dichiarazione – la cui pergamena ingiallita e i cui caratteri sbiaditi, quasi illeggibili, ho riesaminato la settimana scorsa agli Archivi di Stato – è tutt’ora un documento rivoluzionario. Rileggerla oggi è come ascoltare uno squillante appello di tromba. Ché tale Dichiarazione dette il via non solo una rivoluzione contro gli inglesi ma ad una rivoluzione nelle umane vicende. I suoi autori erano profondamente consapevoli delle sue ripercussioni mondiali; e George Washington ebbe a dichiarare che la libertà e l’autogoverno in ogni parte del mondo erano «in definitiva legati all’esperimento affidato alle mani del popolo americano».

Questa profezia si è avverata per 186 anni. Questa dottrina dell’indipendenza nazionale ha sconvolto il globo e tuttora rimane la forza più poderosa ovunque esistente nel modo di oggi. Ci sono uomini che lottano per strappare una grama esistenza ad una terra amara e che non hanno mai udito parlare della libera iniziativa, eppure essi hanno cara l’idea dell’indipendenza. Ci sono uomini alle prese con formidabili problemi di analfabetismo e di igiene e che non sono attrezzati per indire libere elezioni, eppure essi sono fermamente risoluti a mantenere la loro indipendenza. Persino coloro che non vogliono o non possono partecipare ad una lotta tra l’Est e l’Ovest, sono risolutamente dalla parte dell’indipendenza. Se c’è un problema che oggi divide il mondo, è quello dell’indipendenza: l’indipendenza di Berlino o del Laos o del Vietnam, l’anelito all’indipendenza, al di là del sipario di ferro, il pacifico passaggio all’indipendenza in quelle regioni oggi in fase di ascesa, le cui difficoltà taluni cercano di sfruttare. La teoria dell’indipendenza – antica quanto l’uomo stesso – non fu inventata in questa sede. Ma è qui che tale teoria venne tradotta in pratica; è da qui che venne diffuso in tutto il mondo il verbo che «quel Dio che ci ha dato la vita ci ha dato al tempo stesso la libertà». E oggi questa nazione – concepita nella rivoluzione, nutrita nella libertà, maturata nell’indipendenza – non ha alcuna intenzione di abdicare alla sua funzione di guida in questo movimento mondiale per l’indipendenza a vantaggio di qualsiasi nazione o società dedita ad una sistematica oppressione.

Per quanto vitale e applicabile sia oggi questa storica Dichiarazione d’Indipendenza, faremmo tuttavia bene a rendere onore anche all’altro storico documento che venne stilato in questa stessa sede: la Costituzione degli Stati Uniti. Ché esso sottolineò non l’indipendenza ma l’interdipendenza, non la libertà individuale del singolo ma libertà indivisibile di tutti.

Nella maggior parte del vecchio mondo coloniale, la lotta per l’indipendenza sta ora giungendo al suo termine. Anche nelle zone al di là del sipario di ferro, quello che Jefferson chiamava: «il male contagioso della libertà», sembra ancora oggi diffondersi. Col tramontare di antichi imperi, oggi meno del due per cento della popolazione mondiale vive in territori ufficialmente definiti “dipendenti”. E mentre questo sforzo per l’indipendenza – informato allo spirito della Dichiarazione americana – si avvicina ad una felice conclusione, un grande, nuovo sforzo –  quello per l’interdipendenza – va trasformando il mondo intorno a noi. E lo spirito che informa questo nuovo sforzo è quello dello stesso spirito che dette origine alla Costituzione americana.

Questo spirito si manifesta oggi nella maniera più evidente al di là dell’Oceano Atlantico. Le nazioni dell’Europa Occidentale, a lungo divise da lotte intestine ben più aspre di quelle che mai si produssero fra le tredici Colonie, si stanno ora unendo insieme e cercano, come cercarono i nostri padri, di trovare la libertà nella diversità e la forza nell’unità.

A questa vasta impresa gli Stati Uniti guardano con speranza e ammirazione. Noi non consideriamo un’Europa forte ed unita come un rivale, bensì come un socio ed amico. Aiutarne il progresso è stato uno degli obiettivi fondamentali della nostra politica estera da diciassette anni a questa parte. Riteniamo che un’Europa unita sarà in grado di svolgere una più grande funzione della difesa comune, di rispondere più generosamente ai bisogni delle nazioni più povere, di unirsi agli Stati Uniti e ad altri paesi nel ridurre le barriere commerciali, risolvere i problemi di carattere monetario e merceologico, ed elaborare direttive coordinate in tutti gli altri settori economici, diplomatici e politici. Noi vediamo in un’Europa del genere un socio col quale poter trattare su una base di piena eguaglianza in tutti i grandi e onerosi compiti concernenti l’edificazione e la difesa di una comunità di nazioni libere.

Sarebbe prematuro, in questo momento, far qualcosa di più che manifestare l’alto valore che attribuiamo e la soddisfazione con la quale vedremo il formarsi di questa associazione. La prima cosa in ordine di tempo è che i nostri amici europei proseguano nello sforzo per creare quella perfetta unione che un giorno renderà questo possibile.

Un grande, nuovo edificio non può essere costruito da un giorno all’altro. Dalla Dichiarazione d’Indipendenza alla stesura delle Costituzione trascorsero undici anni. La costruzione di istituti federali efficienti richiese ancora un’altra generazione. Le opere maggiori dei fondatori della nostra nazione non consistono di documenti e dichiarazioni, bensì in un’azione creatrice e risoluta. La costruzione della nuova casa dell’Europa ha seguito questo stesso corso pratico e determinato. L’edificazione dell’Associazione Atlantica non potrà essere compiuta a buon mercato o con facilità. Ma desidero dire, in questa sede e in questa giornata dell’Indipendenza, che gli Stati Uniti si terranno pronti per una Dichiarazione di Interdipendenza, che noi saremo preparati a discutere con un’Europa Unita i modi e i mezzi per costituire una concreta associazione atlantica, un’associazione de reciproco vantaggio tra la nuova Unione che va ora formandosi in Europa e la vecchia Unione americana che venne qui fondata poco meno che due secoli fa.

Tutto questo non sarà portato a termine nel giro di un anno ma che il mondo sappia che questa è ora la nostra meta.

Nel sollecitare l’approvazione della Costituzione, Alexander Hamilton invitò i suoi concittadini dello Stato di New York a «pensare in termini continentali». Oggi gli americani debbono imparare a pensare in termini intercontinentali. Operando da soli non possiamo instaurare la giustizia in tutto il mondo. Non possiamo garantirne la tranquillità interna, o provvedere alla sua comune difesa, o promuoverne il benessere generale, o assicurare le benedizioni della libertà a noi stessi e alla nostra posterità. Ma uniti ad altre nazioni libere, potremo fare tutto questo e ancora di più. Potremo aiutare le nazioni in fase di sviluppo e scuotere il giogo della miseria. Potremo equilibrare i nostri scambi e pagamenti mondiali al più alto livello possibile d’incremento. Potremo costituire una forza deterrente sufficientemente poderosa per scoraggiare qualsiasi aggressione. E, infine, potremo contribuire alla realizzazione di un mondo basato sulla legge e sulla libera scelta, ponendo al bando il mondo della guerra e della coercizione.

Ché l’Associazione Atlantica di cui parlo non si chiuderebbe in sé stessa, preoccupandosi solo del proprio benessere e del proprio progresso. Essa deve guardare anche all’esterno, ad una collaborazione con tutte le nazioni per soddisfare i comuni interessi. E fungerebbe da nucleo per una futura unione di uomini liberi, quelli già liberi oggi e quelli che hanno fatto voto di esserlo un giorno.

Nella ricorrenza del genetliaco di Washington, nell’anno 1861, Abraham Lincoln, allora Presidente eletto, durante il viaggio che lo avrebbe portato nella capitale della nazione si fermò a parlare in questa sede. E rese un breve ma eloquente tributo agli uomini che avevano stilato la Dichiarazione d’Indipendenza ed avevano combattuto ed erano morti per essa. La sua assenza, egli disse, consisteva nel fatto che essa racchiudeva una promessa non solo di libertà «per il popolo di questo paese ma di speranza per il mondo…speranza che a suo tempo tutti gli uomini potessero essere liberati dai loro fardelli e tutti potessero godere di uguali possibilità».

In questo 4 luglio 1962, noi che siamo riuniti in questo stesso luogo – e cui sono affidati la sorte e il futuro degli Stati Uniti e della Nazione – solennemente assumiamo ora l’impegno di fare quanto sta in noi per liberare tutti gli uomini del loro fardello, di unirci agli altri uomini e alle altre nazioni per preservare sia la pace che la libertà e di considerare qualsiasi minaccia alla pace o alla libertà di un solo come una minaccia alla pace e alla libertà di tutti. E a sostegno di tale dichiarazione, con ferma fiducia nella protezione della Divina Provvidenza, noi offriamo reciprocamente in pegno gli uni agli altri le nostre vite, i nostri averi e il nostro sacro onore.

John F. Kennedy

 

Commento.

L’Europa e l’Italia pongano mente e memoria a questo discorso, mai come in questi tempi, così attuale. L’oscurantismo che manifesta la politica tutta in quest’ultima fase storica, è l’alimento che nutre, avvelena e uccide il liberalismo e la democrazia, che, pur nella loro imperfezione, noi, uomini e donne del popolo, vi abbiamo creduto operando con fervore e lavorando sodo dal dopo guerra sino ad una decina d’anni or sono; poi il cronico ripetersi di crisi economiche e in ultimo, il terrore imposto per coprirle, ci ha reso sfiduciati e posto in difesa a oltranza.  

In questi drammatici frangenti il discorso è rivolto soprattutto all’Italia politica, la quale “pare” si sia persa, nel malcostume, la volgarità, l’ignominia e l’improvvisazione, che si sposa con l’incapacità, oggetto e causa dell’infimo livello dell’attuale “casta” di politicanti (e non solo) che, senza distinzione alcuna, governano il paese soltanto per cupidigia di potere, sovvertendo la volontà espressa democraticamente del popolo; non dimentichiamolo. Una vergogna che non ha pari.

Carlo Ellena

Il presidente Kennedy dinanzi alla “Campana della libertà” a Philadelphia

Condividi questo articolo

Sulla Legge di Bilancio, pensioni e “quota 100”

Riporto in toto uno studio minuzioso di Roberto Brambilla sulle nuove regole contenute nel maxiemendamento alla Legge di Bilancio 2019.

Un articolo che illustra il nuovo sistema assistenziale introdotto per legge ma già diffuso da decenni dai governi d’ispirazione comunista; ora, con la nuova Legge, si è aggiunta la pretesa che questa, creerebbe “posti di lavoro”. La sciagurata logica statalista dei “penta stellati”, mirata a ingigantire il debito pubblico a tutti i costi, è uno scriteriato pretesto politico e non una misura utile al mondo del lavoro; altro che meritocrazia e senso del dovere! Il futuro dei nostri giovani (se l’avranno) sembra già fatalmente compromesso.

 

Editoriale di Roberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, su il punto Pensioni & Lavoro del 20.12.2018. Inserto sul giornale di gennaio 2019 n° 27 di PersoneSocietà – della Confartigianato ANAP di Roma.

Nel nostro paese, nel 2018, sono in pagamento circa 23 milioni di prestazioni pensionistiche, di cui beneficiano circa 16 milioni di pensionati, il che vuol dire che ogni pensionato percepisce 1,433 pensioni (quasi un assegno pensionistico e mezzo a testa). Sul totale delle prestazioni in pagamento poco più di 8 milioni (il 35%) sono pari a 1 il minimo (circa 508 euro al mese per 13 mensilità): di queste, quasi 6 milioni (il 75%) sono totalmente (circa 2 milioni) o parzialmente (4 milioni) assistite e finanziate dallo Stato attraverso la fiscalità generale (cioè, nella pratica, da chi paga le imposte). Tra 2 e 3 volte il minimo ci sono altre 10,65 milioni di pensioni (il 46%); da 3 a 4 volte il minimo ce ne sono altre 2 milioni; in totale fanno 20,62 milioni su 23 milioni totali (90%).
Per avere una pensione al minimo bastano 15 anni di versamenti contributivi su un normale stipendio contrattuale. Significa quindi che in 66 anni di vita questo 75% di pensionati non ha versato nemmeno questi contributi e non ha pagato quindi un euro di tasse; pochi contributi e imposte anche per quelli fino a 2 volte il minimo. Si tratta di un numero di pensioni molto alto se si pensa che nei paesi Ocse il tasso fisiologico dei soggetti “sfortunati” per motivi psicofisici o dipendenti da eventi particolari non supera il 10/12% degli aventi diritto.
In questi paesi i controlli fiscali contribuiscono, peraltro, a contenere questo fenomeno eliminando gran parte delle elusioni fiscali e contributive e riducendo il livello di economia illegale, che Istat stima per l’Italia pari al 13% del PIL (210 miliardi di euro circa). Secondo altre istituzioni, questo valore potrebbe arrivare addirittura fino al 25% del PIL. Con il maxiemendamento alla legge di bilancio per il 2019, è stata proposta una modifica al meccanismo di indicizzazione delle pensioni che prevede la rivalutazione completa solo per i trattamenti fino a tre volte il minimo. Il governo del cambiamento ha proposto una delle peggiori e bizantine indicizzazioni in termini di equità: rivalutazione del 100% dell’inflazione (1,1% l’incremento sulle pensioni per il 2019) per il 18,67 milioni di pensioni fino a 3 volte il minino (1.524 euro lordi) di cui, come abbiamo visto, un terzo sono totalmente o parzialmente assistite. I percettori di queste prestazioni fanno parte del 44,92% di italiani che in totale pagano solo il 2,8% dell’Irpef totale (cioè nulla). Sulle pensioni frutto di contributi realmente versati, i più fortunati sono quelli che prendono tra 4 e 5 volte il minimo, la cui pensione verrà rivalutata non per scaglioni (come avviene per la progressività fiscale) ma sull’intero importo al 52% tra 5 e 6 volte il minimo, al 47% tra 6 e 8 volte, al 45% tra 8 e 9 volte, e al 40% oltre le 9 volte; in pratica metà inflazione. Questi pensionati rientrano nel “club” del 4,36% di contribuenti che versano il 36,52% di tutta l’Irpef; aggiungendo anche i pensionati tra 4 e 5 volte il minimo, la cui rivalutazione è pari al 77% dell’inflazione, si arriva al 12,09% di contribuenti che però versano il 57,11% di tutta l’Irpef. Supponendo un’inflazione media dell’1,1% e un periodo di fruizione della pensione di 20 anni, la riduzione dell’indicizzazione 2019 al 50% è pari a una decurtazione del potere d’acquisto di 0,5% l’anno che, capitalizzata, porta la riduzione a fine periodo a oltre il 12%. A questa perdita si assommano quelle del biennio successivo.
Ma la guerra ai pensionati non finisce qui; infatti per quanti percepiscono assegni superiori a 100.000 euro lordi l’anno (circa 60 mila euro netti l’anno, non proprio dei nababbi) è pure previsto, per la durata di 5 anni, un taglio lineare delle pensioni (si veda tabella 1). «L’operazione è stata presentata come una riduzione della parte di pensione non coperta da contributi – puntualizza Brambilla – ma in realtà come evidenziato dall’Approfondimento a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali sul ricalcolo delle pensioni oltre i 4.500 euro netti al mese, è un taglio senza alcuna logica. Infatti, le pensioni maggiormente avvantaggiate dal metodo retributivo, come dimostrato anche da uno studio di Stefano Patriarca, sono quelle intermedie fino a 3.500 euro. Stiamo cioè parlando di pensionati che fanno parte di quel 4,36% di contribuenti che mantengono il restante 46% della popolazione (a proposito, per quest’ultimo gruppo, con riferimento ai costi della sola sanità, occorrono circa 50 miliardi l’anno a carico di redditi e pensioni definite dai gialloverdi “d’oro”)».
Infine, se è vero che oltre il 60% delle prestazioni assistenziali che godono della rivalutazione totale e potrebbero addirittura beneficiare dell’incremento relativo alle cosiddette “pensioni di cittadinanza”, sono pagate al Sud, lo è altrettanto che circa il 70% delle pensioni tagliate e poco indicizzate stanno al Nord. Il grosso rischio della “guerra delle pensioni” e delle pensioni di cittadinanza, è quello di aumentare le pensioni basse e assistenziali, i cui maggiori beneficiare sono spesso “furbi”, elusori ed evasori, persone che sfruttano il lavoro nero e foraggiano l’economia illegale. Anziché premiare il senso del dovere, dello Stato e il merito, assistiamo a un trasferimento forzoso di risorse da lavoro, a assistenza e da Nord a Sud: un ottimo risultato per la Lega (ex Nord). Con un costo per la collettività e per lo sviluppo del paese, spaventoso.

Due anziani che vengono invitati ad andare a lavorare

Riforma pensionistica
Immagine tratta da lasvolta2017.com

Nelle due tabelle sottostanti; a confronto la situazione di oggi e l’ipotesi Berlusconi.

Tabella situazione pensionistica

Tabelle che confrontano la situazione di oggi e l’ipotesi Berlusconi

 

Traggo da “La voce di Trieste” un articolo sulla drammatica, quanto tenace resistenza, di questa gloriosa città per far valere i suoi diritti calpestati dai governi italiani che si sono succeduti nei vari decenni. Molto importante aprire i LINK; in particolare quello del Memorandum di partenariato-Italia-Cina.

Logo di

Segue l’articolo originale: Trieste: accordo illegittimo dell’Autorità Portuale con China Communications Construction Company (29 marzo 2019). La Voce di Trieste tratto da https://www.lavoceditrieste.net/2019/03/29/trieste-accordo-illegittimo-dellautorita-portuale-con-china-communications-construction-company

Trieste: accordo illegittimo dell’Autorità Portuale con China Communications Construction Company.

Il 26 marzo 2019 la International Provisional Representative of the Free Territory of Trieste – I.P.R. F.T.T. ha inviato al Governo italiano amministratore una nota ufficiale di protesta per l’accordo firmato a Roma il 23 marzo con China Communications Construction Company – CCCC dal Presidente dell’attuale Autorità Portuale di Trieste, Zeno D’Agostino dopo la firma del Memorandum d’intesa Italia – Cina.

La nota di protesta (LINK) precisa i motivi di illegittimità assoluta dell’accordo firmato dall’Autorità Portuale, e chiede al Governo italiano amministratore di assumere i provvedimenti necessari al ripristino della legalità nella gestione del Porto Franco internazionale e del porto doganale dell’attuale Free Territory of Trieste. In caso contrario, la I.P.R. F.T.T. intende attivare tutte le difese legali necessarie.

Il Memorandum d’Intesa Italia – Cina

Il 23 marzo 2019 Italia e Cina hanno firmato a Roma il preannunciato «Memorandum d’intesa tra il Governo della Repubblica Popolare Cinese sulla collaborazione nell’ambito della Via della Seta economica e dell’Iniziativa per una Via della Seta marittima del 21° secolo» (LINK).

Le materie di cooperazione concreta previste dal Memorandum sono i trasporti, la logistica e le infrastrutture – inclusi i porti, le ferrovie e le strade – l’energia e le telecomunicazioni, anche per quanto riguarda la libertà degli investimenti e delle partecipazioni finanziarie pubblici e privati, le concessioni e gli appalti.

Le cooperazioni previste non riguardano perciò il normale flusso reciproco delle merci, ma il controllo delle infrastrutture portuali, di trasporto e di comunicazione della penisola italiana e della Sicilia che hanno valenza economica e strategica primaria per l’Europa e per gli equilibri strategici euro-atlantici e mediterranei.

I rischi strategici conseguenti sono determinati dalla debolezza politico-economica dell’Italia e dall’enorme potere di pressione che la R.P.C. può esercitare per espandere la propria sfera d’influenza economica, politica e militare oltre i limiti di equilibrio con gli U.S.A. e con la Russia. Le preoccupazioni e le contrarietà internazionali sono perciò perfettamente fondate.

La pericolosità economica e strategica concreta dell’operazione è stata infatti confermata dal contenuto di alcuni degli accordi principali firmati a Roma immediatamente dopo il Memorandum, ed in particolare da un accordo illegittimo sui collegamenti ferroviari del porto di Trieste.

Il ruolo strategico del Free Territory of Trieste

Il Governo italiano non ha infatti alcun diritto di consentire ad imprese ed investitori di Stato della R.P.C. di ottenere anche il controllo delle infrastrutture portuali e ferroviarie strategiche dell’attuale Free Territory of Trieste, dove esercita un mandato fiduciario di amministrazione civile provvisoria che gli è stato sub-affidato dai Governi degli USA e dal Regno Unito quali amministratori primari per conto del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

L’11 marzo 2019 la International Provisional Representative of the Free Territory of Trieste – I.P.R. F.T.T. aveva perciò inviato al Governo italiano una prima nota ufficiale di protesta, riguardante l’inclusione illegittima del Porto Franco internazionale e del porto doganale di Trieste nelle trattative politico-economiche in corso tra Italia e Cina, riservandosi tutte le necessarie difese (LINK).

Natura e limiti giuridici del Memorandum

Il Memorandum italo-cinese del 23 marzo è stato redatto nella forma di una dichiarazione bilaterale d’intenti che non costituisce accordo internazionale da cui possano derivare diritti ed obblighi di diritto internazionale, né obblighi giuridici, finanziari o impegni, e dovrà essere interpretato in conformità con le rispettive legislazioni nazionali, con il diritto internazionale e, per quanto riguarda l’Italia, con gli obblighi derivanti dalla sua appartenenza all’Unione Europea.

Il Memorandum d’Intesa, quale atto bilaterale, e gli accordi concreti conseguenti non possono perciò coinvolgere legittimamente Paesi terzi, qual’è l’attuale Free Territory of Trieste che i Governi di Stati Uniti e Regno Unito hanno sub-affidato all’amministrazione civile provvisoria del Governo italiano ed alla difesa militare della NATO. Per questo motivo, Trieste ha anche la funzione di base navale degli U.S.A. e della NATO.

L’accordo illegale su Trieste

I limiti giuridici del Memorandum d’intesa sottoscritto dai Governi italiano e cinese sono stati violati con la firma successiva di un «Accordo di cooperazione fra Autorità di Sistema Portuale del mare Adriatico Orientale – Porti di Trieste e Monfalcone e China Communications Construction Company (CCCC)» // «Cooperation agreement between the Port System Authorities of the Eastern Adriatic Sea – Ports of Trieste and Monfalcone and China Communications Construction Company (CCCC)», che riguarda lo sviluppo ed il controllo delle ferrovie di collegamento del Porto Franco internazionale e del porto doganale di Trieste (LINK).

L’accordo è stato preparato e sottoscritto da Zeno D’Agostino, funzionario italiano imposto nel 2015 da politici del PD come Presidente dell’Autorità Portuale italiana di Trieste, che è un organo provvisorio illegittimo perché opera in sostituzione del legittimo Direttore del Porto Franco che il Governo italiano sub-amministratore ha l’obbligo di nominare in esecuzione dell’art. 18 dell’Allegato VIII del Trattato di Pace con l’Italia del 1947 (LINK).

Il Presidente dell’Autorità Portuale italiana di Trieste non aveva e non ha perciò il potere di predisporre, firmare od eseguire quel genere di accordi, e quale funzionario del Governo italiano sub-amministratore ha l’obbligo giuridico di impedire che qualsiasi Stato prenda il controllo delle infrastrutture portuali e ferroviarie dell’attuale Free Territory of Trieste e del suo Porto Franco internazionale.

L’accordo firmato da Zeno D’Agostino consentirebbe invece agli investitori di Stato della R.P.C. di assumere il controllo delle ferrovie necessarie allo sviluppo delle aree del Porto Franco internazionale delle quali essi tentano di assumere il controllo acquistando quote e beni di società private alle quali lo stesso D’Agostino garantisce concessioni a lungo termine secondo leggi portuali italiane inapplicabili a Trieste.

Zeno D’Agostino è inoltre il Presidente del consorzio COSELAG, che si prepara a vendere agli investitori di Stato della R.P.C. le aree industriali necessarie per costruire uno dei due nuovi scali ferroviari che diverrebbero di loro proprietà.

Lo stesso presidente dell’Autorità Portuale illegittima, Zeno D’Agostino, consente inoltre all’attuale sindaco del Comune di Trieste, Roberto Dipiazza, di occupare il Porto Franco Nord con interventi provatamente illegittimi per decine di milioni di euro a danno patrimoniale del Comune e dell’Autorità Portuale, che ha perciò l’obbligo giuridico di impedirli.

La legalità è divenuta necessità strategica

Si può quindi affermare che in questo modo la gestione attuale del Porto Franco internazionale del Free Territory of Trieste sub-affidato all’amministrazione civile del Governo italiano ha raggiunto in questo modo livelli di illegalità intollerabili e senza precedenti.

E che dopo l’accordo illegittimo firmato il 23 marzo tra Zeno d’Agostino ed investitori di Stato della R.P.C. il ripristino della legalità nell’attuale Free Territory of Trieste è divenuto una necessità strategica di rilievo internazionale.

I.L.

 

Sul Memorandun d’intesa Italia-Cina pesano come un macigno tre fatti: 1°) La totale disinformazione riservata ai cittadini; 2°) La fretta dimostrata nel voler concludere un accordo di dubbia convenienza per un’urgenza solo politica dei penta stellati; 3°) Il Memorandun, detto in modo esplicito, è un tentativo, neppure troppo velato, di intromettersi nei settori chiave (comunicazioni, ferrovie, porti e aeroporti e ben altro) del nostro indebitato paese, con la RPC che spinge a tutto vapore per espandersi, forte del suo enorme potere economico-politico.

La Cina conta circa un miliardo e 400 milioni di abitanti e un bisogno insaziabile di energia ma soprattutto di super-tecnologie per produrre lavoro, per cui deve investire in altri paesi per acquisire territori, scambi e “materiale umano”. Si tratta di un progetto difficile da sviluppare, particolarmente in Europa, per il modello di mercato RPC non libero ma sotto il super-controllo del governo comunista. È una questione molto complessa, che va esaminata e discussa con la nuova Europa nascente, in modo aperto e non con sciocche, quanto improvvide dichiarazioni del nostro Presidente del Consiglio G. Conte. Bisogna tenere ben presente una regola: chi investe in un’azienda per trarre profitto, ne diventa comproprietario.

Il partenariato.

Questa forma di “partenariato” è completamente diversa di quella di triste memoria del 1974 con la Lega Araba; essa voleva impadronirsi di grandi porzioni di territorio per investire le sue enormi ricchezze ma soprattutto ampliare la sua sfera religiosa per islamizzare gli abitanti secondo i principi coranici.

Un particolare che riguarda la Cina che può sembrare banale ma non lo è affatto; si trova proprio nella formazione dei giovani.

Il governo cinese guarda lontano e prepara all’uopo milioni dei suoi giovani, i quali forse non giocano a calcio e non hanno la “Juventus” (per fortuna loro) e non sono perditempo come i nostri.

Orbene; gli inglesi hanno “portato” in Cina un gioco al biliardo che si chiama Snooker.

Si tratta di una vera disciplina che impegna il giocatore a conoscerne bene le regole, i comportamenti e lealtà verso gli avversari e una vera etica sportiva. Richiede lunghi allenamenti al Club, studio di tattiche per le centinaia di combinazioni al tiro e precisione nel colpire la biglia.

È una sorta di gioco a scacchi ma molto più dinamico per i movimenti attorno al grande tavolo. Ebbene, in pochi anni nella grande Cina si sono aperti oltre 5.000 (cinquemila) Club e scuole che insegnano questa disciplina. Oggi capita che decine giovani di 17 anni vincano partite su esperti campioni quarantenni del Regno Unito; tra l’altro, i tavoli da gioco sono costruiti nella stessa Cina, che ha conquistato il mercato globale.

Sono molti anni che seguo con la famiglia questo magnifico gioco sui canali di Eurosport, perché la RAI trasmette nelle sue reti, sino alla nausea, partite di calcio, portando in auge tale gioco quale “sport” nazionale per eccellenza. Non è per niente così; conta circa il 35/40% di appassionati e non è più “sport” ma fabbrica di malaffare, imbrogli, produce violenza, portando inevitabilmente ad azioni delinquenziali, ed è, a tutti gli effetti, il “5° Stato”, in quanto Lega autonoma intoccabile.

Belt and Road: frase impropria che significherebbe “La nuova via delle seta”, è comunque espressione dai contenuti piuttosto oscuri. Si tratta di un grandioso progetto partito dalla Cina già nel 2013 per creare rapporti politici e trattative con oltre sessanta paesi dell’Africa, Asia ed Europa. Si tratta di un partenariato minutamente studiato per concorrere e influenzare, con allettanti finanziamenti, le strutture dei trasporti di terra, mare e cielo nei paesi con politiche deboli come l’Italia.

Cartina raffigurante

Cartina raffigurante “La nuova via delle seta”
Immagine tratta da eurolinkgeie.com

Partenariato è un termine dai significati funesti per l’Italia e richiama tutto il paese al ricordo di quello sottoscritto dal prode Romano Prodi con la Lega Araba nel non troppo lontano 1974.

In ottemperanza di questo “accordo” abbiamo, oggi, centinaia di migliaia di extracomunitari abusivi che vivono sulle spalle degli italiani con costi enormi, non rimborsabili, in nome di un vergognoso mercimonio umano che il padre della cristianità don Francesco chiama, con una faccia di bronzo che non ha eguali, “solidarietà”. Nel frattempo gli arabi hanno acquistato interi isolati in grandi città del Nord.

Una precisazione: l’allora Presidente del Consiglio Romano Prodi (1996/1998), nel 1999 era anche Presidente della Commissione Europea.

Riporto qui parte di un mio articolo del 2012 sull’argomento e già pubblicato tempo addietro nel BLOG.

Nel 1974, quando si era tenuta a Lahore la II° Conferenza Islamica, presenti tutti i potenti del mondo musulmano, si erano tracciate le linee di una politica Islamo-araba di portata internazionale, tanto che “Il Segretario generale della Conferenza Islamica Muhammad Hasan ‘al-Tuhāmi parlò di uno stato islamico che avrebbe cercato di diffondere l’islām anche nei paesi non musulmani”.

Specificato nello “Statuto degli Stati Arabi” (il comma b), tra le altre norme, illustra in modo chiaro che:«…nel 1964 è stato formato il Consiglio Arabo per L’unità Economica dei 12 Stati membri della Lega. Gli obiettivi di questo Consiglio includono, fra gli altri, l’inizio delle azioni per creare un mercato comune arabo, allo scopo di garantire la libertà di movimento e transito d’individui, capitali e beni, così come la libertà di ottenere lavoro e acquisto di proprietà ».

L’ambizioso progetto prendeva concretamente corpo nei decenni successivi anche attraverso il DEA, divenuto lo strumento decisivo del successo di questo progetto di partenariato.

“Questi programmi sono stati entusiasticamente accolti, applicati e recepiti da leader, intellettuali e attivisti europei, non solo, ma anche elargendo cospicui finanziamenti ai palestinesi e ai Fratelli Musulmani per creare le loro ramificazioni in tutta l’Europa occidentale”.

L’avventata e imprudente politica di partenariato capeggiata dalla Francia, aveva volutamente allontanato dell’Europa dagli Stati Uniti, sottovalutando in modo improvvido la jihād.

In seguito l’Europa aveva cercato, francamente senza convinzione, di estraniarsi dalla jihād attuando un’ambigua politica che l’aveva portata a una sorta di collusione con il terrorismo internazionale accusando gli Stati Uniti e Israele di alimentare i movimenti jihadisti.

L’Europa filo-arabo-islamica aveva continuato la sua politica di sottomissione e a quanto risulta, beneficiando in un solo decennio la Lega Araba di oltre 10 (dieci) miliardi di dollari; il tutto portato avanti con icastico impegno dal Presidente di turno Romano Prodi. Una vera follia, tenendo conto che questo denaro sarebbe servito per ben altro a casa nostra, o altrimenti utile a mitigare gli effetti dell’attuale grave crisi (siamo nel 2012). Altro fatto inconcepibile di questa storia è avvenuto nel  1994 con il conferimento-farsa del “Nobel per la pace” a Jasser Arafat, nonché il 19 febbraio 1999, su iniziativa del Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, veniva nominato lo stesso Arafat “Cavaliere di gran Croce, decorato di gran cordone dell’Ordine al merito della Repubblica italiana”, un segno dell’ambiguo servilismo dei politici italiani verso un patriota palestinese abilissimo in politica; un pacifista che circolava con il mitra sottobraccio e sospetto colluso con il terrorismo.

Il 10 febbraio 2012 una notizia ammutoliva Torino: era quella di creare nella città “Una sola casa per i musulmani del Piemonte”, in cui i buoni propositi erano di “ Un futuro di convivenza e di pace”, annunciando ai piemontesi la nascita della “Confederazione Nazionale”, la quale si porrà quale “Interlocutore dello Stato italiano”, chiedendo inoltre il riconoscimento della religione islamica. Tutto questo succedeva mentre Torino e il Piemonte vivevano una tremenda crisi politica e di lavoro; in quel periodo Sindaco di Torino era il comunista Piero Fassino, succeduto all’altro comunista Sergio Chiamparino.

Ritornando al 19 gennaio Il “Fatto Quotidiano” scriveva:« Torino ha finito i soldi. Le casse di Palazzo Civico sono vuote, e sui cittadini sabaudi grava un debito che l’anno scorso è salito a 4,5 miliardi di euro, record assoluto in Italia. In questi giorni la giunta Fassino ha approvato il bilancio previsionale 2012. Non è stata una passeggiata, non soltanto per il fuoco di sbarramento dei 30mila emendamenti al testo posti dall’opposizione Pdl-Lega, ma soprattutto perché la grana dei derivati non ha certo consentito ampi margini di manovra. In più bisognava tentare il rientro nello «stupido» Patto di stabilità, come l’aveva definito Fassino alla fine dell’anno scorso.

La Relazione previsionale programmatica redatta da Domenico Pizzala, influente collaboratore dell’assessore al Bilancio Gianguido Passoni, parla chiaro: «Gli oneri finanziari derivanti dall’indebitamento […] condizionano in parte il bilancio comunale. Tale condizionamento tenderà ad aumentare se non continuerà una incisiva e adeguata politica di contenimento della spesa e di dismissioni patrimoniali». Due obiettivi che, stando ai numeri contenuti nel documento, appaiono difficili da realizzare…»

Eppure Torino continua a essere un contenitore arabo-islamico e fintanto che al comando della Regione Piemonte ci sarà un Presidente come Sergio Chiamparino, detta Regione rimarrà inchiodata al passatismo e a iniziative miranti a un’accoglienza esasperata di gente extracomunitaria mantenuta con costi spaventosi (circa un paio di mesi fa è stata tolta ai migranti la gratuità ai contraccettivi; persino quelli erano gratis), denari estorti al mondo del lavoro con effetti, in tale congiuntura sfavorevole, di alimentare la continua emorragia delle imprese e dei giovani.

L’attuale “guerra libica”.

Nella cruda realtà è una finta guerra ma con veri, poveri morti e non per migliorare la condizione di cittadini e di tribù libiche o africane; si tratta di una guerra di convenienza  In questo conflitto il petrolio conta poco, ci sono altri motivi, appunto di convenienze e di profitti più facili; attraverso la ripresa del moderno schiavismo criminale (gli scafisti), o mercimonio umano, con un numero spaventoso di africani, libici compresi, spinti alla fuga (si parla di circa un milione di persone). Potentissimi magnati, politici e militari africani sono i burattinai senza scrupoli che tirano le fila di questo funereo teatro creato all’uopo nello scacchiere libico. “La questione libica” è una vecchia storia all’italiana: la lunga guerra di “conquista” 1911- 1931, recentemente ancora nel 2011, nella guerra contro Muammar Gheddafi, con il governo Berlusconi che voleva intervenire a fianco dei francesi, i quali gli scaricarono tutte le responsabilità che in realtà erano del presidente Napolitano detto “emerito” solo perché comunista (sempre loro), ma senza alcun merito e molti demeriti.

Le cosiddette “guerre di convenienza” esistono da secoli; in particolare nelle vecchie monarchie. Poche o molte migliaia di morti servivano per giustificare scambi, acquisizioni di territori e financo di Stati. Le monarchie si accordavano senza andare troppo per il sottile sul numero delle perdite umane. Ecco un esempio fra mille; l’intervento piemontese nella guerra di Crimea (1853 – 1856), è stato uno di quegli accordi “vantaggiosi”, fatti “ al prezzo di qualche migliaio di morti”.

Molto ingenuamente si pensava che oggi, almeno in Europa, la schiavitù fosse storia finita da molto tempo ma stando a quanto succede, credo che per i principali responsabili sia giunta l’ora di fare i conti con processi pubblici che infliggano condanne severe e inappellabili.

16 aprile 2019

                                                                                                                                 Carlo Ellena

Condividi questo articolo

Italia, timida voglia di autonomia – APPROFONDIMENTO

A seguito del post precedente relativo alla Costituzione Federale, ne riporto un capitolo importante.

I requisiti necessari (di Gianfranco Miglio).

 

Una “vera” Costituzione Federale deve avere i seguenti requisiti. Se non li ha, non è federale (e quindi non produce gli effetti che da essa si attendono, ma crea invece danni incalcolabili).

  1. In primo luogo le regole che seguono devono derivare da un’apposita Costituzione. Non si possono innestare “elementi di federalismo” su di una Costituzione ispirata ad altro modello. La revisione costituzionale deve poi essere soggetta a procedure molto aggravate: discussa e approvata da coloro che detengono il potere nei diversi livelli e dai cittadini di tutte le unità (Cantoni) che compongono la Federazione.
  2. Il potere deve essere diviso sul territorio: nel senso che le funzioni di governo non siano concentrate in un solo fulcro di potere ma divise stabilmente fra almeno due aree. Queste possono essere più di due ma mai meno di due: i soggetti membri della Federazione (Cantoni) e la Federazione stessa. La diffusione del potere nella Costituzione Federale fa sì che in questa non esista alcun “sovrano”. “Sovrano” (secondo la più genuina concezione del costituzionalismo europeo) è soltanto l’ordinamento nel suo complesso. In questo senso i titolari di funzioni pubbliche, sono “partecipi” della sovranità. Ma quest’ultima, nella sua accezione tradizionale e solitaria, viene superata e sostituita, da momenti di decisione funzionale diffusi nell’intera Costituzione.
  3. L’autorità federale non deve essere un potere “superiore” o comunque separato dalle autorità che governano i “Cantoni”: deve nascere dall’assemblaggio dei governi cantonali. La forma di governo più adatta ad una Costituzione Federale, è perciò quella “direttoriale” (come nella Confederazione Elvetica): un Direttorio composto dai vertici stessi dei “Cantoni” e soltanto “guidato” da un Presidente eletto da tutti i cittadini. In tal modo, autorità cantonali ed autorità federale si combinano e si compattano, rendendo immediato il confronto delle decisioni e riducendo il percorso necessario per giungere a queste ultime.
  4. I Cantoni (ordinari e principali, fatto salvo dunque il caso delle Regioni a statuto speciale) non devono essere piccoli. E ciò per tre ragioni: a) per poter gestire efficacemente le vaste esigenze del governo; b) per poter resistere alle lusinghe o alle minacce (pretese “sostitutive”) dell’autorità federale ( come invece non è accaduto in USA ed in Germania); c) per poter formare, con i propri vertici, un Direttorio federale agile e funzionale.
    Una Federazione, costituita da molti piccoli soggetti (Regioni, Lӓnder e così via) è destinata rapidamente a trasformarsi in un sistema centralizzato. Hamilton chiedeva che gli Stati Uniti fossero composti da tanti piccoli “States”, perché pensava che la Federazione fosse lo stadio di transizione verso una Repubblica nazionale centralizzata. E se la Confederazione elvetica è rimasta tale, sebbene composta da ventitré piccoli Cantoni, ciò è accaduto perché questi ultimi sono sorretti e guidati da cittadini, irriducibilmente decisi, per secolare tradizione, a difendere la loro individualità: tutto il contrario delle nostre “Regioni”.
    Una federazione, formata da grossi Cantoni, apre la sola prospettiva possibile a una integrazione europea di tipo anch’essa “federale”: perché un reticolo di contratti (trattati) fra “grandi regioni” (Cantoni) al di sopra dei confini “nazionali”, costituirà il superamento del pluralismo negativo degli “Stati sovrani” oggi ancora imperante.
  5. Mentre in uno Stato unitario e accentrato si tende a comandare con atti d’imperio (provvedimenti e decisioni presi dall’alto), in un sistema federale, a tutti i livelli, si tende a operare con il sistema del contratto, cercando sempre il consenso delle popolazioni coinvolte. In una vera Federazione non c’è posto per l’autorità carismatica di un “demiurgo”, di un “salvatore della patria”, ma soltanto per “decisioni”, le quali vengono prese, dai titolari di pubblico ufficio, dopo che si è negoziato fino al limite del possibile.
    Egualmente non si ricorre alla regola della “maggioranza” per troncare un eventuale contrasto. Perché coloro che si trovano in “minoranza” devono essere convinti prima di dover rinunciare alla loro opzione; verso coloro che sono in minoranza non si deve usare la violenza del numero ma la persuasione del negoziato.In una Federazione non c’è spazio per il principio “gerarchico”: autorità cantonale (e prerogativa municipale) da un lato e autorità federale dall’altro, non costituiscono una “gerarchia” ma sono “parimenti ordinate”. Da qui deriva che il principio di “sussidiarietà” è intimamente opposto allo spirito del federalismo, ed è invece funzionale alla creazione – o alla restaurazione – di un sistema unitario e centralizzato.Sussidiarietà e gerarchia sono sinonimi.
  6. Il punto cruciale di ogni ordinamento federale è l’esistenza di procedure, costituzionalmente organizzate e garantite, che – salvaguardata la competitività implicita del sistema, ed il suo riposare su di un confronto senza fine – producano decisioni normative e governamentali certe e in tempi ragionevolmente brevi. Dopo avere discusso fino in fondo e confrontato le posizioni divergenti, si devono operare scelte non equivoche e per quanto possibile precise. Le istituzioni della Repubblica federale devono attribuire questa responsabilità decisionale a persone e a collegi precisi, situati nei diversi livelli dell’ordinamento.
    Tali procedure controbilanciano il carattere contrattuale, competitivo e aperto del sistema federale. Discutere sempre fino in fondo ma poi, in tempi certi e prestabiliti, decidere.
  7. Un ordinamento federale è alimentato e sorretto da due vocazioni, da due inclinazioni ideali dei suoi cittadini, La prima di queste è un profondo interesse e rispetto per le diversità: per ciò che – sul piano dei costumi, delle tradizioni culturali, dello stile di vita – differenzia le persone e le loro aggregazioni. La pretesa di rendere l’umanità omogenea è profondamente estranea al vero federalista. Perché è un conto battersi affinché i diritti civici e individuali siano estesi a tutti gli uomini e le donne; un conto è invece pretendere che quest’uguaglianza giuridica sia la base per far diventare uniformi ed omogenei tutti i popoli che la natura ha reso – e continua a far diventare – diversi. Così, mentre uno Stato unitario ed accentrato, mira a rendere tutti i cittadini eguali, omogenei e diretti dall’alto, una Costituzione federale è fatta per conservare, tutelare e gestire le diversità.
  8. La seconda vocazione di una convivenza federale è il culto della concorrenza e della competizione. E ciò accade perché esiste una stretta relazione tra federalismo ed economia di mercato. Come tutte le economie “amministrate” e collettive, presuppongono una centralizzazione dei poteri ed una struttura monocratica, così al contrario l’economia di mercato, basata sul pluralismo e sulla libera iniziativa dei soggetti, trova il suo clima congeniale nei sistemi politico-amministrativi federali. Alla competizione dei soggetti economici corrisponde la competizione ed il confronto (incanalato nella Costituzione) fra i soggetti politici della Federazione (Cantoni ed altre unità legittimate).

Se si analizzano le cose con la dovuta attenzione, si deve costatare che tutti i requisiti essenziali per il successo di un moderno sistema federale, finora analizzati, sono già venuti emergendo, “di fatto”- almeno qui in Italia – negli ultimi quarant’anni; e si sono profilati nel contesto della Costituzione del 1948, man mano che questa si andava deformando. Così che l’adozione di una Costituzione federale oggi rappresenta la razionalizzazione e la traduzione in positivo, di tutti i fenomeni negativi e degenerativi che si sono venuti accumulando negli scorsi decenni. Paradossalmente la trasformazione federale è stata preparata dalla decadenza della prima Repubblica.

Condividi questo articolo

Italia, timida voglia di autonomia

Novembre 2018

Cosa pensano gli italiani dell’EURO e dell’EUROPA? Ai politici importa qualcosa?

In questo periodo convulso e confuso vari politici importanti del nuovo governo si sono affrettati a dichiarare all’Europa (che non è nemmeno una federazione) che “la moneta unica non è in discussione e nessuna uscita dall’Europa”, Giusta o sbagliata, è un’opinione dei politici, non dei cittadini. L’auspicato cambio di governo c’è stato, le nuove direttive politiche hanno creato un terremoto e la situazione merita una particolare attenzione. Tuttavia l’abitudine a immedesimarsi nei padroni del paese, si è ben presto rivelata, a costoro una domanda: ma voi sapete cosa pensano realmente gli italiani dell’EURO e dell’EUROPA? L’Inghilterra ne è uscita perché è stato il voto referendario, democratico del popolo inglese a volerlo, questa si chiama “democrazia partecipativa” di un paese maturo e civile, e ricordo per i corti di memoria, che gli inglesi per questa loro decisione sono stati insultati pesantemente da vari politici di alcuni Stati europei, la prima è stata l’Italia politica delle sinistre, non dai cittadini.
A proposito dell’EURO riporto in questo articolo di Byoblu una confessione di Giuliano Amato che ha dell’incredibile ma che si è rivelata e rivela, al presente, tutta la sua tragica verità. I veri motivi di questa sorta di “confessione” sono oscuri, certamente non per scrupoli di coscienza.
La moneta unica e l’Unione Europea, molto compromessi da politiche lontane dai cittadini, colpiscono maggiormente un’Italia sfruttata e impoverita; essa paga più di altri Stati membri la perdita della sua sovranità nazionale.

 

AMATO CONFESSA: Ecco come vi abbiamo portati nell’euro. Siamo alla follia.

pubblicato il 7 gennaio 2015 – 4.40 da Claudio Messora BYOBLU

Allucinante confessione di Giuliano Amato, deposta come se si trattasse di una marachella qualunque e non della vita di milioni di persone: sapevano, li avevano avvisati, avevano previsto tutto ma andarono avanti lo stesso! Portarono questo paese nell’euro pur consapevoli che difficilmente avrebbe funzionato. Ma non è una lezione di storia, non è il racconto della decadenza del Sacro Romano Impero. E’ qualcosa che sta succedendo adesso, qui. Andrebbe raccontato con ben altro sentimento di contrizione, non con questa nonchalance. Hanno giocato. Hanno perso, ma il debito di morte dobbiamo pagarlo noi. Siamo alla follia! Ecco le sue allucinanti parole.

“Noi abbiamo fatto una moneta senza stato. Noi abbiamo avuto la faustiana pretesa di riuscire a gestire una moneta senza metterla sotto l’ombrello di un potere caratterizzato da quei mezzi e da quei modi che sono propri dello Stato e che avevano sempre fatto ritenere che fossero le ragioni della forza, e poi della credibilità che ciascuna moneta ha.

Eravamo pazzi? Qualche esperimento nella storia c’era stato di monete senza Stato, di monete comuni, di unioni monetarie, ma per la verità non erano stati molto fortunati. Perché noi, quando ci siamo dotati di una moneta unica, abbiamo pensato che potevamo riuscirci in termini di Unione, e non facendo lo Stato europeo? Avevamo già costruito un mercato economico comune fortemente integrato. Più o meno avevamo un assetto istituzionale che non era quello di uno Stato ma certo era qualcosa di molto più robusto di quello che usualmente c’è a questo mondo: la comunità europea, l’Unione Europea, col suo Parlamento, la sua Commissione, i suoi Consigli. Abbiamo anche previsto di avere una banca centrale.

Però, sapete com’è, abbiamo deciso che trasferire a livello europeo quei poteri di sovranità economica che sono legati alla moneta era troppo più di quanto ciascuno degli stati membri fosse disposto a fare. E allora ci siamo convinti, e abbiamo cercato di convincere il mondo, che sarebbe bastato coordinare le nostre politiche nazionali per avere quella zona, quella convergenza economica, quegli equilibri economici-fiscali interni all’Unione Europea che servono a dare forza reale alla moneta.

Non tutti ci hanno creduto. Molti economisti, specie americani, ci hanno detto allora:

Guardate che non ci riuscirete! Non vi funzionerà! Se vi succede qualche problema che magari investe uno solo dei vostri paesi, non avrete gli strumenti centrali che per esempio noi negli Stati Uniti abbiamo, che può intervenire il governo centrale, riequilibrare con la finanza nazionale le difficoltà delle finanze locali. La vostra banca centrale, se non è la banca centrale di uno Stato, non può assolvere alla stessa funzione cui assolve la banca centrale di uno Stato, che quando lo Stato lo decide diventa il pagatore senza limiti di ultima istanza.

In realtà noi non abbiamo voluto credere a questi argomenti. Abbiamo avuto fiducia nella nostra capacità di autocoordinarci e abbiamo addirittura stabilito dei vincoli nei nostri trattati che impedissero di aiutare chi era in difficoltà. E abbiamo previsto che l’Unione Europea non assuma la responsabilità degli impegni degli Stati; che la Banca Centrale non possa comprare direttamente i titoli pubblici dei singoli Stati; che non ci possano essere facilitazioni creditizie o finanziarie per i singoli Stati. Insomma: moneta unica dell’Eurozona, ma ciascuno deve essere in grado di provvedere a se stesso.

Era davvero difficile che funzionasse, e ne abbiamo visto tutti i problemi.”

Nel dissesto italiano forti segnali di ritorno alla voglia di autonomia.

Da un certo tempo compaiono su internet diversi simboli politici inneggianti all’autonomia, nei post si leggono parole gravi, dure ma giustificate. Il fatto che molti cittadini non si “sentono” più  italiani ha come causa prima un numero record di fallimenti avvenuti nel nostro paese almeno negli ultimi vent’anni; un ben triste primato; come seconda causa, essere ignorati, mai interpellati attraverso consultazioni pubbliche su accadimenti importanti che nel bene e nel male coinvolgono sempre e soltanto la vita degli italiani, come la sconsiderata e costosa questione degli extracomunitari ma l’aspetto più vergognoso è il crollo nell’istruzione scolastica scesa a livelli sotto lo zero. I bambini, i giovani ci guardano, vedono e domani ci giudicheranno dall’estero, perché il loro paese non ha saputo dar loro un lavoro.

Sembra di ripercorrere la fine degli anni settanta quando i movimenti autonomisti facevano il loro ingresso nel mondo politico, in particolare nel Nord dell’Italia. A quel tempo Torino, il Piemonte, indi, il paese tutto, erano molto diversi, con cittadini di tutt’altra pasta e nonostante le sfiancanti lotte sindacali, l’economia ancora marciava contando su un importante settore artigiano e più in generale, di una manualità molto specializzata; insomma, c’era la cultura del lavoro, a partire dalla prima scuola e si pensava al futuro con ottimismo.

Ora, di tutto questo, non rimane più nulla; bugia, ci rimangono milioni di disoccupati.

Nell’odierna Italia improduttiva, facilona e canterina, senza i prestiti Europei elargiti a piene mani e senza controlli dall’italiano signor Draghi, sarebbe fallita almeno tre o quattro lustri fa; ma era imperativo accogliere gli extracomunitari e l’Italia papista e cattolica allargava le braccia e accoglieva tutti (meno il vaticano). Nel solo Piemonte si contano ben 40 (quaranta) centri di accoglienza con alcune migliaia di extracomunitari, che con la nuova legge dovranno essere rimpatriati. Orbene, oggi, a quanto ammontano i costi? Quali risposte dare ai cittadini?

Questo nuovo Governo, formato da una composizione politica invero paradossale (nato il 31 maggio 2018), tenta tuttavia di rimanere a galla in quest’oceano d’intrighi e di sabbie mobili ma ha tutti contro, dalla sconfitta maggioranza PD, che con un’opposizione improvvida, rabbiosa, critica invece di tacere per vergogna, a contro persino l’Europa plutocratica di Bruxelles. E pensare che sia una sia l’altra, dovrebbero essere indagati e messi sotto inchiesta partendo dal losco affare libico degli “scafisti mercenari da carico e scarico a mare“, veri assassini ancora oggi liberi di agire. Orrori che sono stati, di fatto, la pietra tombale della vecchia Europa, dimostrando, invero, com’essa, oramai in netto declino, sia alla fine del suo percorso storico.

Per il declino dell’Italia non servono numeri, tutte le infamie sono lì visibili, concrete, le conseguenze tutto il mondo le può costatare nella tragedia compiuta delle alluvioni che hanno mostrato, nelle crude immagini televisive, l’immane sfascio geologico con montagne di rifiuti fumanti in ogni angolo del paese. Colpevole la mancanza di adeguate strutture d’incenerimento, d’interventi manutentivi ai boschi di tutta l’area montana e di pianura, alle strade, fiumi, torrenti, ruscelli, paesi e città. Nulla sfugge al disastro ambientale e aggiungo organizzativo dei trasporti pubblici, delle ferrovie, dei nuovi edifici scolastici che crollano e fanno vittime, del sistema scolastico che deve istruire e preparare uomini, non burattini con la bandiera rossa, una giustizia che non giudica ma troppe volte assolve i colpevoli incitando a delinquere e la magistratura? Un istituto geriatrico che procede a tentoni. E che altro? Forse certe banche. Chissà…

Una catena d’intrighi, menzogne, fatti distorti coperti, corruttela; complici una stampa di parte e le istituzioni. Si tenta di manipolare, rallentare le inchieste, nascondere fatti indifendibili, opera dalla precedente maggioranza PD di governo, composta dai voltagabbana, traditori e piccoli partiti di facciata, tutti assoldati per fare numero. Compagine variegata che mascherata dietro altri simboli, fin dai primi anni’70, è la vera causa del declino di un’Italia, spolpata e impoverita. Costoro con una faccia di bronzo e un’arroganza inaudita incolpano il governo Conte, nato il 31 maggio 2018 (sei mesi fa), che causa disoccupazione e mancata creazione di posti di lavoro, sono menzogne indifendibili.

Il dramma del ponte di Genova è la prova di un continuum del sistema consolidato italiano di complicità, di corruzione, d’impunità. Un filo ininterrotto che ci riporta all’immane tragedia del Vajont, il 9 ottobre del 1963 che aveva provocato circa ben 2000 vittime. In carica c’era il Governo Leone. Com’è potuto succedere impunemente tutto questo? Quale risposta a tali domande? Altri interrogativi senza risposta, come da sempre.

Ricordo ancora, per i poveri di memoria, la storia ingarbugliata della FIAT (che non è un piccolo negozio di carabattole), uscita definitivamente dall’Italia nel più scandaloso silenzio dei politici e soprattutto, della borghesia industriale piemontese. Vedremo gli accadimenti del dopo Marchionne.

Ci ritroviamo una nuova società composta in buona parte da giovani immaturi, incapaci di affrontare responsabilità, a superare le difficoltà, inidonei a creare e fare lavoro; per loro si presenta  un futuro da disoccupati o dipendenti a vita. L’errore politico più grave è che la colpa, se si può parlare di colpa, non è tutta dei giovani. In Piemonte i nostri ragazzi sono cresciuti fin dalla scuola materna con la dottrina di stampo comunista che promuove la pianificazione, ossia, tutti uguali, tutto facile, che rifiuta l’individualismo, la competizione, la meritocrazia, niente educazione civica, tantomeno comportamentale; da loro cosa ci si può aspettare? Sono almeno due le generazioni allevate nella bambagia, grazie anche a un colpevole permissivismo, ai troppi denari spesi male dilapidando i risparmi di una vita degli improvvidi nonni.

Come salvare questa Repubblica dalla politica centralista nata dall’inganno e che nell’inganno affonda sempre più in basso? Un paese, il nostro, che è, nella realtà, da sempre diviso, volendo applicare a tutti i costi sistemi di governo unificanti in un’Italia troppo lunga, troppo diversa geologicamente, diversa nelle amministrazioni regionali, provinciali, comunali, diversa nei costumi, nel tipo di vita, nelle abitudini, nel lavoro, nello stesso sistema di fare e creare un lavoro che sia produttivo e consono alla tipologia del luogo e degli abitanti.

A questo punto, rivedendo con più attenzione la storia di questa Repubblica, come vecchio piemontese, mi si consenta di rifuggire da qualsiasi pensiero positivo sul futuro della nostra macilenta, improbabile “Unità d’Italia”. I suoi sostenitori dimostrino quali e dove sono finiti gli autentici valori patriottici. Questa cosiddetta “Unità”, una buona parte del paese non la voleva affatto e oggi ne costatiamo le profonde contraddizioni, già ben note e palesate da politici di consumata esperienza a partire dal lontano 1848.

Una sorta di puzzle di piccoli Stati che ognuno si governava a modo suo; così era l’Italia nel 1847/1848 e poi l’unificazione. E ancora ai nostri giorni, dopo 170 anni, le stesse realtà di quel tempo sono uguali, con gli stessi problemi, poco o nulla è cambiato.

Immagine da liberatiarts.it

 

Immagine da slideplayer.it

 

1848 si fa l’Unità d’Italia, un palese pretesto Risorgimentale

Il crollo della Rivoluzione francese non era stato la fine della sua ideologia, al contrario essa aveva innescato forti tendenze rivoluzionarie nelle potenti borghesie italiane, soprattutto al NORD del paese, ed erano pronte e preparate al cambiamento, promuovendo il dibattito politico sullo Stato, la forma e la gestione del potere. Un vento di libertà muoveva le classi colte e le ricche borghesie, non rivolte a smuovere l’assolutismo dello Stato sabaudo, ma protese alla ricerca di soluzioni politiche del paese che, per quei tempi, erano rivoluzionarie. L’idea era di porre un’alternanza al sistema retto dalle monarchie conservatrici, appoggiate da vetuste oligarchie aristocratiche e da una borghesia decisa a condividere il potere con i decadenti ceti nobiliari. Le monarchie, tuttavia ancora potenti, si trascinavano questa coda, dalla quale emergevano le ambizioni delle potenze economiche e da frange d’intellettuali dalle idee rivoluzionarie, pronti e decisi a gestire la situazione anche in solitudine. Un documento redatto per iscritto, o meglio, una carta costituzionale era parsa lo strumento idoneo per fissare le regole opportune per un patto fra cittadini e governo. Una scelta che non era stata invero, né difficile, tantomeno fantasiosa; la linea politica unitaria di Cavour era di una salda continuità con la monarchia sabauda, sfruttando il modello del Regno di Sardegna e quale carta costituzionale era riproposto lo Statuto Albertino del 1848, concesso forzatamente e con riluttanza da Carlo Alberto.

Una sorta di “rielaborazione”, senza compagine costituente, aveva in pratica ripresentato l’Editto Sardo del 1848, una costituzione che era un palese paradosso, poiché il documento esprimeva la volontà politica del governo a ergersi a rappresentante di tutto un popolo che, tuttavia, era completamente escluso da ogni forma di potere. Potere esercitato da una monarchia con una visione di amministrazione statuale, uniforme, omogenea e  fortemente accentrata di chiara origine giacobina. È sufficiente osservare la composizione della legge elettorale del 1848, ove la Camera rispecchiava la società subalpina del tempo, che, con il sistema elettorale fondato sul metodo “uninominale”, esercitava una sicura egemonia nel Parlamento e nel paese. Infatti, la prima Legislatura era composta in prevalenza da liberi professionisti, avvocati, uomini di legge, magistrati e funzionari di stato, pochi gli ecclesiastici (cinque in tutto) e una lieve presenza di proprietari di terre ( trenta su 204 deputati).

“Alle prime elezioni politiche generali per la formazione della Camera dei Deputati svolte il 27 gennaio 1861, sono iscritte al voto 418.696 persone pari  all’1,9% dell’intera popolazione italiana di quasi 22 milioni di abitanti. Votarono effettivamente 239.583 elettori, pari al 57,2% degli aventi diritto, meno, quindi dell’1% del popolo. Interessanti sono anche i dati sulla composizione sociale degli eletti: 85 erano principi, duchi o marchesi; 72 avvocati; 52 tra medici, ingegneri o professori universitari; 28 ufficiali militari di rango elevato”. Dati forniti Da G. Volpe, da la “Storia Costituzionale degli italiani”, cit. 21.

Emergeva, tuttavia, in tutta la sua gravità, l’enorme problema da risolvere: la questione meridionale.

C’erano le piccole e grandi borghesie arroganti e prepotenti proprietarie dei latifondi che minacciavano di far sollevare i contadini; c’era da combattere e reprimere il brigantaggio, una piaga che inaspriva i rapporti fra Nord e Sud; c’erano forti perplessità sul concedere le autonomie a Napoli e alla Sicilia e c’erano le luogotenenze che funzionavano male per l’estesa, precedente, disorganizzazione locale. A Torino, da Cavour, arrivavano sempre più frequenti i giudizi negativi degli uomini mandati in quelle zone.

«Un giudizio molto crudo espresso nel suo carteggio da Giuseppe La Farina, il Segretario della Società Nazionale, una delle centrali più attive della propaganda antiregionalistica, che auspica la chiusura definitiva delle «cloache governative di Napoli e Palermo»

Vesperini in “L’organizzazione dello Stato unitario”; nota 38 pag, 69.

Nel 1863, in una lettera inviata alla moglie, Nino Bixio scrive: «Che paesi si potrebbe chiamar dei veri porcili (…). Prima che questi paesi giungano allo stadio di civiltà in cui siamo noi (…) abbisognano anni e lunghi anni. Non strade, non alberghi, non ospedali, nulla di quanto si deve oggi nella parte meno avanzata dell’Europa: poveri paesi».

Giulio Vesperini in “L’organizzazione delle Stato unitario”, nota 39 pag. 69. Il brano è riportato in G. Ruffolo, “Un paese troppo lungo” Torino Einaudi 2009, 145.

 

(Nota personale: la prima frase “Che paesi si potrebbe chiamar dei veri porcili…” è la descrizione esatta di come sono ridotte, oggi, nell’anno 2018, molte zone di Torino; una, ad esempio è la Barriera di Milano, altra, è il Lungo Dora Agrigento. Ciò che vede l’ignaro visitatore in quel tratto di strada è uno sconcio indecente e incredibile per una città che si auto-elegge con altezzosa pomposità “Capitale della cultura”. Ero insieme a un amico inglese in visita alla città, ed è rimasto esterrefatto di cosa vedevano i suoi occhi; cose allucinanti, da non credere. Frotte di extracomunitari seduti qua e là che chiacchieravano fra sporcizia varia, lattine, bottigliette di birra vuote e rifiuti di ogni genere, mentre uno di questi, dal parapetto, orinava nella Dora. La città in declino? Torino non c’è più. Il centro storico, il cuore della città e le sue barriere; per descriverle oggi uso il termine di Bixio, che è il più appropriato; “sono un porcile”. Ma…i torinesi cosa dicono?

Impossibile, non veritiero, bugiardo? Andate e osservate. I luoghi sono in Torino, non su Marte).

 

Vari aspetti riguardanti la prevalenza del sistema centralistico, piuttosto che autonomista o regionalista, erano attinenti alla struttura sociale del paese: da un lato la società civile, in particolare al Sud, era povera e arretrata, anche se aveva dato valenti filosofi e giuristi (Mancini, Spaventa, Crispi, Pisanelli), per contro, il Nord aveva gente esperta nelle tecniche sulle proprietà rurali e altra attenta e aperta alle moderne correnti europee (Jacini, Correnti, Ricasoli, Minghetti). In sostanza, era chiaro che le necessità politiche e l’attitudine all’autogoverno erano molto diverse nelle differenti zone del paese, «…e l’unità con il Sud indeboliva, anche sotto questa forma, le tendenze liberistiche e autonomistiche che faticosamente si erano fatte strada in Piemonte, Lombardia, Toscana ed Emilia. Altro aspetto, la classe dirigente di quegli anni era ristretta e poco propensa ad allargare le basi del nuovo Stato. È anche da tener conto che i parlamentari di origine meridionale erano in gran parte esuli che avevano interrotto ogni legame con i quadri dirigenti dei rispettivi paesi di origine, per cui, la loro sorte personale dipendeva dalla continuità dell’egemonia piemontese del nuovo Stato». Giulio Vesperini in “L’organizzazione dello Stato unitario”. Interessante è da notare che la secolare borghesia del Sud, oramai ridotta a poche famiglie, ma ancora molto potenti, avevano appoggiato la politica centralistica che, insieme alle forze liberali del mezzogiorno, era rimasta l’unica forma di accentramento amministrativo per loro accettabile atta a concepire l’Unità d’Italia.

«Governo, parlamento e correnti politiche nella genesi della legge 20 marzo 1865, cit., secondo il quale, il contrasto tra i sostenitori delle istanze centralistiche e i fautori delle autonomie dura fino al 1865 ed oltre, ma si tratta di un contrasto teorico, dal momento che la minoranza s’impegna nei confronti della maggioranza a non sviluppare nel dibattito in aula le proprie tesi per arrivare quanto prima all’approvazione della legge e rendere più agevole, in questo modo, la soluzione degli elementi di turbativa esistenti in quel momento nel paese. Con questa precisazione, va ricordato, tuttavia, che nei dibattiti e nelle proposte, anche degli anni immediatamente successivi alle leggi di unificazione del 1865, è costante il riferimento alle urgenze di “discentramento”, anche nei più rigorosi accentratori». Giulio Verperini; da “L’organizzazione dello Stato unitario”, con nota di R. Ruffilli relativa alle autonomie.

L’Unità era compiuta in breve tempo, quasi con il sistema del “bastone e la carota” e questo era stato il risultato finale della lunga serie di plebisciti: dal 1860 al 1870, nei quali, come già affermato, il popolo ne era stato completamente escluso.

Vedere le tabelle sottostanti tratte da: “Storia costituzionale d’Italia 1848/1948” di Carlo Ghisalberti – Editore Laterza.

 

Immagine tratta da “Storia costituzionale d’Italia 1848/1948” di Carlo Ghisalberti – Editore Laterza

 

Immagine tratta da “Storia costituzionale d’Italia 1848/1948” di Carlo Ghisalberti – Editore Laterza

 

Le ragioni di una Federazione di Stati italiani.

Il supporre che l’Italia, divisa com’è da tanti secoli, possa
pacificamente ridursi sotto il potere d’un solo è demenza.
[…] All’incontro l’idea dell’unità federativa, non che esser
nuova agli italiani, è antichissima nel loro paese e connaturata
al loro genio, ai costumi, alle istituzioni, alle stesse condizioni
geografiche della penisola

Vincenzo Gioberti. “Del primato morale e civile degli italiani”.
(Brano tratto da RIVISTA online, anno VII n° 2- Scuola superiore dell’economia e delle finanze.

La parola “federalismo” era pressoché sconosciuta dai politici italiani di quel tempo, in genere si discuteva di “discentralizzazione”. In un discorso alla Camera del 2 luglio 1849, il Cavour, in risposta all’onorevole Josti sull’argomento della riforma amministrativa, si dichiarava d’accordo di operare una “discentralizzazione” in quel senso, precisando «che la centralizzazione amministrativa è a mio avviso una delle più funeste istituzioni dell’era moderna…». Il Cavour riconosceva le falle del sistema ma le veementi battaglie politiche seguirono, nel tempo, altre vicende e il Cavour moriva proprio nel momento decisivo più delicato. (La frase tra virgolette è presa dal primo volume dell’epistolario del Chiala da “Lettere edite ed inedite” del 1883).

È tutta una storia politica ricca di colpi di scena incalzanti e interessanti ma troppo lunga e complicata, per cui, mi limito a indicare i concetti base su forme di “federalismo” che costituivano l’opposizione alla monarchia sabauda e più recenti, alcuni progetti di qualche anno fa.

Fra i primi a usare questo termine erano stati Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari. La loro idea di federalismo prevedeva l’autonomia nel rispetto delle differenze degli Stati regionali preunitari, in senso democratico e repubblicano, mentre Vincenzo Gioberti e Cesare Balbo optavano per un federalismo  moderato che prevedeva l’unione degli Stati regionali coordinati in una lega federale con a capo il Papa. Un altro progetto federalista (in verità un misto federal-monarchico) prevedeva la formazione di tre regni: il primo con il Piemonte, il Lombardo Veneto e Parma; il secondo con la Toscana, Modena e lo Stato pontificio; il terzo con Napoli quale sede del sovrano e Palermo sede del Congresso. Uno statuto e una lega doganale avrebbero dovuto unire i tre regni. (Spunti tratti da la RIVISTA online n° 2 ANNO VII della “Scuola superiore dell’economia e delle finanze” ).

Nell’Europa delle potenti monarchie e in particolare quella sabauda, era impensabile immaginare un’idea di Stato Federale, anche se l’idea del Cattaneo, più ancora di quella del Ferrari, era molto più vicina al popolo. Infine, attraverso i plebisciti, vinse la continuità monarchica in tutta Italia, escludendo, come sempre, il popolo. Senza una pluralità d’individui, “provenienti dal basso”, espressione che piaceva e piace al potere, non c’è democrazia, tantomeno compartecipazione.

Tuttavia a questo punto credo utile un chiarimento sul termine “popolo”, che, nell’Ottocento, aveva un significato ambiguamente impreciso; in generale s’identificava la nazione tutta. L’ambito storico nel quale succedono questi accadimenti è, infatti l’Ottocento, periodo in cui non esisteva un proletariato industriale e neppure “agricolo”, quindi in questo senso il “popolo”, erano le classi sociali medie e inferiori, che tentavano di lottare per il riconoscimento della loro esistenza politica. Per Cattaneo “popolo” significa una certa maniera di essere, un certo comportamento politico ed una certa funzione storica. “Qualsiasi ceto, anche la nobiltà, quando agisce nella pluralità, è “popolo”. Da “Introduzione a Cattaneo” di U, Puccio pag. 9/11. Einaudi Editore.

Carlo Cattaneo aveva concetti politici troppo avanzati per il suo tempo; egli riteneva che la federazione fosse un mezzo per promuovere l’autonomia, l’autogoverno e nel contempo sviluppare lo spirito di unità nazionale, pur rispettando le diversità.

Sul comunismo la sua idea era severa e intransigente, soprattutto attuale: «Il comunismo è quella dottrina che demolirebbe la ricchezza senza riparare alla povertà; e sopprimendo fra gli uomini l’eredità e per conseguenza la famiglia, ricaccerebbe il lavorante nell’abiezione delli antichi schiavi, senza natali e senza onore». “Stati uniti d’Italia” pag. 106, nota 44.

Per capire lo straordinario ingegno dell’uomo, non solo politico, dovrebbesi leggere il suo libro “Stati uniti d’Italia” con prefazione di Norberto Bobbio – Editore Chiantore Torino 1945.

Cattaneo nel libro si appoggia al “Programma del Cisalpino” per un’idea di federazione, peraltro ben abbozzata ma non definita, mentre il teorico federalista Giuseppe Ferrari espone con chiarezza la sua visione di Stato federale. Eppure il federalista per antonomasia è da sempre il Cattaneo che in politica era un uomo pratico con idee chiare, autore di una monumentale produzione di scritti su vari settori scientifici.

Norberto Bobbio apre la prefazione del libro (di ben 106 pag. note comprese) con queste parole: «Le grandi crisi aprono inaspettati spiragli sulla storia degli uomini e delle idee. Volti che nella loro apparente sanità nascondevano alla vista un germe di malattia mortale, oggi appaiono consunti, recanti il pallore del disfacimento; edifici che sembravano, nella loro esteriore saldezza sfidare l’urto del tempo, oggi scricchiolano o crollano come castelli di carta. La crisi è il momento in cui l’accumularsi dei piccoli debiti differiti e non mai pagati, produce il fallimento irreparabile; è il punto in cui la piccola deviazione non arrestata a tempo si allarga in un’apertura smisurata, che nessun passo d’uomo è più in grado di varcare…». Sembra di leggere un breve saggio scritto par ieri e non nel 1945 alla fine di una lunga guerra, per i parallelismi con il dissesto politico e  finanziario dell’Italia odierna attuato da governi accentratori con il collaudato sistema di: non armi che sparano e uccidono ma uomini che uccidono con menzogne e truffe.

 

Anno 2014- Un progetto federalista del PD

Due deputati PD: Roberto Morassut e Raffaele Ranucci, hanno preso carta e penna per ridisegnare la cartina d’Italia. Ne è uscito uno stivale diviso in dodici aree omogenee per “storia, area territoriale, tradizioni linguistiche e struttura economica”. Alcune sono frutto di una semplice addizione (il Triveneto con Friuli, Trentino e Veneto, oppure l’Alpina con Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria). Altre invece mettono assieme province di Regioni diverse: il Levante “ospita” Puglia, Matera e Campobasso, mentre la Tirrenica tiene assieme Campania, Latina e Frosinone. Solo Sicilia e Sardegna manterrebbero il privilegio dello statuto speciale.
(Tommaso Ciriaco, da “la Repubblica” del 23/12/2014).


Progetto troppo semplicistico, irrealizzabile, d’ispirazione politica di sinistra, sbilanciato nei ruoli affidati alle regioni. Incomprensibile il mantenere lo statuto speciale solo a Sicilia e Sardegna e perché non le altre? Un disegno nato piuttosto come confederazione, un sistema che ne complicherebbe in modo definitivo la governabilità, in quanto, in sostanza, è mancante di un organo ufficiale centrale di coordinazione posto al di sopra dei singoli interessi dei vari Stati membri o Nazioni, come possiede una vera federazione.
Un progetto interessante del 1994 e sempre valido è quello di Marcello Pacini, nel suo libro edito dalla Fondazione Giovanni Agnelli. Esso invita a meditare su una scelta; ha per titolo “Scelta federale e unità nazionale”. Era stato ampiamente illustrato anche da “la Repubblica” del 29 ottobre 1994 (già inserito tempo addietro nel BLOG). Sotto, riporto nuovamente una parte della pagina.

Il modello federativo di Gianfranco Miglio del il 14 dicembre 1994

Dal primo dopoguerra a oggi l’Europa ha ceduto non solo in democrazia ma soprattutto sulla tutela degli stessi cittadini europei, ignorandoli; si è mutata in un centralismo plutocratico affetto da nepotismo. Intanto l’Italia, da vari decenni governata in toto dalle sinistre, si è pietrificata in un sistema accentrato, consolidando lo status di Repubblica = governo, cosa pubblica, che di pubblico ha solo una dilagante corruzione. C‘è stato un solo uomo politico convinto repubblicano, un eccezionale economista piemontese, vero “patriota”, che ha agito sempre con saggezza, esperienza e lungimiranza nel solo interesse dell’Italia, salvando la Lira nel primo dopoguerra; ed è stato Luigi Einaudi, dopo di lui, l’oscurità, le tenebre più profonde. Oggi ci ritroviamo un paese asfittico, sull’orlo del fallimento, con un debito pubblico gigantesco (supera i 2331 miliardi di euro) che ancora s’incrementa fra prebende e finanziamenti europei, in verità, meglio definiti come: “ricatti’.
L’unica soluzione a tutto questo è riprendere l’idea di Costituzione Federale già proposta dal Cattaneo, dal Ferrari, dalla chiesa cattolica e da altri. Una vecchia formula sempre riposta in un cassetto per mancanza di volontà, capacità, concretezza, da parte di una consorteria di partiti con tutt’altri interessi.
In Italia dopo Carlo Cattaneo, il pensiero federalista è caduto nell’oblio, come il concetto di “nazione”, proprio a causa della “febbre” unitaria che aveva investito il paese, sino all’avvento della LEGA NORD; ma questo è un altro argomento non trattabile in queste pagine.
«Una nuova unione di Stati liberi in una struttura “Federale”; una vera “federazione”, da non confondere con “confederazione”; perché essa è un’organizzazione incapace di superare l’anarchia. Ha la sostanza politica delle alleanze tra Stati ed ha un organo permanente per affrontare problemi comuni, che tuttavia non è subordinato agli Stati stessi e non è quindi capace di dominare le divergenti ragioni di stato. Manca in sostanza di un organo ufficiale centrale di coordinazione posto al di sopra dei singoli interessi dei vari Stati o Nazioni. Compito di grande difficoltà è l’unificazione politica di più Stati, Nazioni e/ o Regioni.
È dimostrato già in passato l’insuccesso dei tentativi per unificare le Città Stato della Grecia classica e più vicino a noi, gli Stati regionali dell’Italia alla fine del XV secolo. Non dimentichiamo che l’unificazione dei governi e dei popoli ottenuta senza guerra è avvenuta una sola volta nella storia, ed è stata quella nata con la formazione degli Stati Uniti d’America.
Da tenere presente che il pensiero federalista ha sempre combattuto su due fronti che rappresentano due esigenze diverse, causate anche da eventi storici: il federalismo “esterno”, che nasce prevalentemente da una crisi bellica, da una crisi internazionale, o da una reazione a un non corretto rapporto fra gli Stati sovrani (L‘Europa ai giorni nostri anche se non è una federazione: è un’unione di Stati non legittimata dai cittadini europei). Il federalismo “interno” nasce invece prevalentemente da una crisi interna, da una disgregazione di uno Stato accentrato, da forme di partitismo dispotico e arrogante, dalla crisi del diritto».
Il federalismo “interno”è appunto l’argomento che ci interessa, ovvero il “caso Italia” (Da appunti miei presi da incontri e conferenze di Norberto Bobbio e dalla prefazione dello stesso Prof. Bobbio dal libro “Federalismo e libertà” di Silvio Trentin). Nell’unificazione dell’Italia nulla è legittimo, poiché non c’è stata nessuna trasmissione di potere ma un sistema “consortile” che ha condiviso questi poteri con la monarchia sabauda. In pratica è cambiato poco o nulla; il popolo è stato escluso, come sempre, da ogni forma di potere.
In un sistema democratico per il progresso dello Stato e soprattutto per la sua sopravvivenza nel tempo, le regole che lo mantengono in vita vanno legittimate con la compartecipazione dei cittadini tutti, donne e uomini. È il semplice concetto del principio di legittimità.
Per precisione il diritto di voto in Italia è stato introdotto ai maschi nel 1918 e alle donne “riconosciuto” nel 1945. Una storia lunga e difficile ma che rivela ancora oggi una lacuna democratica nel paese per l’arretratezza in cui si trova ancora una parte di esso. Questo è uno dei motivi fondanti e urgenti non più dilazionabili per una sacrosanta divisione dei poteri in senso federale. Uno Stato è federale o non lo è, non esistono forme ibride o semicentraliste.

Il 17 dicembre 1994 il costituzionalista Gianfranco Miglio presentava al Circolo della stampa di Milano il “Modello di Costituzione Federale per l’Italia” e fatto proprio dall’Unione Federalista. (C’ero anch’io con alcuni federalisti torinesi).
Il Senatore Gianfranco Miglio ha un ricco e invidiabile curriculum (è stato preside per trent’anni della Facoltà di Scienze politiche di Milano), inoltre, tra molto altro, è stato anche l’ideologo della Lega Nord nel 1992, poi uscito nel 1994 per disaccordi con Umberto Bossi. Nello stesso anno fondava il Partito Federalista di cui era eletto presidente, con vicepresidente Dacirio Ghidorzi Ghizzi e segretario generale Umberto Giovine. Ha operato nell’Unione sino al 2000 anno in cui, colpito da ictus, non si riprendeva, morendo ottantatreenne a Como, sua città natale. Ad Adro è stato poi aperto un Polo Scolastico a lui intitolato. Dopo la sua morte, l’Unione Federalista è stata sciolta nel 2001.
Il Modello di Costituzione è riassunto in un fascicolo di 12 pagine di cui ne mostro la copertina e lo schema organizzativo. Se mi sarà concesso, probabilmente pubblicherò il contenuto completo. Assicuro che è di lettura molto interessante e istruttiva.

Il Modello Federale di Gianfranco Miglio è ancora oggi il miglior progetto prodotto da un costituzionalista esperto di federalismo par suo, per un paese arretrato come il nostro, le cui estremità sono “troppo lontane” le une dalle altre. Aveva studiato per oltre cinquant’anni i vari modelli di Repubbliche federali, confederali e le autonomie tanto contestate dei vari Stati europei ed extraeuropei. La sua sfortuna è stata di non aver avuto validi collaboratori nel proporre i suoi progetti federali per l’Italia. Miglio, quest’uomo determinato e intransigente, non è stato ascoltato ma soprattutto capito per le sue idee federaliste troppo avanzate, per la capacità e limitata coscienza politica dei politici di quel tempo che, a quanto pare, ancora oggi, purtroppo, non sono migliorate.
Dal suo modello di costituzione riporto parte del punto1:

Il sistema dei poteri e delle garanzie.
  1. La base di ogni Costituzione Federale è formata dalle convivenze politico-amministrative che si articolano sul territorio e che si contrappongono all’autorità “federali”: i Cantoni.
    Esistono anche ordinamenti pseudo-federali che “combinano” particolarismi non localizzati sul territorio (economico-sociali, professionali, confessionali, ecc.). Ma il vero federalismo si basa su unità territoriali: cioè, su pluralità d’individui che vivono abitualmente gli uni accanto agli altri e hanno in comune la maggior parte dei bisogni essenziali e (sopra tutto) consuetudini, tradizioni e stili di vita, che li differenziano dalle altre convivenze. Fra coloro i quali oggi in Italia temono (o considerano contraria ai propri interessi) l’adozione di una “vera” Costituzione Federale, è forte la tendenza a chiedere che la Federazione si basi sulle attuali “Regioni”, sia cioè una “Federazione Regionale”. Ora, lo “Stato Regionale” – inventato dai costituenti italiani fra il 1946 e il 1947 e consacrato nel Titolo V della Carta – rappresenta l’esperienza più fallimentare che si conosca di questo tipo di ordinamento: quando si afferma che lo “Stato Regionale” è il contrario di un sistema federale, si cita il caso italiano. Non è necessario ricordare le cause di questa disfatta: basterà rilevare che il “regionalista” non condivide intimamente nessuno dei principi (“requisiti”) di una concezione federale….

Riporto, a chiusura dell’argomento, due articoli: uno di Giancarlo Galli e un altro di Salvatore Butera (ritagliati dal giornale “Il SOLE 24 ore” del 28/11/93), presi dal mio archivio personale perché attuali e “sempiterni”.

Articolo tratto da “Il SOLE 24 ore” del 28/11/93

 

Condividi questo articolo

Trattati Europei ed immigrazione – SECONDA PARTE

18 febbraio 2010

L’economia italiana è salvata dalle “Serie Storiche”.

Sono il nostro punto fermo, l’ultimo appiglio prima di precipitare nell’ignoto. L’ISTAT(?) ha reso pubblici i dati sulla caduta delle esportazioni nel 2009, meno 20,7% rispetto al 2008. Un saldo negativo annuo di 4 miliardi 109 milioni di euro. Il dato peggiore dal 1970, da 40 anni, da quando esistono le serie storiche. Il PIL 2009 è in calo del 4,9%. Il dato peggiore dal 1971, da 39 anni, da quando esistono le serie storiche. Secondo l’ISTAT la produzione industriale nel 2009 e’ diminuita del 17,4%. Il dato peggiore dal 1991, da 19 anni, da quando esistono le serie storiche. In mancanza di serie storiche la realtà sarebbe meno tranquillizzante. Le serie storiche sono il bromuro dell’informazione economica. Senza di loro, i dati 2009 sarebbero, più semplicemente, i peggiori di sempre.
Nel corso del 2016, la situazione reale è ulteriormente peggiorata, nel 2018 il sistema arranca…

 

L’eterno dilemma politico dell’Europa sull’immigrazione

di Kenan Malik , articolo del 19 luglio uscito sul The Guardian, Regno Unito (Traduzione di Giusy Muzzopappa)

04 febbraio 2016 19:14

L’Europa affronta una crisi legata all’arrivo dei migranti, ma non la crisi che immaginiamo. Il continente, infatti, si trova di fronte a un dilemma: da un lato, qualunque politica sulle migrazioni che voglia essere morale e praticabile non godrà, per il momento, di un mandato democratico; dall’altro, qualsiasi politica che abbia sostegno popolare sarà probabilmente immorale e impraticabile.
Il dilemma non dipende dal fatto che i popoli europei sono particolarmente inclini a politiche immorali o impraticabili, ma dal modo in cui, negli ultimi trent’anni, la questione dell’immigrazione è stata presentata dai politici di tutti gli schieramenti: come una necessità e come un problema con il quale fare necessariamente i conti.
Gli stessi politici, però, non esitano a definire razzista e irrazionale l’atteggiamento delle persone di fronte agli immigrati. Quando nel 2010 il laburista Gordon Brown definì la pensionata Gillian Duffy una “donna intollerante” perché aveva espresso delle preoccupazioni sui migranti provenienti dall’Europa orientale, espresse il disprezzo dell’élite politica nei confronti delle persone comuni e dei loro timori nei riguardi dell’immigrazione.
Molte delle politiche messe in atto nell’ultimo anno trasmettono la sensazione di un continente in guerra.
Un insieme di bisogni e desideri contraddittori è quindi sfociato in una serie incoerente e inapplicabile di politiche, paradossalmente esacerbate dalle norme sulla libera circolazione all’interno dell’Unione europea (Ue). L’area Schengen, il gruppo di paesi dell’Ue che hanno abolito il passaporto e altri controlli lungo le loro frontiere comuni, è stata istituita nel 1985. Oggi comprende 22 dei 28 membri dell’Ue, e altri quattro sono in attesa di poterci entrare. Solo due paesi, Regno Unito e Irlanda, non ne fanno parte.
Il sogno della libera circolazione nell’Ue ha generato allo stesso tempo una vera paranoia al suo interno. In cambio dell’area Schengen, infatti, è stata creata una fortezza Europa, una cittadella protetta dall’immigrazione da un sistema di sorveglianza ad alta tecnologia, fatto di satelliti e droni, e da recinzioni e navi da guerra. Un giornalista del settimanale tedesco Der Spiegel in visita alla sala operativa di Frontex, l’agenzia di controllo delle frontiere esterne dell’Ue, ha osservato che sembrava di parlare con persone che si trovano lì a “difendere l’Europa contro un nemico”.
Molte delle politiche messe in atto nell’ultimo anno trasmettono la sensazione di un continente in guerra. A giugno, un vertice di emergenza dell’Ue è sfociato in un piano in dieci punti che comprendeva l’uso della forza militare “per catturare e distruggere” le barche usate per trasportare illegalmente i migranti.
Poco dopo, l’Ungheria e altri paesi dell’Europa orientale hanno cominciato a erigere barriere di filo spinato. La Germania, l’Austria, la Francia, la Svezia e la Danimarca hanno sospeso le norme di Schengen e hanno reintrodotto controlli alle frontiere interne. A novembre l’Ue ha siglato un accordo con la Turchia, promettendo al paese 3,3 miliardi di dollari in cambio di maggiori controlli alle frontiere. A gennaio la Danimarca ha approvato una legge che permette la confisca di oggetti di valore ai richiedenti asilo come forma di risarcimento per il loro mantenimento.
Una migrante vicino al villaggio di Miratovac, al confine tra Serbia e Macedonia, il 27 gennaio 2016. (Armend Nimani, Afp)
Nonostante la sensazione di essere di fronte a una crisi senza precedenti, in realtà né la crisi in sé, né l’incoerente risposta dell’Ue rappresentano una vera novità.
Da più di un quarto di secolo le persone cercano di entrare in Europa rischiando la vita. Fino al 1991, la Spagna aveva una frontiera aperta con il Nordafrica, da dove i migranti partivano per compiere lavori stagionali e dove tornavano una volta finito. Nel 1986 una Spagna solo di recente democratizzata entrava nell’Ue. In quanto membro dell’Unione, ha dovuto tra le altre cose chiudere i confini con il Nordafrica. Quattro anni dopo, è stata ammessa nel gruppo di Schengen.
La chiusura delle frontiere spagnole non ha fermato i lavoratori migranti, che hanno cominciato a usare piccole imbarcazioni per attraversare il Mediterraneo e raggiungere la Spagna.
Il 19 maggio del 1991 sono arrivati a riva i primi cadaveri di migranti clandestini. Da allora si stima che più di ventimila persone siano morte nel Mediterraneo nel tentativo di entrare in Europa.
La Spagna ha due avamposti in Marocco, Ceuta e Melilla. Dopo l’ingresso nell’area Schengen, il paese ha costruito un bastione da trenta milioni di euro per sigillare le sue enclave separandole dal resto dell’Africa. L’Ue ha cominciato a pagare le autorità marocchine per rastrellare e imprigionare qualsiasi potenziale migrante, spesso con enorme brutalità.
L’approccio spagnolo ha offerto il modello per le successive politiche dell’Ue sulle migrazioni: una strategia tripartita fatta di criminalizzazione dei migranti, militarizzazione delle frontiere ed esternalizzazione dei controlli pagando a stati che non appartengono all’Unione, dalla Libia alla Turchia, enormi quantità di soldi per fare la guardia alla frontiera dell’Europa. Ancora una volta i migranti hanno cercato tragitti diversi, spesso più pericolosi. È per questo che tantissimi di loro stanno viaggiando attraverso la Grecia e i Balcani.
Rispetto a quanto accade in altre aree del pianeta, non si può certo dire che i profughi stiano ‘inondando’ l’Europa.
Per quanto i numeri siano alti, è bene contestualizzare le cifre relative ai migranti che arrivano in Europa: nel 2015 sono stati un milione, tra profughi e migranti, cioè poco più dello 0,1 per cento della popolazione europea. Ci sono già 1,3 milioni di rifugiati siriani in Libano, il 20 per cento della popolazione del paese. In proporzione, è come se l’Europa ospitasse 150 milioni di profughi. La Turchia, il paese sul quale l’Ue vorrebbe scaricare migranti e profughi, ospita già due milioni di rifugiati.
Rispetto a quanto accade in altre aree del pianeta, non si può certo dire che i profughi stiano “inondando” l’Europa. A sopportarne il peso maggiore sono alcuni dei paesi più poveri del mondo, e questo è l’aspetto più deprecabile delle politiche dell’Ue, perché sembrano poggiare sull’idea che solo i paesi poveri dovrebbero avere a che fare con migranti e profughi.
Il secondo fattore da tenere in considerazione nell’attuale crisi migratoria è il contesto politico.
La divisione tra socialdemocratici e conservatori emersa dopo la seconda guerra mondiale in Europa non è esiste più. La sfera politica si è ristretta per lasciare spazio a una forma di gestione tecnocratica piuttosto che di trasformazione sociale. Una delle tante conseguenze è la crisi della rappresentanza, la crescente sensazione delle persone di non contare niente davanti a istituzioni politiche sempre più lontane e corrotte.

 

Ostilità e panico

L’immigrazione non ha avuto alcun ruolo nel determinare i cambiamenti che hanno causato la frustrazione di così tante persone. Non è responsabile dell’indebolimento del movimento dei lavoratori, né della trasformazione dei partiti socialdemocratici o dell’imposizione di politiche di austerità. Tuttavia, l’immigrazione è diventata una specie di capro espiatorio per questi cambiamenti. Nel frattempo, l’Ue è diventata il simbolo della distanza tra le persone comuni e la classe politica. Il tutto è sfociato in una crescente ostilità nei confronti dei migranti e nel panico diffuso tra chi deve prendere decisioni politiche.
Allora cosa bisogna fare? È possibile conciliare l’adozione di politiche etiche e praticabili sulle migrazioni con le aspirazioni democratiche dell’opinione pubblica europea? Tanti sembrano voler fare a meno di un mandato democratico, altri sembrano disposti a rinunciare a una politica giusta e praticabile. L’opinione prevalente è che l’Europa abbia bisogno di controlli più rigidi, di recinti più alti, di più pattugliamenti militari. Anche se queste misure sembrano popolari e chi le promuove si dichiara “realista”, non si tratta solo di un approccio immorale, ma anche poco praticabile.
La storia degli ultimi 25 anni ci dice che a prescindere da quanto si rafforzi la fortezza Europa, recinti e navi da guerra non fermeranno i migranti. Né controlli più rigidi modificheranno la percezione del problema tra l’opinione pubblica. Trasformare ancora di più l’Europa in una fortezza non contribuirà ad attenuare il senso di frustrazione così diffuso. Gli “idealisti”, d’altro canto, cercano di promuovere politiche sull’immigrazione più etiche, ma sembrano disposti a fare a meno della volontà democratica per applicarle. Questo approccio non è più attuabile o più etico di quello realistico. Nessuna politica a cui l’opinione pubblica è ostile potrà mai funzionare. Politiche migratorie più liberali possono essere attuate solo con il consenso dell’opinione pubblica.
Come ha scoperto la cancelliera tedesca Angela Merkel, favorire una politica liberale sulle migrazioni senza prima conquistare il sostegno dell’opinione pubblica può essere disastroso. Ad agosto la Germania ha sospeso unilateralmente il regolamento di Dublino, la normativa europea in base alla quale i migranti devono fare richiesta di asilo nel primo paese dell’Ue in cui arrivano. Merkel non si è sforzata però di convincere la Germania del valore di questo nuovo orientamento politico. Il contraccolpo è stato fortissimo e dall’oggi al domani è stata costretta a tornare sui suoi passi e a reintrodurre i controlli alle frontiere. Tutto ciò ha determinato una maggiore ostilità nei confronti dei migranti e della stessa Merkel.
Nelle politiche sull’immigrazione non ci sono soluzioni rapide che consentono di tenere assieme le istanze dell’etica, dell’attuabilità e della democraticità. La crisi dei migranti va avanti da tanto tempo e, a prescindere dalle misure che saranno prese, non si risolverà nel giro di uno o due anni. Il problema di fondo non è tanto politico, ma di atteggiamento e percezioni.
Politiche migratorie più accoglienti possono essere attuate solo con il consenso dell’opinione pubblica, non a dispetto della sua opposizione. Conquistare questo consenso non è impossibile, non c’è nessuna legge secondo cui le persone debbano necessariamente essere ostili all’immigrazione. Ampi settori dell’opinione pubblica sono diventati ostili perché hanno finito per associare l’immigrazione con cambiamenti inaccettabili.
Ecco perché, paradossalmente, il dibattito sull’immigrazione non può essere vinto solo parlando di immigrazione, né la crisi dei migranti può essere risolta solo mettendo in atto politiche sulle migrazioni. Le paure attuali sono espressione di una più ampia sensazione di non avere voce e peso nella sfera politica. Finché non sarà affrontato questo problema, l’arrivo dei migranti sui lidi europei continuerà a essere considerato come una crisi.
 

 

19 luglio 2016, ore 18. ( A oggi 14/08/2018 non è cambiato nulla; Salvini, l’unico credibile, ha tutti contro. Non mollare Matteo).

In questi giorni l’Europa e non solo, è travolta da un terrorismo spietato, inumano, assassino.
Fatti tragici non nuovi, per cui lo stato dall’erta dei servizi d’informazione doveva essere massimo; erano prevedibili altri attacchi. Ebbene, la F.I.P. oltre al mare di chiacchiere inconcludenti, tavole rotonde, quadrate, esagonali, incontri parolai, tentennamenti, convegni dei cosiddetti “grandi”, cortei di massa, commemorazioni, celebrazioni con canti e suoni, processioni, dichiarazioni coraggiose e benedizioni papaline per i “piccoli” cittadini creduloni, quest’Europa appare immobile, confusa, poco affidabile, alle prese con la sua solidarietà da ente di assistenza che è da rivedere e rimettere in discussione, mentre la democratica Turchia esegue epurazioni e vuole reintrodurre la pena di morte.
Il paese dei balocchi (l’Italia) dovrebbe svegliarsi dalla catalessi e introdurre una sorta di “Addestranento militare” e creare “ Riservisti” con i giovani rimasti in patria, togliendoli dalla strada, dalla cronica disoccupazione e reinsegnare loro che la patria va protetta e la preziosa libertà salvaguardata, insieme con l’Esercito. Cosa succederà domani? Non lo sappiamo, ma in questa situazione dobbiamo aspettarci il peggio.

Carlo Ellena

 

28 luglio 2018

Il peggio è arrivato prima del cambio di governo; staremo a vedere!

 

14/08/2018 – da Carlo Ellena

A seguire propongo due articoli che mettono in luce l’arroganza inusitata dei plutocrati europei e l’assolutismo dichiarato dei comunisti italiani e loro complici al governo, palesate nelle chiare intenzioni qui espresse con assoluto disprezzo delle più elementari regole democratiche e civili. Questi individui sono sempre troppo pericolosi e si nota in modo chiaro nel disarmante e distruttivo modo di fare opposizione.

 

Immigrati, la bozza della Ue: “Accogliere sarà obbligatorio”

Gli immigrati saranno “spartiti” tra tutti gli Stati. E i rifugiati politici potranno spostarsi liberamente in tutta l’Unione europea

di Sergio Rame , articolo del 9 maggio 2015 uscito su il Giornale

Mercoledì la Commissione europea approverà la nuova Agenda sull’immigrazione.
La bozza è già pronta e, come anticipa Repubblica, contiene una vera e propria inversione di rotta nel contrasto agli sbarchi clandestini per prevenire altre stragi nel Mediterraneo. Il documento, che potrebbe ancora essere ritoccato, introduce l’obbligo per tutti i Paesi dell’Unione europea di accogliere chi sbarca sulle coste italiane, le missioni nei porti libici per distruggere o sequestrare i barconi agli scafisti, gli aiuti economici ai Paesi africani di transito e la Blu Card europea per allargare le maglie dell’immigrazione regolare.
Una volta incassato il via libera della Commissione europea, la nuova Agenda sull’immigrazione dovrà essere approvata dal Consiglio europeo e dal Parlamento di Strasburgo. La strada, quindi, è tutta in salita. Anche perché sono molti i Paesi che preferiscono politiche più restrittive. La bozza, invece, propone di creare un sistema di quote per ripartire i clandestini già presenti sul suolo dell’Unione europea. In questo modo verrebbero, finalmente, svuotati i centri di prima accoglienza italiani che oggi sono al collasso. Se, poi, a un immigrato verrà riconosciuto lo status di rifugiato, questo potrà spostarsi liberamente all’interno dell’Unione europea. È poi allo studio della Commissione l’istituzione di una sorta di Blu Card per favorire l’immigrazione regolare identificando specializzazioni e professionalità richieste.
Nella bozza dell’Agenda sull’immigrazione c’è poi tutto un capitolo dedicato al contrasto degli sbarchi. L’Ue punta ad avviare una missione militare per sequestrare e affondare i barconi degli scafisti. Per farlo le navi europee potranno andare a stanare i mercanti di uomini fino ai porti libici, quindi in acque territoriali libiche, un’eventualità che non trova d’accordo il governo di Tripoli. L’ambasciatore libico all’Onu, Ibrahim Dabbashi, ha già fatto sapere che la Libia non avvallerò interventi europei nelle sue acque. Per ovviare a questo stop l’Alto rappresentante per la politica estera della Ue, Federica Mogherini, sta facendo pressioni sul Consiglio di Sicurezza per incassare il via libera alla missione.
Infine, c’è pure un capitolo economico. Come già annunciato nelle scorse settimane, l’Ue triplicherà i soldi da destinare a Frontex per la missione Triton nel Canale di Sicilia e stanzierà aiuti economici per Paesi, come il Sudan, l’Ehitto, il Ciad e il Niger. L’obiettivo della Commissione europea è, da una parte, evitare nuovi stragi nel Mediterraneo e, dall’altra, contrastare la fame e la povertà che, insieme alla guerra e alle persecuzioni, sono tra le cause dell’immigrazione.

 

 

Alfano obbliga tutti i Comuni ad accogliere: “25 migranti ogni mille abitanti”

Allarme sbarchi. Il governo corre ai ripari. Siglato un accordo con l’Anci per distribuire i migranti su tutto il territorio italiano. Più incentivi ai sindaci che accolgono

di Sergio Rame , articolo del 10 agosto 2016 uscito su il Giornale

Gli sbarchi non si fermano, nemmeno quando c’è brutto tempo. I ricollocamenti negli altri Paesi dell’Unione europea sono in stallo.
E gli Stati che confinano con l’Italia (la Francia, la Svizzera e la Francia) hanno chiuso definitivamente le frontiere. E così il ministro degli Interni Angelino Alfano si trova a dover sistemare 145mila migranti. Il piano concordato nei giorni scorsi con l’Anci è distribuirli su tutto il territorio. Venticinque ogni mille abitanti. E per farlo andrà a raccattare strutture ovunque.
L’Italia è al collasso. L’emergenza immigrazione non travolge più soltanto le coste del Meridione. Certo, la pressione in regioni come la Sicilia è ancora pazzesca. Ma l’allarme si è spostato anche al Nord. Città come Ventimiglia, Milano e Como sono la dimostrazione plastica di un’accoglienza che non funziona. Solo nel capoluogo lombardo stazionano oltre 3.300 migranti. Non hanno un giacilio su cui dormire né un tetto sotto cui stare. I fondi per pagar loro da mangiare, poi, sono finiti. Eppure di rimandarli indietro, il governo Renzi proprio non ha intenzione. Non caccerà nemmeno quelli che non hanno diritto a stare qui. E così Alfano ha messo a punto un piano per sistemarli tutti quanti, spargendoli qua e là su tutto il territorio italiano. In base all’accordo raggiunto con l’Anci, illustrato oggi dal Messaggero, gli ottomila Comuni della Penisola italiana dovranno accogliere “2,5 migranti ogni cento abitanti”. Per convincere i sindaci riottosi, Alfano è disposto anche a mettere sul piatto un po’ di soldi.
Il primo obiettivo del Viminale è “decomprimere” le aree più a rischio. Situazioni, come Ventimiglia per esempio, che rischiano di degenerare in tensioni tra i cittadini e i migranti. “Sono state stabilite procedure per il nuovo funzionamento dello Sprar (il Servizio centrale di protezione per i richiedenti) – si legge nel decreto – a partire dai contenuti dell’intesa tra governo, Regioni e enti locali del 10 luglio 2014 al fine di attuare un sistema unico di accoglienza dei richiedenti e titolari di protezione internazionale attraverso l’ampliamento della rete”. Il ministero della Difesa si è già fiondato a ristrutturare le vecchie caserme. Nei prossimi giorni entreranno già a pieno regime i campi di Montichiari, che ospiterà 150 extracomunitari, e Messina, che ne ospiterà ben 300. A Milano, invece, i migranti verranno accolti nella caserma di Montello, anche se il sindaco Beppe Sala non esclude la possibilità di ricorrere a una sorta di tendopoli per sistemare gli ultimi arrivati. Ma è una coperta corta. Perché dal Mediterraneo continuano ad arrivare i barconi. E, prima o poi, lo spazio a disposizione sarà finito. A meno che il governo non inizi a far uscire dal Paese gli italiani per far posto ai migranti.

 

Condividi questo articolo

Trattati Europei ed immigrazione – PRIMA PARTE

Schengen…e poi? I silenzi colpevoli dei politici europei.

Storia in sintesi dei molti Trattati sconosciuti ai cittadini europei.

L’ingannevole trasformazione dell’Accordo di Schengen dell’1 gennaio 1986, ovvero; la libera circolazione di tutti i cittadini degli Stati membri della C.E. all’interno dell’Europa, poi allargata a tutti gli extra-comunitari. Come si è arrivati a tale insensata (per noi semplici cittadini) situazione?

Trattato di Roma – Firmato il 25 marzo 1957

Il Trattato CEE, ufficialmente il “Trattato che istituisce la Comunità economica europea” ha istituito appunto la CEE. È stato firmato il 25 marzo 1957 insieme al Trattato che istituisce la Comunità europea dell’energia atomica (Trattato Euratom): insieme sono chiamati “Trattati di Roma” che insieme al Trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, ovvero la CECA, firmato a Parigi il 18 aprile del 1951, rappresentano il momento costitutivo delle Comunità europee. Il nome del Trattato è stato successivamente cambiato in Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE) dopo l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht e di nuovo cambiato in Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel dicembre 2009.

 

 

Trattato (o accordo) di Schengen creato l’1 gennaio 1986 -Definizione-

L’accordo di Schengen è stato firmato inizialmente il 19 giugno 1990 fra i Governi degli Stati dell’Unione economica Benelux, della Repubblica federale di Germania e della Repubblica francese relativo all’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni.
Di seguito i Governi del Regno del Belgio, della Repubblica federale di Germania, della Repubblica francese, del Granducato di Lussemburgo e del Regno dei Paesi Bassi consapevoli che l’unione sempre più stretta fra i popoli degli Stati membri delle Comunità europee deve trovare la propria espressione nella libertà dell’attraversamento delle frontiere interne da parte di tutti i cittadini degli Stati membri e nella libera circolazione delle merci e dei servizi.

 
 

 

Il Trattato di Maastricht, o Trattato dell’Unione europea
firmato il 7 febbraio 1992

È un trattato che è stato firmato il 7 febbraio 1992 a Maastricht nei Paesi Bassi, sulle rive della Mosa, dai 12 (dodici) paesi membri dell’allora Comunità Europea, oggi Unione europea, che fissa le regole politiche e i parametri economici necessari per l’ingresso dei vari Stati aderenti nella suddetta Unione. È entrato in vigore il 1º novembre 1993.

OBIETTIVI
Con il trattato di Maastricht, risulta chiaramente sorpassato l’obiettivo economico originale della Comunità – ossia la realizzazione di un mercato comune – e si afferma la vocazione politica.
(Questa decisione, presa uniteralmente dai politici, di fatto accantona definitivamente l’affermazione dell’Europa dei popoli per abbracciare la tesi dell’Europa politica; tesi aborrita a Ventotene da Altiero Spinelli, uno dei padri fondatori).
In tale ambito, il trattato Maastricht consegue cinque obiettivi essenziali:

  • rafforzare la legittimità democratica delle istituzioni;
  • rendere più efficaci le istituzioni;
  • instaurare un’unione economica e monetaria;
  • sviluppare la dimensione sociale della Comunità;
  • istituire una politica estera e di sicurezza comune.

 
 

 

Il Trattato di Amsterdan; firmato il 2 ottobre 1997

L’accordo di Schengen (1990) è stato fatto FUORI dal Trattato dell’Unione Europea (Maastricht).
Il Trattato di Amsterdam (firmato nel 1997) modifica il Trattato di Maastricht e codifica i valori fondanti dell’Unione stessa (libertà, democrazia ecc.). Alcune materie inserite nel Trattato di Maastricht come: visti, asilo, immigrazione e cooperazione giudiziaria in materia civile, vengono “comunitarizzate”, cioè soggette al T. di Maastricht.
(Con il T. di Amsterdam gli Accordi di Schengen vengono integrati nei Trattati europei)
Trattato di Amsterdam che modifica il Trattato sull’Unione Europea, i Trattati che istituiscono le Comunità europee e alcuni atti connessi al Trattato firmato il 2 ottobre 1997 dagli allora 15 Stati membri dell’Unione Europea (Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Svezia) ed entrato in vigore il 1° maggio 1999. Perfeziona il disegno istituzionale delineato con il Trattato di Maastricht (➔), contenente una disposizione che invitava gli Stati membri a convocare una Conferenza intergovernativa (CIG) per la sua revisione. Nel dicembre 1995, le istituzioni comunitarie avevano presentato le proprie riflessioni al Consiglio europeo di Madrid, che recepiva la volontà di «andare oltre Maastricht». La CIG, incaricata di negoziare il nuovo Trattato, diede inizio ai lavori nel corso del Consiglio europeo di Torino del 29 marzo 1996, per concluderli in occasione del Consiglio europeo informale di Noordwijk del 23 maggio 1997.
Il T. di Amsterdan procede alla semplificazione dei trattati precedenti attraverso l’abrogazione delle disposizioni diventate obsolete e la rinumerazione degli articoli. Codifica, inoltre, i valori fondanti dell’Unione, che sono i principi di libertà, democrazia e rispetto dei diritti della persona e delle libertà fondamentali, oltre che dello Stato di diritto (art. 6, par. 1). Dispone, altresì, che la loro violazione da parte di uno Stato membro possa portare alla sospensione dei diritti di voto, finanche di quello in seno al Consiglio.

All’interno del trattato di Maastricht esisteva già una disposizione che invitava gli stati membri a convocare una Conferenza intergovernativa (CIG) per la sua revisione. Nel 1995 ciascuna istituzione presenta le proprie riflessioni e chiede di “andare oltre Maastricht”: una relazione in tal senso viene presentata al Consiglio europeo di Madrid del dicembre 1995. Proprio l’insoddisfazione alle modifiche istituzionali, spinse i capi di Stato e di governo a prospettare subito un’ulteriore modifica del sistema istituzionale “prima che l’Unione conti venti membri”. I paesi membri sono consapevoli della necessità di approfondire l’integrazione, soprattutto nei due nuovi “pilastri” introdotti appunto con il trattato che ha visto nascere l’UE. La CIG si apre al Consiglio europeo di Torino del 29 marzo 1996 e si conclude al Consiglio europeo informale di Noordwijk del 23 maggio 1997. Il trattato firmato ad Amsterdam contiene innovazioni che vanno nella direzione di rafforzare l’unione politica, con nuove disposizioni nelle politiche di libertà, sicurezza e giustizia, compresa la nascita della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, oltre all’integrazione di Schengen. Altre disposizioni chiarificano l’assetto della Politica estera e di sicurezza comune, con la quasi-integrazione dell’UEO, mentre viene data una rinfrescata (insufficiente) al sistema istituzionale, in vista dell’adesione dei nuovi membri dell’est.

Le cooperazioni rafforzate

Infine, il T. di Amsterdam prevede l’importante strumento delle cooperazioni rafforzate, in virtù del quale alcuni Stati membri possono, previa autorizzazione del Consiglio e nel quadro delle competenze dell’Unione, avviare tra loro forme di integrazione più profonda in un determinato settore, con l’utilizzo di istituzioni, procedure e meccanismi stabiliti dai trattati. L’esigenza di permettere ad alcuni Stati membri di procedere a forme d’integrazione più stretta rispetto ad altri si era fatta sentire in misura sempre maggiore con l’ingresso nell’Unione di nuovi Paesi, che avevano aumentato l’eterogeneità di posizioni su politiche specifiche e, più in generale, sulla visione del futuro della UE. Il Trattato di Nizza ( Trattato di Nizza che modifica il Trattato sull’Unione Europea, i Trattati che istituiscono le Comunità europee e alcuni atti connessi), ha poi esteso la possibilità di utilizzare le cooperazioni rafforzate anche al settore della politica estera e della sicurezza.
 

 

Il Trattato di Nizza – Firmato il 26 febbraio 2001, in vigore dal 2003

Il trattato di Nizza è uno dei trattati fondamentali dell’Unione europea, e riguarda le riforme istituzionali da attuare in vista dell’adesione di altri Stati. Il trattato di Nizza ha modificato il trattato di Maastricht (TUE) e i trattati di Roma (TFUE). È stato approvato al Consiglio europeo di Nizza, l’11 dicembre 2000 e firmato il 26 febbraio 2001. Dopo essere stato ratificato dagli allora 15 stati membri dell’Unione europea, è entrato in vigore il1º febbraio 2003.L’obiettivo del trattato di Nizza è relativo alle dimensioni e composizione della commissione, alla ponderazione dei voti in consiglio e all’estensione del voto a maggioranza qualificata, e infine alle cooperazioni rafforzate tra i paesi dell’Unione europea.

Clausole dell’accordo

Il trattato di Nizza in particolare introduce:

  • nuova ponderazione dei voti nel Consiglio dell’Unione europea,
  • modifica della composizione della Commissione europea,
  • estensione della procedura di codecisione e modifica del numero di deputati al Parlamento europeo per ogni Stato membro,
  • estensione del voto a maggioranza qualificata per una trentina di nuovi titoli.
  • riforma per rendere più flessibile il sistema delle cooperazioni rafforzate
  • nuova ripartizione delle competenze tra Corte e Tribunale

Nell’ambito del Consiglio europeo di Nizza è stata solennemente proclamata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che però non è entrata a far parte del trattato.

Passi successivi

Nel dicembre 2001 il Consiglio europeo ha approvato la Dichiarazione di Laeken con lo scopo di far partire un dibattito più ampio e più approfondito sull’avvenire dell’Unione europea che è approdato nella Convenzione europea. Il trattato costituzionale europeo scaturito da questa Convenzione è abortito a causa della vittoria dei no nei referendum di Francia e Paesi Bassi nel 2005 ed è stato sostituito dal trattato di Lisbona entrato in vigore il 1º dicembre 2009.
 

 

Trattato di Lisbona, in vigore dal 1° dicembre 2009

Il Trattato di Lisbona, noto anche come Trattato di riforma – ufficialmente Trattato di Lisbona che modifica il trattato sull’Unione europea e il trattato che istituisce la Comunità europea – è il trattato internazionale, firmato il 13 dicembre 2007, che ha apportato ampie modifiche al Trattato sull’Unione europea e al Trattato che istituisce la Comunità europea. In realtà è una sorta di Costituzione Europea inserita nel Trattato di Lisbona. Un altro ben congegnato imbroglio per i cittadini europei.
Rispetto al precedente Trattato, quello di Amsterdam, esso abolisce i “pilastri”, provvede al riparto di competenze tra Unione e Stati membri, e rafforza il principio democratico e la tutela dei diritti fondamentali, anche attraverso l’attribuzione alla Carta di Nizza del medesimo valore giuridico dei trattati.
È entrato ufficialmente in vigore il 1º dicembre 2009
 

 

La Costituzione europea

Il trattato di Lisbona fu redatto per sostituire la Costituzione europea bocciata dal “no” dei referendum francese e olandese del 2005. L’intesa è arrivata dopo due anni di “periodo di riflessione” ed è stata preceduta dalla Dichiarazione di Berlino del 25 marzo 2007, in occasione dei 50 anni dell’Europa unita, nella quale il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente del Consiglio dei ministri italiano Romano Prodi esprimevano la volontà di sciogliere il nodo entro pochi mesi, al fine di consentire l’entrata in vigore di un nuovo trattato nel 2009 (anno delle elezioni del nuovo Parlamento europeo).
Nello stesso periodo nasce a tal fine il cosiddetto “Gruppo Amato”, chiamato ufficialmente “Comitato d’azione per la democrazia europea” (in inglese “Action Committee for European Democracy” o ACED) e supportato dalla Commissione europea (che ha inviato due suoi rappresentanti alle riunioni), con il mandato non ufficiale di prospettare una riscrittura della Costituzione basata sui criteri che erano emersi durante le consultazioni della Presidenza tedesca con le varie cancellerie europee. Il risultato è stato presentato il 4 giugno 2007: il nuovo testo presentava 70 articoli e 12.800 parole, circa le stesse innovazioni della Costituzione (che aveva 448 articoli e 63 000 parole) diventando così il punto di riferimento per i negoziati.
Il Consiglio europeo di Bruxelles, sotto la presidenza tedesca, il 23 giugno 2007 raggiunse l’accordo sul nuovo Trattato di riforma.
 

 

Dublino III, la convenzione europea sui migranti e le sue falle. Il regolamento di Dublino, nelle sue versioni II e III, è il testo che norma la richiesta di asilo da parte di cittadini extracomunitari che fuggono da paesi in guerra o persecuzioni di natura politica o religiosa.

di MARIA TERESA SANTAGUIDA

15:29 – Siglata per la prima volta nel 1990, la convenzione di Dublino regola la valutazione delle domande di asilo politico nel territorio europeo. Rivista e corretta nel 2003 e poi nel 2013, la sua versione in vigore dal 2014 prevede che la richiesta sia esaminata nel Paese di arrivo: visto che la maggioranza degli extracomunitari viaggia via Mare nel Mediterraneo e approda sulle coste italiane, si tratta quasi sempre dell’Italia.

Il principio ispiratore – Alla base di Dublino III c’è il principio che la richiesta di asilo debba essere fatta nel primo Paese in cui si mette piede. La norma risale alla prima stesura della convenzione nel 1990 ed era contenuta anche nel trattato di Schengen dello stesso anno. Obiettivo iniziale era che almeno uno degli Stati membri si prendesse carico delle richieste per l’ottenimento dello status di rifugiato politico in modo da regolare in modo ordinato e cooperativo i flussi.

L’imprevisto – Nel trattato, il caso di “ingresso illegale” in Ue è considerato come se fosse un’eccezione, ma nel corso dell’ultimo decennio, come insegnano le cronache, questa è diventata la regola ed è la causa primaria dei molti problemi diplomatici sul tema migranti fra gli Stati Europei.

La procedura – Teoricamente a ogni immigrato irregolare dovrebbero essere prese le impronte digitali, che poi devono essere inserite nella banca dati Eurodac. In questo caso l’obiettivo è quello di tracciare l’ingresso dei migranti in modo tale che non presentino la richiesta contemporaneamente in diversi Paesi. Se accade che la richiesta viene presentata ad una nazione diversa da quella in cui il migrante è entrato in Europa, allora può essere rimandato indietro nel Paese di primo approdo. L’uso delle impronte digitali, secondo alcune associazioni umanitarie è al limite del diritto, poiché è una procedura utilizzata solitamente con chi ha commesso un crimine, ma è il portato dell’ingresso illegale, nel 1990 ancora considerato alla stregua di un reato.

L’attuazione – Alcuni Paesi, in primis la Grecia ma anche l’Italia, oberati dai flussi migratori, per qualche tempo hanno lasciato passare i migranti senza identificarli, per fare in modo che potessero inoltrare la richiesta nel Paese in cui veramente volevano poi risiedere. Una specie di accordo tacito fra gli Stati Europei faceva in modo che, su volumi ridotti, l’infrazione della regola sottoscritta a Dublino venisse tollerata. Contemporaneamente però la prassi aumentava il sospetto reciproco tra gli Stati. L’Italia adesso ha invertito la rotta, tentando di rispettare le regole per mantenere una buona reputazione e parallelamente condurre una battaglia per la modifica di Dublino III.

La contraddizione – La rigidità del trattato ha prodotto negli anni la situazione paradossale per cui da un lato c’è un richiedente asilo che non vuole stare in un Paese e dall’altro lo stesso Paese che lo ospita che non vorrebbe o non può tenerlo. Gli Stati sanno che se salvando un migrante nelle proprie acque territoriali dovranno poi farsi carico anche della sua tutela: un ulteriore fardello soprattutto per i Paesi affacciati sul mare.

I respingimenti – Secondo le statistiche pubblicate dal ministero dell’Interno e basate su dati Eurostat lo Stato con il maggior numero di casi di respingimento è la Germania: nel 2013 sono state 4.316 le riammissioni attive, ovvero espulsioni di richiedenti asilo verso il Paese attraverso cui sono entrati in Europa; nel 2008 erano 2.112, meno della metà. Subito dopo c’è la Svezia con 2.869 riammissioni attive nel 2013. Per quanto riguarda le riammissioni passive, a guidare la classifica c’è proprio l’Italia dove nel 2013 sono state rimpatriate 3.460 persone che erano entrate in Europa attraverso il nostro Paese ma che hanno chiesto asilo da un’altra parte. Un balzo avanti enorme rispetto al 2008 quando le riammissioni passive erano state solo 996. Le riammissioni attive in Italia invece nel 2013 sono state solo 5, verso l’Austria. Dopo di noi il maggior numero di riammissioni passive c’è stato in Polonia, altro Paese di confine: 2.442 nel 2013. Il totale delle riammissioni attive in tutta l’Unione europea nel 2013 è stato di 16.014.

Sospensione parziale del regolamento nel corso della crisi migratoria del 2015

Ai sensi del regolamento di Dublino, se una persona che aveva presentato istanza di asilo in un paese dell’UE attraversa illegalmente le frontiere in un altro paese, deve essere restituita al primo stato. Durante la crisi europea dei migranti del 2015, l’Ungheria venne sommersa dalle domande di asilo di profughi provenienti dall’Asia; a partire dal 23 giugno 2015 ha iniziato a ricevere indietro i migranti che, entrati in Ungheria attraverso la Serbia, avevano successivamente attraversato i confini verso altri paesi dell’Unione europea. Il 24 agosto 2015, la Germania ha deciso di sospendere il regolamento di Dublino per quanto riguarda i profughi siriani e di elaborare direttamente le loro domande d’asilo. Altri stati membri, come la Repubblica Ceca, l’Ungheria, la Slovacchia e la Polonia, hanno di recente negato la propria disponibilità a rivedere il contenuto degli accordi di Dublino e, nello specifico, a introdurre quote permanenti ed obbligatorie per tutti gli stati membri.
 

Riflessioni sugli avvenimenti sopra-descritti (Oggi con la determinazione del Ministro dell’Interno Matteo Salvini, la situazione è molto cambiata)

Questa Convenzione, Regolamento, Trattato o Accordo, in definitiva il nome conta poco o nulla, è dato solo per confondere; invece ha molta importanza il contenuto, in quanto l’Italia, che si affaccia sul Mediterraneo, è stata lasciata sola almeno per un decennio ad accogliere i profughi, mentre gli altri stati europei, ciechi e sordi e ben contenti di scaricare le responsabilità, guardavano da un’altra parte. Si sono resi conto solo quando il problema, oramai ingigantito, ha raggiunto i loro confini. Una grossa colpa ha il ministro italiano (Alfano) che, incaricato di negoziare la convenzione, è stato incapace di battere i pugni e imporre le nostre ragioni.
Quest’Unione Europea delle convenienze e degli opportunismi ha tradito i valori iniziali della democrazia imboccando la strada della disgregazione; si sta verificando una sorta di “effetto domino”.
Il filo spinato e le barriere sono la giusta risposta di cittadini inconsapevoli ai politici e ai burocrati di Bruxelles che hanno ignorato il coinvolgimento di tutti gli europei, in specifico gli italiani.
Alla luce di questi fatti, l’aspetto drammatico e antidemocratico, è che tutti gli Accordi, Trattati, Regolamenti, Carte, dichiarazioni varie e Convenzioni, sono contenuti in decine di migliaia di cavillosi documenti che costituiscono una tale mole da rendere, in pratica, impossibile la consultazione. Tuttavia il compito che i politici responsabili di ogni Stato membro avrebbero dovuto svolgere è di rendere pubblici i contenuti, illustrarli ai rispettivi cittadini e introdurli nelle scuole.
Nella realtà sono importantissime decisioni prese all’oscuro della maggior parte dei cittadini europei, mai informati, né consultati e per i quali altri si sono arrogati impunemente il diritto di decidere violando le più elementari regole democratiche – il viatico del Trattato di Schengen del 1986. Sono queste decisioni che oggi rischiano di frantumare la già malconcia Comunità Europea e le conseguenze di questi abusi, oggi ricadono pesantemente sulle spalle delle varie popolazioni europee, alla testa ci sono gli italiani.
A partire dal Trattato di Schengen del 1989, al trattato di Lisbona del 2009, per arrivare ad oggi, anno 2016, sono stati ventisette anni di silenzi e tortuose macchinazioni. Si è mentito agli europei tirando in ballo sempre e solo gli “Accordi di Schengen”, o semplicemente citando “Schengen” (che in realtà sanciva la libera circolazione di persone e merci in Europa ma ai soli europei), come sbrigativa giustificazione a una sorta di commercio umano crudele, disorganizzato, nel nome di una falsa “solidarietà”. I cittadini europei, giustamente spaventati da questa improvvisa, interminabile massa di extracomunitari che in breve tempo hanno attraversato senza controlli le frontiere invadendo i territori, hanno opposto resistenza elevando barriere di protezione per garantire la propria sicurezza. Tutto questo, fra le violente proteste dei politici e burocrati della Comunità Europea, la quale invece di organizzarsi e prendere decisioni sull’ordine e salvaguardia dei propri territori urla insulti contro i paesi “ribelli” con insulse, minacciose e pericolose prese di posizione.
È il logico risultato di una politica burocratizzata di vertice, arrogante, autoritaria, ottusa, sorda e ceca, la quale, senza la minima visione delle conseguenze future, isolata nella sua bolla di potere, si è arrogata il diritto di decidere, escludendo i cittadini di vari stati europei a esercitare il loro diritto di voto, violando i valori fondanti dell’Unione: “i principi di libertà, democrazia e rispetto dei diritti della persona e delle libertà fondamentali”.
Oggi sono proprio i popoli europei a pagare i pesanti costi non solo in denaro ma soprattutto le cause delle profonde incomprensioni per le differenze religiose, di cultura e sistemi di vita di queste popolazioni.
La gente comune è disorientata, con ragione non comprende questa forma d’integrazione imposta quasi con violenza, spinta oltre ogni limite attraverso disposizioni venute dall’alto, in nome di una solidarietà di comodo, che obbliga i cittadini a convivere con queste genti, creando disagio e diffidenza, anche per i trattamenti di favore elargiti dallo stato a queste persone, povere fin che si vuole ma in un periodo di grave crisi per la mancanza di lavoro oramai cronica che le sinistre italiane al governo non risolveranno mai. Un’infausta e imprudente operazione sostenuta con forza anche con la complicità della chiesa di Roma in nome di una distorta solidarietà papalina.
L’Italia, immobile dai primi anni’80, da tempo è governata da un sistema centralista di sinistra di stampo catto-comunista che l’ha impoverita culturalmente, moralmente e strutturalmente, annientando, in particolare a Torino, un prezioso apparato industriale e d’impresa. Negli anni sessanta, i politici con i sindacati della sinistra hanno operato senza scrupoli un vero sfacelo nel mondo del lavoro inculcando nelle giovani generazioni la cultura del diritto, in cui tutto deve essere facile, operando inoltre una sistematica “disistruzione” scolastica verso gli studenti, relegando in un canto come formule passatiste, il senso del dovere, i veri valori del lavoro, che è fatica, della famiglia, del proprio paese e della stessa Unione Europea.
Ancora oggi nelle scuole italiane manca l’Educazione Civica, una materia che dovrebbe essere obbligatoria, essa comprende l’insegnamento della Carta Costituzionale, un documento che ogni buon cittadino è tenuto a conoscere e imparare. Introdotta dallo statista Aldo Moro nel 1958, dopo il suo assassinio questa materia è stata praticamente cassata dall’ordinamento scolastico e mai più ripresa. Neppure la riforma scolastica della Gelmini nel 2008 prevede che l’Educazione Civica sia una materia vera e propria, come molti altri aspetti alquanto discutibili. Ma statisti come Aldo Moro l’Italia non li avrà mai più, non per nulla siamo sprofondati nel vuoto assoluto della superficialità e dell’incultura. Sui veri valori dei Trattati Europei e non solo, si è sempre taciuto, in Italia poi i cittadini non sono mai stati coinvolti in consultazioni popolari; una vergogna in un paese che si proclama di fronte al mondo modello di democrazia, ma i nodi stanno arrivando al pettine. C’è un diffuso, generale malcontento e molti stati dell’Unione meditano di uscire da questa Unione Europea. L’unica alternativa possibile per salvare veramente l’Europa dal possibile fallimento, se ne convincano tutti i membri, è dare ad essa una nuova struttura politica di modello Federale, com’era stata la proposta iniziale dalla Germania e subito rifiutata; ma i tempi erano diversi e con uomini politici di ben altra statura che avevano una chiara visione del futuro…

Carlo Ellena

Condividi questo articolo

Il voto, l’Italia mostra la sua vera faccia

28 febbraio 2018

L’olimpica Italia politica mostra la sua vera faccia.

Le Olimpiadi invernali del 2018 sono uno specchio fedele di qual è la capacità del paese di produrre persone capaci e determinate a lavorare e vincere per se stessi e per la propria bandiera, ben inteso, escludendo a priori tutti gli atleti medagliati, che meritano onore e gloria.

Ciò che incombe pesantemente nella numerosa platea di atleti che si misurano nelle varie specialità di sport individuali (invernali e atletica leggera), è la mancanza di determinazione e sacrificio, qualità indispensabili per arrivare alla vittoria o prodigarsi per un piazzamento onorevole. Ho ascoltato dichiarazioni di vari allenatori e anche dirigenti sportivi, ad esempio l’ex marciatore ora dirigente Sandro Damilano, il quale dichiara, come altri, che “l’atleta deve allenarsi ma anche divertirsi”. È uno strano concetto che contrasta con lo sport di competizione, tenendo ben conto, che l’atleta, nel fare sport professionistico, che è il suo lavoro, dovrebbe avere come obiettivo la vittoria, che da sola ripaga e premia, sotto i vari aspetti morali e materiali, tutti i sacrifici fatti per conseguirla. Invece, da quanto sentito in interviste ad alcuni atleti di media e bassa classifica, costoro tergiversano, accampando pretesti di ogni genere; la neve, la pista non adatta, gli sci, la fatica, il freddo e quant’altro, poco o nulla contrariati delle loro débâcle.

Una lezione è impartita gratis dalla snowboarder praghese Ester Ledecka, che ha vinto l’oro nella sua specialità e ne ha vinto un altro nel supergigante (non succedeva deal 1928) con un paio di sci prestati da un’americana. Lei risponde così a un’intervista: “Ho solo fatto il mio lavoro…”, poche, chiare, semplici parole ma molti fatti.

Questa lunga premessa serve per introdurre un discorso sull’inefficienza e rammollimento degli italiani in questa fase nevosa del neanche troppo bizzarro inverno che stiamo vivendo.

Ascoltando gli articolati servizi RAI, con inviati sul posto che commentano con ridondante enfasi il freddo, le gelate e i pochi centimetri di neve caduta, in particolare su Roma, Napoli e dintorni, ci informano che mezza Italia si è bloccata, impossibilitata a muoversi. Una signora di Bolzano intervistata in auto sulla disastrosa situazione ferroviaria, viabilità e trasporti pubblici, rispondeva esterrefatta e incredula su quanto stava avvenendo e concludeva: ”…ma non scherziamo; per noi che cada questa poca neve è normale; non si ferma nulla, tutto funziona senza il minimo intralcio”.

È un altro evidente segnale del drammatico tracollo di un paese oramai incapace di reagire non solo di fronte alla realtà dei fatti, perché non più avvezzo, causa decenni di abulia, inazione e rassegnazione ma soprattutto per mancanza di uomini politici capaci e abili a governare. Che dire del presidente del Consiglio signor Gentiloni, che in un suo intervento di fronte alle telecamere, intuendo in pericolo la sua poltrona, liquidava in malo modo il compagno di partito Ministro dell’economia e delle finanze signor Padoan. Un mediocre economista, che ancora in carica al Ministero non ha certo brillato per idee e personalità ma che tuttavia è servito ai comunisti del PD e a Gentiloni, il quale in questo frangente di criticità, mostrava la sua totale mancanza di stile, intelligenza e classe politica.

Dal 2013, senza votazioni popolari (ma già molto prima), le sinistre hanno preso stabilmente, indisturbati e senza alcuna opposizione le leve più importanti dell’apparato statuale e subito buona parte del mondo politico si è accodato, senza distinzioni di colore, idee e simboli di partito.

Costoro, tutti insieme hanno tradito gli italiani per decenni, con promesse mai mantenute, spaventosa incapacità, menzogne e abusi tali da richiedere urgentemente una specifica Commissione d’Inchiesta. Ebbene, oggi, a pochi giorni dalle elezioni, questi signori si presentano in TV esagitati, con il volto quasi tumefatto dalla travolgente fiumana di parole che sanno esprimere ma oramai inutili per giustificare i loro fallimenti e tutto questo, con una faccia di bronzo da far impallidire una fonderia, chiedere il voto per i gran passi in avanti che loro hanno dato o portato al paese. La verità che è sotto gli occhi di tutti ci mostra che i veri nemici dell’Italia sono proprio loro.

Viviamo male in un paese che è allo stremo e prima che succeda l’irreparabile, bisogna attivarsi con posizioni ferme e legali; il moderatismo non serve a nulla.

Fra pochi giorni, il 4 marzo 2018, si terranno le elezioni per rinnovare il Parlamento italiano.

Elezioni apertamente anticostituzionali, poiché indette da un governo non votato dai cittadini e che ha svolto e svolge un ruolo provvisorio/transitorio a seguito di una grave crisi politica pregressa.

Si va a votare con una nuova legge elettorale minuziosamente preparata per non cambiare nulla comunque sia il risultato alle urne; fatta per ingannare e aggirare gli italiani; una truffa scandalosa, che fa impallidire la ben nota “legge truffa” del 31 marzo 1953.

Questa nuova legge, peggiore delle precedenti, creata da una classe politica irresponsabile e corrotta, mette in pericolo non solo l’Italia ma anche gli equilibri economici e strategici europei e euro-atlantici.

È lecito porsi un interrogativo: con questa gente è giusto andare al voto o non andare al voto?

Votare per cosa, per chi, con quali speranze? ……..

-Ne I principi fondamentali, l’Art. 1 è inosservato: chi lavora oggi in Italia se le aziende fuggono?

-Perché le aziende di Stato falliscono? È colpa dell’incapacità politica e manageriale?

-La Giustizia va riposta alla tutela dei cittadini, oggi abbandonati a se stessi.

-La Sanità sperpera enormi capitali in clientele di comodo ed è carente  nei servizi.

-La situazione geologica del paese è tragica, servono urgentemente adeguati, periodici controlli.

-Dare immediata attuazione di una nuova forma manutentiva al sistema idrografico e stradale.

-Le ferrovie ritornino allo Stato per riproporre servizi adeguati e una riorganizzazione manutentiva.

-Qual è lo stato della nostra compagnia aerea? Non è più nostra? Che fine ha fatto?

-Cancellazione immediata di tutti i sistemi del criminale, dilagante gioco d’azzardo.

-Mettere sotto controllo e un freno al pullulare delle associazioni no-profit che chiedono denaro.

-Un altro scandalo al quale rimediare: l’istituzionalizzazione della povertà dello stato.

-Ripristinare il servizio militare, un paese senza esercito è preda facile.

-La RAI? Ricostruire un servizio pubblico meno sciocco al servizio dei cittadini e non una struttura       costruita a misura del PD.

-Il Presidente del Parlamento europeo Antonio Taiani Presidente del Consiglio? Un incapace spedito in Europa che vuole civilizzare l’Africa con i soldi europei; una mossa politica sbagliata per cambiare poco o nulla.

-In merito ai migranti che sbarcano in Italia mentre l’Europa si nasconde, allora in questo caso specifico richiedere con urgenza una revisione agli Accordi di Dublino, poiché il signor Alfano, che aveva partecipato agli incontri, era stato permissivo da accettare tutto e le conseguenze ancora le subiamo.

Perché un nuovo traffico di schiavi. (Da un’analisi di Paolo G. Parovel)

Questo nuovo traffico di schiavi non ha bisogno di usare catene visibili, perché le vittime africane vengono convinte a partire con miraggi di benessere in Europa, derubate e scaricate nell’unico paese che le accoglie senza poterle integrare: l’Italia in piena recessione economica e sociale, che ha già 8 milioni di cittadini poveri, 5 milioni di disoccupati (il 40% dei giovani) e non riesce a gestire nemmeno i rifugiati di guerra dal Medio Oriente e gli immigrati dai Balcani.

In Italia perciò la massa crescente degli immigrati clandestini africani diventa la sottoclasse sociale più emarginata, discriminata, indifesa e perciò più sfruttata dai politici e dalle organizzazioni criminali per speculare sulle assistenze pubbliche, per alimentare i mercati illegali del lavoro nero ( in particolare nell’agricoltura), della prostituzione, dello spaccio di droghe (1/3 dei carcerati in Italia sono immigrati clandestini) e per aumentare i voti dei movimenti politici dei razzisti.

                                                                                                                                    Paolo P. Parovel

Il caso dell’Embraco è una triste storia iniziata alla fine degli anni ottanta ma è uno dei tanti, troppi fallimenti ed errori madornali fatti da una classe manageriale e politica, incapace e dannosa al paese.

A questo proposito riporto un articolo importante già postato tempo fa nel BLOG.

 

25 giugno 2017 – Tratto da Mezzostampa-

ITALIA TERRA DI CONQUISTA. AZIENDE STORICHE VENDUTE ALL’ESTERO

Il Made in Italy è sempre meno italiano, dato che le aziende di punta del settore dell’industria, della moda e degli alimentari vengono acquisite con preoccupante costante da holding straniere. Gli ultimi casi sono la Telecom venduta agli spagnoli che stranamente, pur essendo indebitati più di noi, hanno acquisito l’azienda italiana, e quello dei cioccolatini Pernigotti, venduti dai Fratelli Averna al gruppo Sanset della famiglia Toksoz. Pernigotti è un’azienda storica con oltre 150 anni di attività. Ma ormai siamo avviati su una china molto pericolosa per l’occupazione e per l’approvvigionamento delle materie prime, che rischiano di spostarsi in terra straniera. A tutt’oggi, solo per l’agroalimentare sono stati venduti marchi per circa 10 miliardi di euro. Ma la domanda che bisogna porsi è: “queste aziende potevano sopravvivere nel mercato globale senza far parte di grossi gruppi industriali?”.

Artigianato e tradizione spesso non vanno molto d’accordo con i ritmi e le pretese di un mercato in cui le spese di produzione si alzano e i profitti calano. Vendere è forse di vitale importanza per gli imprenditori, ma in tutto questo discorso si sente l’assenza dello Stato, che nulla sembra volere e potere fare per arrestare la dissoluzione del Made in Italy e, anzi, vessa sempre più le aziende con una pressione fiscale a livelli record. Non esiste settore che non sia stato toccato dalle mani delle ricche holding straniere. La strategia di questi gruppi è semplice: attendere il momento di difficoltà economica per appropriarsi di aziende con valore aggiunto notevole visto che, pur non più italiano al cento per cento, il prodotto italiano vende sempre e comunque, soprattutto all’estero.

Ecco così che un’opportunità di crescita per il comparto esportazioni è  ridotta al lumicino dall’esternalizzazione della proprietà e, molto spesso, anche della produzione. Il primato sul bel vivere e vestire non ci appartiene più, è meglio farsene una ragione. Ma quello che preoccupa di più è l’acquisizione di negozi, supermercati, fabbriche, ristoranti, da parte di cinesi che ormai sono l’etnia più numerosa, specie nel Sud Italia.

Vista la rapidità con la quale le aziende, oramai trasformate in pacchetti azionari, cambiano proprietà, nell’elenco potrebbe esserci stato qualche cambiamento ma conta poco, in Italia non tornano più. Qui di seguito c’è l’elenco recente di aziende vendute all’estero, ma sono solo una parte, e quelle più conosciute:

-La Telecom è stata venduta….la cosa più grave che l’hanno comprata gli spagnoli che stanno più inguaiati di noi….e il Presidente della Telecom dice: “Non ne sapevo niente” (sigh)…

La Barilla è stata venduta agli americani…

L’Alitalia ultimamente diventata Società Aerea Italiana S.P.A. è la compagnia aerea di bandiera   italiana in amministrazione straordinaria ma poi commissariata. Il suo futuro è molto incerto

-La Plasmon è stata venduta agli americani.

La Parmalat, di quel buon signore di Tanzi, è stata venduta ai francesi della Lactalis

L’Algida è stata venduta ad una società anglo-olandese

-L’Edison, antica società dell’energia, venduta ad una società francese, l’EDF

Gucci è nelle mani della holding francese Kering

BNL è controllata dal gruppo francese Bnp Paribas

-ENEL cede buona parte delle quote ai russi (il 49%)

Il marchio AR, azienda conserviera quotata in borsa, di Antonino Russo, è passata ai giapponesi della Mitsubishi.

-Lo stabilimento AVIO AEREO è passato alla Generale Eletric…

-I cioccolatini Pernigotti dei fratelli Averna venduti ai turchi della famiglia Toksoz

-L’azienda Casanova, La Ripintura, nel Chianti, è stata recentemente acquisita da un imprenditore di Hong Kong

-I baci perugina appartengono dal 1988 alla svizzera Nestlè

I gelati dell’antica gelateria del corso sempre alla Nestlè

-Buitoni: L’azienda fondata nel 1927 a Sansepolcro dall’omonima famiglia è passata sotto le insegne di Nestlè nel 1988.

-Gancia: le note bollicine sono in mano all’oligarca russo Rustam Tariko (proprietario tra l’altro della vodka Russki Standard) dal 2011.

-Carapelli è nella galassia del gruppo spagnolo Sos dal 2006, cosi come Sasso e Bertolli.

-Star. Il 75% della società fondata dalla famiglia Fossati (oggi azionisti di Telecom Italia) nel primo dopoguerra, è in mano alla spagnola Galina Blanca (entrata nel 2006 e poi salita del capitale del gruppo).

Salumi Fiorucci: sono in mano agli spagnoli di Campofrio Food Holding dal 2011.

-San Pellegrino è stata acquisita dagli svizzeri della Nestlè dal 1998.

-Peroni è stata comperata dalla sudafricana Sabmiller nel 2003.

Orzo Bimbo acquisita da Nutrition&Santè di Novartis nel 2008.

-La griffe del cachemire “Loro Piana”, fiore all’occhiello del made in Italy, è stata ceduta per l’80% alla holding francese Lvmh che già include simboli assoluti come Bulgari, Fendi e Pucci.

Chianti classico (per la prima volta un imprenditore cinese ha acquistato un’azienda agricola del Gallo nero)

-Riso Scotti (il 25% è stato acquisito dalla società alla multinazionale spagnola Ebro Foods)

Eskigel produce gelati in vaschetta per la grande distribuzione (Panorama, Pam, Carrefour, Auchan, Conad, Coop) (ceduta agli inglesi con azioni in pegno ad un pool di banche).

-Fiorucci–Salumi (acquisita dalla spagnola Campofrio Food Holding S.L.)

-Eridania Italia SpA (la società dello zucchero ha ceduto il 49% al gruppo francese Cristalalco Sas)

-Boschetti alimentare (cessione alla francese Financière Lubersac che detiene il 95%)

Ferrari Giovanni Industria Casearia SpA (ceduto il 27% alla francese Bongrain Europe Sas) 2009

Delverde Industrie Alimentari SPA (la società della pasta è divenuta di proprietà della spagnola Molinos Delplata Sl che fa parte del gruppo argentino Molinos Rio de la Plata) 2008

-Bertolli (venduta a Unilever, poi acquisita dal gruppo spagnolo SOS)

-Rigamonti salumificio SPA (divenuta di proprietà dei brasiliani attraverso la società olandese Hitaholb International)

-Orzo Bimbo (acquisita da Nutrition&Santè S.A. del gruppo Novartis)

-Italpizza (ceduta all’inglese Bakkavor acquisitions limited)

-Galbani (acquisita dalla francese Lactalis)

-Sasso (acquisita dal gruppo spagnolo SOS)

-Fattorie Scaldasole (venduta a Heinz, poi acquisita dalla francese Andros)

Invernizzi (acquisita dalla francese Lactalis, dopo che nel 1985 era passata alla Kraft) 1998

-Locatelli (venduta a Nestlè, poi acquisita dalla francese Lactalis)

-San Pellegrino (acquisita dalla svizzera Nestlè) 1995

-Stock (venduta alla tedesca Eckes A.G., poi acquisita dagli americani della Oaktree Capital Management) 1993

-La Safilo (Società azionaria fabbrica italiana lavorazione occhiali), fondata nel 1878, che oggi produce occhiali per Armani, Valentino, Yves Saint Laurent, Hugo Boss, Dior e Marc Jacobs, è diventata di proprietà del gruppo olandese Hal Holding.

-Nel settore della telefonia, a Milano nel 1999 era nata Fastweb, una joint venture tra e.Biscom e la comunale Aem che oggi fa parte del gruppo svizzero Swisscom.

Nel 2000 Omnitel è passata di proprietà del Gruppo Vodafone

-Nel 2005 Enel ha ceduto la quota di maggioranza di Wind Telecomunicazioni al magnate egiziano Sawiris, il quale nel 2010 l’ha passata ai russi di VimpelCom.

-Nel campo dell’elettrotecnica e dell’elettromeccanica nomi storici come Ercole Marelli, Fiat Ferroviaria, Parizzi, Sasib Ferroviaria e, recentemente, Passoni & Villa sono stati acquistati dal gruppo industriale francese Alstom, presente in Italia dal 1998.

-Nel 2005 le acciaierie Lucchini spa sono passate ai russi di Severstal, mentre rimane proprietà della omonima famiglia italiana, la Lucchini rs, che ha delle controllate anche all’estero.

-Fiat Avio, fondata nel 1908 e ancora oggi uno dei maggiori player della propulsione aerospaziale, è attualmente di proprietà del socio unico Bcv Investments sca, una società di diritto lussemburghese partecipata all’85% dalla inglese Cinven Limited.

-Benelli, la storica casa motociclistica di Pesaro, di proprietà del gruppo Merloni, nel 2005 è passata nelle mani del gruppo cinese QianJiang per una cifra di circa 6 milioni di euro, più il trasferimento dei 50 milioni di euro di debito annualmente accumulato.

-Nel 2003 la Sps Italiana Pack Systems è stata ceduta dal Gruppo Cir alla multinazionale americana dell’imballaggio Pfm Spa.

-In una transazione di qualche tempo fa Loquendo, azienda leader nel mercato delle tecnologie di riconoscimento vocale, che aveva all’attivo più di 25 anni di ricerca svolta nei laboratori di Telecom Italia Lab e un vasto portafoglio di brevetti, è stata venduta da Telecom alla multinazionale statunitense Nuance, per 53 milioni di euro.

Totale 54 aziende.

 

Condividi questo articolo

Articolo apparso sull’album “TOPOLINO” dell’11 novembre 1979, pag. 157.

Sfogliare i vecchi album “TOPOLINO”della collezione di mia moglie, è un’operazione che affronto sempre con piacere e molta curiosità; sono una vera miniera di notizie talvolta strabilianti. Questa, che la mia attenta consorte ha trovato, è veramente stucchevole e se vista oggi, dopo ben 38 anni, ci mostra, dietro l’apparente semplicità dell’informazione, un paese che si è pietrificato già negli anni ‘70. Mi spiego meglio.
Tanto per essere chiari, reputo una vera fortuna che il ponte non sia stato costruito (a totale dispiacere di Berlusconi), tuttavia mettendo in conto che la fase di studio era iniziata nel lontano 1959; una montagna di denaro per un pugno di polvere. Sui motivi e il perché credo sia meglio non approfondire, non solo sullo sperpero di denaro pubblico ma anche su fatti e misfatti di dubbia trasparenza, comunque il fatto si rivela un pretesto più che sufficiente per osservare con occhio critico i soliti disastri italiani di varia natura che oggi si ripetono periodicamente, non come, ma molto peggio di quarant’anni fa.
Ponti e cavalcavia autostradali crollati, incendi dolosi in Sicilia, che ha ben 9 (nove) zone a rischio come a Napoli, sul Vesuvio. Gli incendiari, pur se colti sul fatto, condannati e incarcerati; dopo qualche mese, a volte anche solo per pochi giorni, per una strana magia ritornano in libertà. Una giustizia invero bizzarra, nevvero?
La mappa degli incendi in Italia conta circa 20 aree in pericolo costante e ancora; disastri ambientali e geologici un po’ in tutta Italia, dovuti all’assenza di controlli e manutenzione; abusi immobiliari vergognosamente impuniti sulle coste più belle del sud-Italia, a Matrice si vive ancora tra le macerie, le quali ricordano ai cittadini le promesse mancate dello Stato; la sanità al collasso, giustizia inesistente, la scuola pubblica trasformata in contenitore d’impieghi politici, dove si evidenzia la carenza d’insegnamento per l’assenza di programmi almeno decenti o a livello europeo.
Una vera e propria “dis-istruzione”, pianificata e caparbiamente voluta attraverso una perfetta organizzazione che implementava e implementa tuttora anche il mondo del lavoro in generale. Sindacalizzazione dei cittadini-lavoratori e attraverso formule arcaiche del partito comunista italiano, l’estensione massiccia della cultura del diritto; ovvero diritto alla scuola, con meno studio, diritto al lavoro, allo sciopero (circa cinquemila ore perse nel 2016) alle ferie, alla casa e quant’altro. Questa sorta di sotto-politica di basso livello del ”tutto facile” ha inculcato in molti giovani l’idea che il lavoro sia una seccatura solo in parte necessaria, un’idea che può funzionare sinché sono in vita i “finanziatori”, ovvero, genitori e nonni.
Con la presa di potere capillare dell’elefantiaco apparato pubblico, dell’informazione (La RAI) e naturalmente dell’ISTAT che gonfia a sproposito i vari dati e percentuali, il paese può dirsi paralizzato già dai primi anni ’80. Un convinto demagogo comunista quale Corradino Mineo, parlando di lavoro in un telegiornale di qualche tempo fa, commentava convinto la consolidata vittoria della nuova Italia improduttiva con la folgorante frase che suonava all’incirca così;“…oramai siamo in piena era post-industriale…”, tuttavia senza spiegare che forma di lavoro dare, nella nuova era x, ai milioni di disoccupati creati dalla sparizione delle “maledette” industrie passate di moda, come se fossero un tipo di pettinatura o un paio di pantaloni.
Ѐ importante precisare che i comunisti italiani e la chiesa hanno sempre lavorato bene insieme (da questo connubio è nato il catto-comunismo, si veda l’attuale pontefice, prodigo a spargere benedizioni e lanciare anatemi ma nel suo reame non entrano extracomunitari).
I Patti Lateranensi del 1929 con la nascita dello Stato della Città del Vaticano, erano stati in qualche modo accettati anche da una buona parte dell’antifascismo.
Già nell’agosto del 1938 c’era stato un incontro in Svizzera tra un monsignore di Curia e due esponenti del Partito Comunista in esilio; costoro rassicurarono il monsignore che non avrebbero messo in discussione il trattato ma solo il Concordato. È evidente una fattiva collaborazione di ben lunga data.
Tutto questo mette in luce, se ancora c’era bisogno, un fattore inequivocabile; il comunismo è un cancro per l’umanità e dove governa genera soltanto povertà e ottuso stratalismo improntato all’inefficienza e al clientelismo. Gli italiani e in particolare i piemontesi, dovrebbero metterlo in conto.
Il potere d’acquisto della Lira era aggiornato dall’ISTAT, che funzionava e rendeva visibili i coefficienti di rivalutazione. Con l’Euro (una vera e propria rapina per le tasche degli italiani) rimane un calcolo empirico, ce ne rendiamo conto nella spesa giornaliera delle derrate alimentari, l’unico sicuro riferimento poiché costantemente soggette a ritocchi sempre al rialzo. Un aspetto molto negativo per l’economia delle normali famiglie ma che al ciarpame politico che ci governa neppure passa per la testa.
Per circa sessant’anni le parcelle di libertà concessa agli italiani dai vecchi governi formati dai partiti tradizionali, hanno permesso alle famiglie un discreto benessere, frutto di duro lavoro e pesanti sacrifici per risparmiare qualche soldo. Oggi queste “riserve” si assottigliano, talvolta sono ridotte all’osso, tuttavia si rivelano indispensabili per figli e nipoti, in buona misura disoccupati e non avvezzi a risolvere i problemi che si trovano ad affrontare; con quale risultato? Questi giovani se ne vanno all’estero e non solo in Europa. Una perdita incalcolabile, di sicuro non rimpiazzata da extracomunitari o altri immigrati senza arte né parte e che sono da mantenere a spese dei cittadini.
La cecità, arroganza e totale assenza di diplomazia del segretario comunista signor Renzi e del suo compare signor Gentiloni, supportati dalla loro variopinta maggioranza composta di traditori, partitini voltagabbana e dal vecchio presidente della Repubblica Napolitano, che è il vero burattinaio, non ha limiti. Costui, è il degno compagno che nei suoi due mandati ha comunistizzato il paese, collaborando attivamente a impoverirlo attraverso una statalizzazione del lavoro, sterilizzandolo e burocratizzando all’esasperazione le pratiche all’iniziativa privata imprenditoriale e artigiana, che ha come logica conseguenza la fuga in massa delle imprese. È un problema già illustrato in precedenti articoli.
L’UE dei burocrati, non dei popoli, oramai allo sbando, sta marciando sull’orlo del baratro; “l’affaire extracomunitari”, trattato come faccenda di pertinenza delle sole oligarchie politiche e dai potentati economici non solo europei e in disprezzo di ogni norma democratica, hanno tenuto all’oscuro i cittadini dell’Unione sul sistema usato per dare libera circolazione ai migranti all’interno dell’UE. Un metodo truffaldino simile a quello adottato per il referendum sulla Costituzione Europea, già respinto nel 2005 dai francesi e olandesi e ripresentato nel giugno del 2008 mascherato come Trattato di Lisbona-alleggerito e respinto poi dall’Irlanda (unico paese ad aver previsto una consultazione popolare).
Al Consiglio Europeo del 2008 si era trovato, con vari maneggi, un accordo e l’1 dicembre 2009 entrava in vigore il Trattato di Lisbona cancellando il risultato del referendum. Questo nuovo Trattato modificava completamente quello sull’Unione Europea e il Trattato che istituiva la Comunità Europea. I cittadini europei e il loro voto democratico era stato completamente ignorato e superato.
La UE e in particolare i governi italiani che si sono succeduti, non importa di quale partito politico, hanno sottovalutato culturalmente e politicamente la questione extracomunitari, gli africani in particolare. L’enorme problema è stato affrontato male, in modo troppo superficiale, sottovalutando l’impatto con culture molto diverse e con almeno vent’anni di ritardo. Quale che sia la conclusione, presto o tardi saranno i cittadini a decidere democraticamente la sorte delle ottuse e arroganti oligarchie politico-economiche; è il naturale ciclo storico di rivalsa dei popoli inascoltati in paesi a sistema democratico.
Sulla vicenda del libero passaggio alle frontiere di extracomunitari o migranti, pesa un complicato groviglio di Accordi, Trattati, Convenzioni, tutti realizzati all’oscuro dei cittadini europei che protestando con ragione per l’improvvisa invasione a casa loro di questa povera gente, sono tacciati in modo scandaloso di populismo e xenofobia.
Le oligarchie e i magnati oramai padroni dell’Europa si sono trasformati in mercanti umani nel nuovo schiavismo di marchio europeo, pontificando la loro abbietta solidarietà quale opera benefica, supportati inoltre da un pontefice catto-comunista; un povero prete non in grado di svolgere a dovere la sua importante funzione politico-religiosa.
Il presidente italiano (o chi per lui) dell’INPS ha dichiarato apertamente al telegiornale che gli extracomunitari “sono indispensabili per le casse dell’INPS”, anche in questo caso senza spiegare il perché. Comunque emerge abbastanza chiaramente da parte del governo e dei suoi affiliati una sorta di disprezzo per gli italiani sempre menzionati nei loro discorsi; in realtà tutti gli sforzi sono mirati “all’affare extracomunitari”; un impegno preoccupante e pericoloso e gli italiani tutti devono stare molto attenti al prosieguo degli avvenimenti; stiamo perdendo la nostra cultura e la nostra storia, ed è quello che le oligarchie vogliono a tutti i costi. Ci stanno vendendo.
Molti anni fa, in un convegno sulla Letteratura della Negritudine, avevo conosciuto il prof. Lunanga; uno scrittore zairese molto attento ai problemi della nuova letteratura negroafricana. Egli mi aveva mostrato un interessante articolo da lui scritto nel 1987 sulla rivista SEGNI & FORME dal titolo ”Sulla Negritudine dopo una generazione letteraria”.
Scrive Lunanga: La Negritudine è stata e continua ad essere la ricerca dell’identità politico-socio-culturale dell’uomo di colore. La sua quintessenza straripa di così tanti valori da ricordare di continuo a ogni popolo la giusta lotta per i suoi diritti irrinunciabili. Questo problema non nasce da noi. Non è un’emanazione o un’invenzione del popolo nero. È invece un diritto universale uguale in tutto e per tutto a quello che ispirò la carta delle Nazioni Unite per il riconoscimento dei diritti dell’uomo. In questo contesto e fino a questo punto gli sforzi della Negritudine si sono rivelati lodevoli. Ma il nostro piccolo contributo, che si somma alle critiche già esistenti, studia in particolare il comportamento dei “padri” della Negritudine, lo mette a confronto con quello dei loro fratelli “non occidentali” e, per finire, riporta le conseguenze sorte sul piano letterario. “ Il negro sottoprodotto umano incosciente e tarato”, questa l’esclamazione del famoso poeta W.E.B. Du Bois in Le anime nere, a denuncia dello scandalo americano d’inizio secolo. E cosa dire di una crisi tra uomini in generale, uomini e basta, senza uno sguardo alla loro pelle? Leopold Sèdar Senghor e i suoi seguaci hanno combattuto questa battaglia a Parigi. Denunciare la situazione di oppressione dei neri, mendicanti, deboli, non umani e prendere coscienza del “proprio io” sono tutti atteggiamenti di sfida. Preso atto dell’esigenza in “questa” epoca di uscire allo scoperto ad ogni costo, i poeti di colore anno iniziato a condannare apertamente il comportamento ambiguo dell’occidente, la sua politica civilizzatrice, il suo piano di omogeneizzazione culturale, i pregiudizi per tanto tempo spacciati, in una sola parola; le ingiustizie legalizzate. Questo linguaggio è giunto a un punto tale da convincere il giovane poeta intellettuale nero a recuperare la sua uguaglianza col bianco. Tesi questa, senza dubbio condividibile, constatando chiaramente, ancora oggi, alla fine del secondo millenio, quanto l’uomo bianco si guardi bene dal considerare il nero pari a lui. Ora la nostra delusione è profonda perché, nonostante le grida lancinanti di ieri e più che mai di oggi, lo sfruttamento disumano guadagna ancora terreno.
La letteratura africana è sempre stata una letteratura impegnata. Una letteratura di battaglia, di un conflitto che chiede un sistema di abolizione di cose, la rivoluzione radicale, l’emancipazione. Senghor ha ben presentato il ritratto infantile ma severo del negro che deve tutti i giorni imparare dai suoi maestri. “Noi siamo- così diceva- dei grandi bambini”. E ci domandiamo ora se abbiamo forse finito di apprendere da questi maestri e se questi continueranno in eterno a considerarci dei “bambini”. Chi dunque ci darà questa risposta e quando? La Negritudine non può essere separata neppure dai fattori economici, politici e sociali. Cosi come forte è stata l’oppressione, dura oppressione, così non potrà che essere efficace l’azione. E queste voci non hanno mancato di attirare l’attenzione di qualche europeo. Sartre Frobenius ed altri, ad esempio, ne sono stati colpiti.
Il loro contributo non è certo passato inosservato. Molti esperti europei hanno così cercato di convincere l’opinione pubblica che il modello europeo, o comunque occidentale, non è l’unica via d’uscita.
Lo stesso comunismo ha avuto l’opportunità d’attirarsi l’attenzione e la simpatia dei popoli già colonizzati. Ci fu allora un’esplosione letteraria senza precedenti. Il popolo negro sciolse la sua lingua e parlò dicendo tutto ciò che aveva chiuso nel cuore. Le diramazioni raggiunsero tutti i filoni letterari; dalla poesia al romanzo, dal romanzo al teatro, dal teatro al saggio critico e via di seguito. Allora certi bianchi erano curiosi di sapere come si poteva esprimere una “scimmia”; la”scimmia così ne approfittò.
I padri della Negritudine non erano che un piccolo gruppo di giovani studenti emigrati. Con le radici del movimento potevano resistere, essendo i suoi germogli solo formati da una minoranza con un futuro politico. Finiti gli studi questi pionieri si sarebbero inevitabilmente seduti sui posti già occupati dai colonizzatori. E che ne sarebbe stato della realtà africana, forse che loro la conoscevano, forse che avrebbero saputo gestire il futuro dei loro popoli? Fu allora che nacque il nero dramma del continente nero, dramma cupo, dramma che ha la sua origine quando questi intellettuali, oramai non più africani prendono in mano le sorti dei loro paesi. E l’astuto colonizzatore da parte sua affida loro il potere volentieri, perché vede in loro traumi futuri ed incapacità ben note. Ed essi diventano delle pedine, dei burattini, delle semplici comparse.
Ci si accorse di sbagliare nel credere che l’elite era “ciò che vi è di meglio nella società africana”. Fu così che questi furono chiamati “maestri evoluti” e gli si attribuirono onorificenze quando, al contrario, erano loro i neri ignoranti, “i buoni stupidi”. Gli uomini dalla “pelle nera e la maschera bianca” di Fanon. Una cosa è certa; questi intellettuali “parigini” sarebbero vissuti meglio a Parigi che in un qualsiasi villaggio africano. L’esempio di Senghor è illuminante. Questo nostro saccente intellettuale infatti, è si africano ma certo solo di pelle e non di cultura. Così, da un lato, è respinto da chi l’ha formato e dall’altro, da chi lo deve formare. Doppiamente sradicato, questo intellettuale malato di corruzione è diventato talmente ibrido e spersonalizzato da invocare a gran voce una personalità. Ed è perciò che chi è privo d’identità, chi s’è perso e non sa ritrovarsi, chi non si conosce non potrà mai rivendicare qualcosa di valido. In definitiva, osserviamo ora, infatti, che il negro sfrutta il negro.
Questi prodotti europei hanno sempre rappresentato un grave pericolo per la promozione culturale dell’Africa. E come se non bastasse, si sentono pure investiti da debiti morali.
La letteratura africana è chiamata a un’etica imparziale che le assicuri un attivo sviluppo nel tempo e nello spazio. Bisogna così combattere non la razza bianca ma il gioco meschino europeo sullo sviluppo del Terzo Mondo del quale sono efficaci complici certe conoscenze africane. Alcune fra queste sono ancora quegli “intellettuali parigini” che parlavano con una tale povertà di sentimenti, solo per i vantaggi materiali cui aspiravano.
Finché si continuerà a sperare su un’elite prodotta in Europa, le sorti del continente nero saranno sempre più drammatiche. Un africano, preoccupato del suo sviluppo totale deve avere fiducia in se stesso. È dimostrato in modo chiaro e netto che non sono gli africani a essere venuti a sviluppare l’Europa; no di certo. Così non saranno neppure gli stranieri che verranno a risvegliare un’Africa sonnolenta, pigra e traditrice.
Riportiamo le nostre speranze nell’attuale fiorente generazione letteraria del Terzo Mondo.
Ma essa deve per forza parlare, se non vuole sparire, come ci ammonisce bene il congolese Sony Labou Tansi.
Una chiara, lucida analisi di Lunanga che precorre i tempi. Ci troviamo con l’UE confusa, divisa e un’Italia indebitata, con governi incapaci e senza idee, tanto meno sulla politica estera, che si accinge (da sola?) a fare che cosa per una nostra ex colonia quale la Libia? È un ricorso storico?
C.E.

Condividi questo articolo

Orbàn in scia a Trump: lancia la sfida Soros e le sue Ong per di diritti civili

Dal partito di maggioranza ungherese, Fidesz, sono partiti attacchi al miliardario di origine ebraica e al ruolo delle Organizzazioni non governative. Poi la marcia indietro da parte delle alte cariche del governo, ma resta la volontà di introdurre regole più severe “per capire chi vuole influenzarci dall’estero”

di ANDREA TARQUINI

15 gennaio 2017

Il miliardario George Soros BUDAPEST – Che cosa sta succedendo nei rapporti tra l’Ungheria e il miliardario Gyorgy Soros, di origini ungheresi ebraiche? Janos Lazar, il ministro in carica come alter ego e gestore personale dell’attività del popolare premier magiaro Viktor Orbàn, fa marcia indietro e smentisce la validità di durissime dichiarazioni contro Soros esternate da alti esponenti della Fidesz, il partito di maggioranza. Ma il conflitto è aperto. Sovranità nazionale contro presunte minacce del capitale cosmopolita, definizione che nella comunità ebraica mondiale, anche a livello di calcoli di affari e finanza, evoca memorie legate al 1933-1945. E non si sa né come finirà né quali ripercussioni avrà sui mercati.

Andiamo nell’ordine. Prima Szilard Németh, vicepresidente della Fidesz (appunto il partito di governo, dominato da Orbàn leader carismatico incontrastato, e partito membro del Partito popolare europeo) ha detto che Budapest vuole “usare tutti i mezzi legali per spazzare via tutte le ONG fondate da Soros o a lui legate, che servono il capitalismo globale e sostengono la ‘political correctness’ sopra le teste dei governi nazionali”. Contemporaneamente, ONG, oppositori e voci critiche a Budapest avvertivano: “Il premier Orbàn vuol cogliere l’occasione dell’insediamento di Donald Trump a nuovo presidente degli Stati Uniti d’America per una nuova stretta sui diritti civili e contro le ONG”.

Poi Janos Lazar ha gettato acqua sul fuoco. Ma solo in parte. Ha infatti dichiarato: “Non è vero che programmiamo di spazzare via le attività di Soros dal nostro paese, quelle dichiarazioni sono opinioni personali di chi le ha rese. Però il premier è deciso a introdurre regole più severe sulle attività delle organizzazioni non governative (ONG appunto) nel nostro paese, per sapere e capire, in nome dell’interesse e della sovranità nazionali, quali interessi quelle ONG servano: l’Ungheria ha diritto di sapere chi vuole influenzare la sua vita politica dall’estero”.

I legislatori ungheresi, quindi i parlamentari nell’enorme, maestoso Orszaghàz (Parlamento nazionale) in riva al Danubio dove la Fidesz e i suoi alleati minori hanno la maggioranza e forte è la rappresentanza di Jobbik, la destra radicale, dovrebbero presto preparare leggi per tradurre in pratica l’intenzione annunciata di restringere gli spazi delle ONG approfittando dell’èra Trump, riferisce la Bloomberg citando l’agenda dei lavori del Parlamento magiaro. Sempre secondo la stessa fonte, l’accesso al potere di Trump, a detta della Fidesz, offre una chance in questo senso.

La storia è singolare e ha radici lontane. Gyorgy Soros, da decenni, da ben prima della caduta dell'”Impero del Male” sovietico e del Muro di Berlino, ha sostenuto di tasca sua, per scelta, i movimenti per i diritti civili nella sua Ungheria natale e nel resto dell’Europa occupata. Da lui personalmente Orbàn, quando era giovane e coraggioso dissidente liberal e globalista perseguitato dalla dittatura comunista, e dopo, ricevette finanziamenti-donazione come borsa di studio per apprendere scienze politiche e arte di governo al meglio in prestigiose università anglosassoni.

Mostrare o negare Gratitudine e Memoria è scelta personale. Per Trump come per Orbàn, che è stato il primo capo dell’esecutivo di un paese dell’Unione europea a congratularsi in corsa con il presidente eletto usa per la sua vittoria. Il premier ungherese, che da anni ignorava le critiche della Ue e dell’amministrazione Obama per una presunta violazione dei valori costitutivi del mondo libero e per le sue dichiarate intenzioni di costruire un sistema di “democrazia illiberale”, citando egli stesso come esempi da seguire Russia, Cina e Turchia, aveva dichiarato al sito 888.hu nel dicembre scorso che Soros sarebbe stato “spremuto via da ogni paese europeo” e che ogni ONG sarebbe stata esaminata a fondo per vedere quali interessi rappresenta. “L’anno prossimo (il 2017 appena iniziato, ndr) sarà il momento per spremere via Soros e i poteri che egli simbolizza”, avrebbe detto il premier secondo la fonte citata. Poi appunto è venuto lo statement del numero due del suo partito, Szilard Németh, secondo il sito HirTv citato da Reuters: “Soros vuole introdurre in Ungheria il grande capitale globale e la political correctness con esso collegata…queste organizzazioni devono essere respinte con ogni mezzo disponibile, e penso che debbano essere spazzate via, e adesso credo che le condizioni internazionali siano quelle giuste in questo senso con l’elezione del nuovo presidente americano”. Poi Janos Lazar ha frenato e minimizzato. I problemi e i dissapori restano.

Le esternazioni dei governanti di maggioranza ungheresi, riconosciamolo, sono precise e puntuali. Anche Trump in persona ha accusato Soros di essere parte “di una struttura globale di potere responsabile di decisioni economiche che hanno derubato la nostra classe operaia, esurpato il nostro paese della sua ricchezza e messo tutti questi soldi nelle tasche di poche grandi corporations ed entità politiche”. E nella propaganda online Trump ha mostrato Soros insieme alla presidente della Federal Reserve, Janet Yellen, e del Ceo di Goldman Sachs group, Lloyd Blankfein. Tutti e tre ebrei. La ‘Anti-Defamation league’ ha replicato che questi sono metodi usati da decenni dagli antisemiti.
Odore di antisemitismo appena celato come strumento di creazione del consenso: vecchia storia in Europa, e gli ambienti delle comunità ebraiche temono che con l’elezione di Trump il metodo riacquisti ‘appeal’ insieme ad altre tendenze. Del resto, in questo senso l’Ungheria a rileggere la sua Storia non è che possa proprio vantare la migliore patente d’innocenza. Certo, il governo Orbàn ha sempre condannato e combattuto con forza ogni forma di antisemitismo, e si sforza di mantenere rapporti corretti con l’àncora importante e numerosa comunità ebraica ungherese. D’altra parte, è inevitabile che un certo linguaggio sul “capitalismo globale” e “antinazionale” quasi evochi discorsi e scritti di Joseph Goebbels. Parallelamente, secondo gli osservatori, è inevitabile osservare la riabilitazione a tappe (in corso in Ungheria) dell’èra del dittatore ammiraglio e reggente Miklòs Horthy. Ammiraglio d’un paese senza mare, reggente d’una monarchia distrutta. Miklòs Horthy, ex ammiraglio della marina asburgica, fu proclamato reggente dell’Ungheria divenuta nazione dopo la fine dell’impero austroungarico quando nel 1919 da capo militare e leader delle forze ‘bianche’ vinse con gli aiuti militari delle potenze occidentali la guerra civile contro i ‘rossi’ della dittatoriale ‘Repubblica sovietica’ comunista ungherese guidata nel dopo-prima guerra mondiale da Béla Kun.

Horthy entrò vittorioso a Budapest col suo cavallo bianco, ‘ora dovrò purtroppo governare qui a Judapest’, disse secondo citazioni dei suoi attendenti di campo presenti in libri di storia. Nel 1920 introdusse le prime leggi razziali contro gli ebrei, quando Mussolini e Hitler erano ancora ‘precari’. Durante la seconda guerra mondiale, l’Ungheria da lui guidata fu il più importante alleato militare del Terzo Reich nell’Operazione Barbarossa (1941, attacco tedesco alla Russia sovietica cui Winston Churchill rispose in corsa inondando l’Urss di forniture di aerei Spitfire, Hurricane e altri del miglior livello d’eccellenza d’allora, dispositivi elettronici di spionaggio, altre modernissime armi britanniche e battaglioni di consiglieri militari e d’intelligence e così salvandola), nella repressione antipartigiana in Jugoslavia e Slovacchia, poi nell’Olocausto. Oggi nei libri di testo scolastici ungheresi l’unico periodo nero della nazione dalla sua indipendenza sono i decenni sotto la dittatura comunista impostale da Stalin dopo il 1945, non l’èra Horthy. Messaggio apparente: Horthy, via, aveva lati buoni da riconsiderare, Soros è il cattivo cosmopolita. Dimmi chi citi decenni dopo, e ti dirò chi sei. Così l’Era Trump comincia nella splendida Budapest, parte del cuore d’Europa.

Giovedì 4 maggio 2017

Ma chi è George Soros?

È un miliardario e filantropo che per la sua attività politica è diventato lo spauracchio di tutti i complottisti di destra (e non solo)

(Wiktor Dabkowski/picture-alliance/dpa/AP Images)

George Soros è uno dei trenta uomini più ricchi del mondo, un filantropo che ha donato centinaia di milioni di dollari a Ong che si occupano di diritti umani e che si è spesso impegnato in politica, finanziando il Partito Democratico statunitense e i suoi candidati alla presidenza, come fanno molti altri miliardari americani. La risposta alla domanda nel titolo potrebbe esaurirsi qui, se non fosse che  Soros è anche un’altra cosa: la “bestia nera” dei complottisti di tutto il mondo.

Uno sguardo rapido alla sezione “Conspiracy” del sito Reddit, dove solo negli ultimi sei mesi sono state aperte 800 discussioni su Soros, restituisce un’idea abbastanza chiara dell’opinione che molti hanno del miliardario americano: «È un burattino miliardario della famiglia Rothschild che destabilizza intere nazioni finanziando programmi destinati alla “giustizia sociale” e corrompendo politici»; «È un tizio che vuole distruggere tutto ciò che c’è di bello nel mondo e non credo di aver mai sentito una buona ragione sul perché voglia farlo. Vorrei che questa fosse un’iperbole»; «Se non vado errato è il cugino del diavolo. In sostanza, finanzia ogni causa spregevole a cui puoi pensare e lo fa in nome del denaro e dell’influenza globale».

Soros è particolarmente detestato dai conservatori statunitensi per via delle sue idee progressiste, ma negli ultimi anni la sua persona ha iniziato a diventare famigerata anche tra gli esponenti della destra radicale italiana. Soros – che è ebreo, particolare citato sgradevolmente spesso nelle varie teorie del complotto – di recente è accusato soprattutto di essere la mente di un bizzarro piano che sembra uscito da un romanzo di fantascienza distopica: sostituire la popolazione italiana con immigrati da utilizzare come operai a basso costo. Questa strampalata cospirazione è stata sdoganata anche dai politici e dai media mainstream. Matteo Salvini, segretario della Lega Nord, ha parlato di questo complotto più volte, l’ultima proprio questa settimana: «Sono sempre più convinto che sia in corso un chiaro tentativo di sostituzione etnica di popoli con altri popoli: è semplicemente un’operazione economica e commerciale finanziata da gente come Soros. Per quanto mi riguarda metterei fuorilegge tutte le istituzioni finanziate anche con un solo euro da gente come Soros».

Fulvio Scaglione, vicedirettore di Famiglia Cristiana noto per difendere spesso Vladimir Putin nei suoi articoli, accusa Soros di disegni occulti e recentemente ha scritto che vuole rovesciare la presidenza di Donald Trump. In televisione queste idee sono state rese popolari da personaggi come “Nessuno”, uno dei partecipanti fissi dello show “La Gabbia”, i cui testi sono scritti dal giornalista di Libero Francesco Borgonovo.

Quando il 3 maggio Soros ha incontrato il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri ha definito il miliardario americano un “cancro”.

La ragione per cui Soros è diventato il nemico di conservatori ed estremisti di destra di tutto il mondo ha probabilmente a che fare con le sue radici e la sua storia personale. Soros nacque nel 1930 da una famiglia di religione ebraica in Ungheria e sopravvisse – quasi per miracolo – alle feroci persecuzioni avvenute nel suo paese durante la Seconda guerra mondiale, tra le peggiori dopo quelle subite dalla Polonia. Nel 1947 si trasferì con la famiglia nel Regno Unito, dove si laureò alla London School of Economics, conseguendo anche un master in filosofia (Soros dice che le teorie di Karl Popper hanno molto influenzato il suo modo di investire). Dopo la laurea lavorò in numerose banche d’affari finché nel 1969 non decise di mettersi in proprio, creando un proprio fondo di investimento.

Soros iniziò a emergere tra le migliaia di gestori di fondi di tutto il mondo nel 1992, quando durante la crisi della sterlina, il “mercoledì nero”, scommise contro la moneta britannica e vendette allo scoperto dieci miliardi di dollari di sterline. L’operazione di Soros contribuì in qualche misura al crollo della sterlina di quei giorni e gli fruttò un miliardo di dollari. Nello stesso periodo, Soros partecipò alla speculazione contro un’altra moneta: la lira italiana. Nel giro di pochi giorni, lira e sterlina uscirono dal Sistema monetario europeo (SME), un sistema che serviva ad ancorare le valute europee a dei cambi fissi le une con le altre. Durante la crisi, la lira venne svalutata di circa il 30 per cento. Soros venne criticato per essersi approfittato della situazione di difficoltà di Italia e Regno Unito. Soros ha risposto alle critiche dicendo di aver agito in base a informazioni a disposizione di chiunque e di essere stato soltanto uno dei numerosi finanzieri che all’epoca scommisero contro le valute europee. Queste non sono le uniche attività finanziarie controverse compiute da Soros. Nel 2006 fu condannato da un tribunale francese per un caso di insider trading (aveva utilizzato informazioni in suo possesso per trarne un indebito vantaggio). Parte delle critiche che riceve, deriva dalla sua attività di investimento, ma in questo Soros non è diverso da altre migliaia di investitori: quello che probabilmente lo distingue dagli altri è il fatto che si è spesso impegnato in politica.

A partire dalla fine degli anni Settanta, Soros ha speso centinaia di milioni di dollari per finanziare i movimenti democratici nei paesi del blocco comunista, come il sindacato polacco Solidarnosc. Nel 1984 fondò un’università in Ungheria che divenne uno dei centri di raccolta per l’opposizione democratica al regime comunista. Tra i giovani leader che furono aiutati da Soros c’era anche l’attuale primo ministro Victor Orbàn, che oggi è passato a posizioni di destra radicale e ha minacciato di chiudere l’università finanziata da Soros.

Tramite la sua Open Societies Foundation e il finanziamento di altre centinaia di organizzazioni, Soros ha esteso la sua attività filantropica e umanitaria in tutto il mondo. Molte delle Ong che ricevono i suoi finanziamenti si battono per valori progressisti, come diritti delle minoranze, delle donne e degli omosessuali; oppure a favore di una stampa libera e contro regimi corrotti. In alcuni casi le organizzazioni finanziate da Soros sono riuscite ad avere un impatto importante sulla storia dei loro paesi. Il caso più eclatante è probabilmente quello della Georgia, dove le ong e le associazioni locali della società civile, alcune sostenute proprio da Soros, hanno guidato la rivoluzione pacifica che ha portato alla fine della presidenza del leader sovietico Eduard Shevardnadze, che era al potere dal 1972. Un’associazione fondata da Soros è presente anche in Ucraina e fu creata prima della caduta dell’Unione Sovietica. All’epoca della rivoluzione del 2014, Soros si schierò apertamente con i leader europei, a favore delle proteste popolari e contro l’allora presidente filo-russo. Oggi le associazioni fondate o finanziate da Soros sono proibite in diversi paesi con regimi più o meno autoritari: dalla Russia alla Bielorussia, passando per Turkmenistan e Kazakistan. Dal 1979 a oggi Soros ha speso circa otto miliardi di dollari nelle sue iniziative civiche e politiche.

Per i critici complottisti, il suo obiettivo non è filantropico. L’interesse di Soros non sarebbe creare società pluralistiche anche nei paesi dove vigono regimi o culture repressive. Il suo vero scopo sarebbe imporre una visione monolitica del mondo che loro vedono come dannosa, fatta di economie capitalistiche e liberi scambi commerciali, libertà di costume e orientamento sessuale. Soros sarebbe un agente della “tirannia del politicamente corretto” e i suoi tentativi di combattere discriminazioni e repressione sarebbero in realtà una scusa per limitare la libertà di cittadini a favore di un “nuovo ordine mondiale”.

Il sito Vocativ ha raccontato in un recente articolo come si è creata questa immagine di Soros. Il passo più importante fu probabilmente una puntata del talk show del presentatore conservatore americano Bill O’Reilly, nell’aprile del 2007. Nel corso della puntata O’Reilly descrisse Soros come un pericoloso estremista di sinistra radicale che aveva l’obiettivo «unificare le politiche estere di tutti i paesi, legalizzare le droghe e l’eutanasia». I mezzi con cui Soros mirava a raggiungere questi obiettivi, disse O’Reilly, erano una complicata rete di fondazioni e ong. Tre anni dopo un altro presentatore conservatore, Glenn Beck, dedicò due puntate del suo show a rivelare il “piano ombra” di Soros, con cui il miliardario puntava a creare un unico governo mondiale per poi mettersene a capo.

Oggi, con l’elezione di Donald Trump, le teorie del complotto nei confronti di Soros hanno raggiunto l’apice della loro popolarità. Secondo personaggi ultracomplottisti come Alex Jones, capo del sito InfoWars, al momento è in corso uno scontro tra l’americanità genuina rappresentata da Donald Trump e un’oscura cabala di miliardari internazionali capeggiati da Soros e intenzionati a prendere il potere negli Stati Uniti. Il Daily Beast ha calcolato che, secondo InfoWars, soltanto nel 2017 Soros è già riuscito a portare sotto il suo controllo 183 organizzazioni e 12 individui diversi. Soros è accusato di condurre la sua campagna con mezzi scorretti, per esempio pagando le migliaia di manifestanti che hanno protestato negli ultimi mesi contro Trump. Come quasi tutte le altre accuse strampalate ricevute da Soros, anche questa si è rivelata falsa.

 

SU COSA GEORGE SOROS PUNTER À IN ITALIA

Informazione Consapevole maggio 04, 2017

L’articolo di Andrea Montanari, giornalista di Mf/Milano Finanza

Nonostante tutto l’Italia è considerato un mercato potenzialmente interessante per gli investimenti internazionali. Lo dimostra non solo il successo dell’aumento di capitale da 13 miliardi di Unicredit (la più rilevante ricapitalizzazione mai fatta nel Paese), ma anche l’interesse che da qualche mese sta mostrando uno dei guru della finanza americana. George Soros, secondo quanto appreso da fonti finanziarie e politiche qualificate da MF-Milano Finanza, ha messo nel mirino il mercato nazionale.

Il miliardario di origini ungheresi, 29° uomo più ricco al mondo per Forbes con un patrimonio di 25,2 miliardi di dollari, ha chiesto allo staff del suo gruppo d’investimento, e in particolare a Shanin Vallée, uno studio approfondito sull’Italia, non solo dal punto di vista finanziario, economico e industriale ma anche politico. Lo scopo? Valutare eventuali investimenti, diretti o indiretti, a medio-lungo termine, sul mercato locale. Soros del resto non solo opera a titolo personale o con la propria struttura, ma è fondatore di Quantum Group of funds e, soprattutto, advisor di Blackrock, uno dei colossi dell’investimento made in Usa, particolarmente esposto sull’Italia, avendo partecipazioni per quasi 2 miliardi nel sistema bancario (vedere MF-Milano Finanza dello scorso 22 aprile), ma anche nelle società quotate sul listino principale, a partire da Eni, Enel, Generali, Telecom Italia, Mediaset e così via.

Ma come mai tutto questo interesse per l’Italia da parte di uno degli uomini che all’età di 87 anni è ancora tra i più attivi su scala globale? È ipotizzabile che siano diversi i fattori che hanno spinto Soros a voler studiare il mercato. Ovviamente una componente è quella di natura politica, vista l’instabilità degli ultimi anni (dal 2011 si sono susseguiti i governi Monti, Letta, Renzi e, ora, Gentiloni) e l’ipotesi di una tornata elettorale nel prossimo autunno è ancora tutta da definire e valutare. A ciò si sommano le condizioni economiche del Paese e il conflittuale rapporto con l’Unione europea sul tema del debito pubblico e del rispetto dei parametri. Senza trascurare il fatto che la vulnerabilità del sistema industriale nazionale ha permesso a tanti gruppi di portata globale di fare acquisizioni a prezzi a volte vantaggiosi.

Non va poi trascurato il tema dei crediti deteriorati (350 miliardi lordi), il cui ammontare è tra i più alti del Vecchio Continente, che sta attirando l’attenzione dei fondi speculativi e non solo di quelli di grandi dimensioni. Non per nulla, Soros è anche ricordato come lo speculatore che il 16 settembre del 1992 costrinse la Banca d’Inghilterra a svalutare la sterlina, guadagnando in un sol colpo 1,1 miliardi di dollari. Mosse che vennero ripetute sempre nello stesso periodo anche in Italia quando vendette le lire allo scoperto comprando dollari, obbligando Bankitalia ad attingere 48 miliardi di dollari dalle riserve per sostenere il cambio, portando a una svalutazione della moneta locale del 30% e alla conseguente estromissione della lira dal sistema monetario europeo.

Ovviamente, Soros non sta operando in prima persona in questa analisi del sistema-Paese. Ha dato l’incarico, come già accennato, a Shanin Vallée, dal maggio 2015 senior economist per il Soros Fund e in precedenza consigliere economico del ministero dell’Economia francese ma soprattutto, dal giugno del 2012, advisor economico dell’ex presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy. Vallée, che sta studiando per un Ph. D. all’Istituto europeo della London School of Economics, è stato anche ricercatore per Bruegel, il comitato di analisi delle politiche economiche nato a Bruxelles nel 2005 e presieduto all’inizio dall’ex premier italiano Mario Monti.

Il fidato consulente di Soros, basato a Roma, sarebbe sul punto di completare il suo articolato report sul mercato italiano dopo averne fatto uno sul sistema bancario (con focus su Unicredit, Mps e le banche venete) dopo aver avuto contatti diretti con parte del governo Gentiloni.

(Articolo pubblicato sul quotidiano Mf/Milano Finanza diretto da Pierluigi Magnaschi)

http://formiche.net/2017/05/03/george-soros-scruta-investire-italia/

Ecco su cosa George Soros punterà in Italia Reviewed by Informazione Consapevole

 

COME GEORGE SOROS, DA SOLO, HA CREATO LA CRISI EUROPEA DEI RIFUGIATI, E PERCHE’.

(Tyler Durden – Zero Hedge Jul 9 2016)

Di David Garland e Stephen McBride, Gallet/Galland Research

George Soros è di nuovo in gioco in  borsa. L’85 enne attivista, politico e filantropo ha conquistato i titoli di testa del post-Brexit, affermando che l’evento avrebbe scatenato una crisi nei mercati finanziari. Ma lui non ne è stato, neanche stavolta, colpito.

Era come sempre dalla parte giusta della barricata, vendendo allo scoperto azioni della preoccupata Deutsche Bank e scommentendo contro la S&P con una quota “put option” da 2,1 milioni sul SPDR S&P 500 ETF.
E ancor più interessante, di recente Soros ha ceduto una posizione di 264 milioni di  $ nella Barrick Gold (la più grande compagnia mineraria aurea ndt.), il cui valore di borsa è schizzato ad un più 14% nel post-Brexit. Oltre a questo affare, Soros ha venduto le sue quote in molte delle sue tradizionali proprietà.

George Soros aveva da poco annunciato che sarebbe di nuovo tornato in pista.

Ritiratosi prima nel 2000, l’unica altra volta in cui fece pubblicamente rientro nei mercati fu nel 2007, piazzando una serie di scommesse al ribasso sull’industria immobiliare USA; alla fine si portò così a casa un gruzzoletto di oltre 1 miliardo di $.

Sin dagli anni ’80, Soros si è attivamente dedicato ad un programma globalista; egli porta avanti tale progetto con la sua Open Society Foundation (OSF).

Che cos’è questo programma globalista, e da dove nasce?

Gli inizi oscuri

Il seme globalista fu impiantato nel giovane George da suo padre Tivadar, un avvocato ebreo che fu un forte promulgatore dell’esperanto. L’esperanto è una lingua creata nel 1887 da L.L.Zamenhof, un oculista polacco, allo scopo di “trascendere i confini nazionali” e “superare la naturale indifferenza dell’umanità”.

Tivadar insegnò l’esperanto al giovane George e lo obbligò a parlarlo in casa. Nel 1936, quando Hitler ospitava le olimpiadi a Berlino, Tivadar si fece cambiare il cognome da Schwarz in Soros, una parola che in esperanto significa “crescerò”, “mi innalzerò”.

George Soros, che nacque e crebbe a Budapest, Ungheria, beneficiò molto della decisione del padre.

Secondo quanto riportato, nel 1944 il quattordicenne George andò a lavorare per gli invasori nazisti. Si dice che fino alla fine della guerra lavorò con un ufficiale del governo, aiutandolo a confiscare i beni presso la popolazione ebrea locale.

In una intervista al talk show 60 minutes, Soros descrisse gli anni dell’occupazione tedesca come: “Il momento più felice della mia vita”.

L’avventura di Soros nella finanza.

Quando la guerra finì, Soros si spostò a Londra e nel 1947 si iscrisse alla Scuola Londinese di Economia, dove studiò sotto Karl Popper, il filosofo austro-britannico che fu uno dei primi sostenitori della “Società Aperta”.

Poi Soros lavorò presso numerose banche commerciali londinesi, prima di spostarsi a New York nel 1963. Nel 1970 fondò il Soros Fund Management (società finanziaria, ndt) e nel 1973 creò il fondo Quantum, in collaborazione con il finanziere Jim Rogers.

Il fondo spuntò rendimenti di oltre il 30% annuo, cementando la reputazione di Soros e ponendolo in una posizione di potere – posizione che continua tuttora a utilizzare per portare avanti il programma dei suoi mentori.

Le speculazioni monetarie che hanno creato le crisi in Gran Bretagna e in Asia

Negli anni 90 Soros iniziò una serie di pesanti scommesse sulle valute nazionali. La prima fu nel 1992, quando vendette allo scoperto la sterlina, facendo in un sol giorno più di 1 miliardo di dollari di guadagno.

La successiva grande speculazione ebbe luogo nel 1997. Questa volta Soros scelse il baht thailandese e, con un volume molto pesante di vendite allo scoperto, distrusse il rapporto prezzo/guadagno del baht col dollaro, dando il via alla crisi finanziaria asiatica.

Gli sforzi “umanitari”

Oggi, il patrimonio di Soros è di 23 miliardi di $. Da quando nel 2000 si è spostato nelle retrovie della sua compagnia, il Soros Fund Management, Soros si è dedicato alle sue attività filantropiche, che porta avanti grazie alla Open Society Foundation, che fondò nel 1993.

Quindi, cosa e a chi dona, e quali cause sostiene?

Tra gli anni 80 e 90, Soros usò la sua incredibile ricchezza per finanziare rivoluzioni in dozzine di paesi europei, inclusi la Cecoslovacchia, la Croazia e la Jugoslavia. Per far questo, incanalò il denaro verso partiti i politici all’opposizione, le case editrici e i media indipendenti di queste nazioni.

Se ti chiedi perchè Soros si interessò a questi affari nazionali, parte della risposta può risiedere nel fatto che, durante e dopo il caos, egli investì pesantemente nei patrimoni di entrambi i rispettivi paesi.

Dopo di questo, Soros utilizzò l’economista della Columbia University Jeffrey Sachs per fornire consulenza ai governi neonati e inesperti su come privatizzare immediatamente tutte le attività pubbliche, permettendo in tal modo a Soros di vendere i titoli, che aveva acquistato durante i disordini, all’interno di mercati aperti di recente formazione.

Incoraggiato dai successi del programma in Europa, attraverso i cambiamenti di regime – e approfittando personalmente della cosa – dopo poco girò l’attenzione al grande palcoscenico, gli Stati Uniti.

Il grande momento

Nel 2004 Soros dichiarò “Io credo profondamente nei valori di una società aperta. Negli ultimi 15 anni ho dedicato i miei sforzi all’estero; ora lo farò negli Stati Uniti.”

Da allora Soros ha finanziato gruppi quali:

  • L’Istituto Americano di Giustizia Sociale, il cui scopo è di “trasformare le comunità povere attraverso un’attività di lobbying per una spesa governativa più consistente per i programmi sociali”
  • La Fondazione New America, il cui scopo è di “influenzare l’opinione pubblica su argomenti quali ambientalismo e governo globale”
  • L’Istituto di Politica Migratoria, che mira a “realizzare un reinsediamento dei migranti illegali e incrementare i loro vantaggi sociali del welfare”.

Soros usa inoltre la sua Open Society Foundation per far arrivare il denaro all’organo di stampa progressista MediaMatters. (ONG onlus organo di controllo di media e pubblicazioni negli Stati Uniti – watchdog, ndt)

Soros incanala il denaro tramite tutta una serie di gruppi di sinistra, quali la Tides Foundation, il Centro del Progresso Americano, e l’Alleanza Democratica, al fine di aggirare le leggi sul finanziamento delle campagne, che lui aiuta a promuovere.

Come mai Soros ha regalato così tanti soldi e impegno a queste organizzazioni?

Per un semplice motivo: per acquisire potere politico.

I politici democratici che si muovono contro la linea progressista, riceveranno tagli ai finanziamenti e verranno attaccati da organi di stampa quali MediaMatters, che tra l’altro collabora con società e siti del mainstream del calibro di NBC, Al Jazeera e del The New York Times.

A parte i 5 miliardi di dollari che la foundation ha donato ai gruppi suddetti, egli ha inoltre elargito cospiqui contributi al partito Democratico e ai suoi membri più importanti, quali Joe Biden, Barack Obama, e naturalmente Bill e Hillary Clinton.

La grande amicizia con i Clinton

Il rapporto di Soros con i Clinton risale al 1993, all’incirca cioè al tempo in cui la foundation fu fondata. Sono poi divenuti ottimi amici e la loro relazione duratoria va ben al di là dello status di donatore.

Secondo il libro “The shadow party” (il partito ombra ndt) di Horowitz e Poe, in una conferenza del 2004 di “Take Back America” in cui Soros parlava, la ex first lady lo presentò dicendo “abbiamo bisogno di persone come George Soros, che ha il coraggio e la voglia di mettersi in gioco quando c’è bisogno.”

Soros iniziò a sostenere l’attuale corsa presidenziale di Hillary Clinton nel 2013, assumendo un ruolo importante nel gruppo “Pronti per Hillary”. Da allora, Soros ha donato oltre 15 milioni di $ ai gruppi pro-Clinton e ai super PAC (Politic Action Committee – Comitati di azione politica).

Più di recente, Soros ha devoluto più di 33 milioni di $ al gruppo Black Lives Matter, che è stato implicato in scoppi di agitazioni sociali a Ferguson (Missouri) e a Baltimora (Maryland), nel 2015 (e ai recentissimi di Dallas – ndt). Entrambi questi incidenti hanno contribuito a peggiorare le relazioni razziali in tutta l’America.

Lo stesso gruppo ha pesantemente criticato il concorrente democratico Bernie Sanders per un suo presunto appoggio alla disugualianza razziale, contribuendo così a scalzarlo da quel ruolo che aveva di minaccia competitiva in una delle circoscrizioni più infuocate per Hillary Clinton.

Tutto questo, ovviamente, ha aumentato e di molto l’influenza che Soros esercita sui gruppi suddetti. Ed è logico pensare che ora sia in grado di manovrare la linea democratica, specialmente in una ammisitrazione con a capo Hillary Clinton.

Ciò che Soros vuole, semplicemente lo ottiene. Ed è evidente dai suoi trascorsi che lui mira a confondere i  confini nazionali, creando quella sorta di incubo globalista che è di scena  nella Unione Europea.

Negli ultimi anni, Soros si è di nuovo concentrato sull’Europa. E’ una coincidenza che il continente sia attualmente in difficoltà economiche e sociali?

Un’altro successo: il conflitto ucraino.

Non c’è dubbio alcuno sull’influenza che Soros ha sulla politica estera americana. In una intervista alla PBS dell’ottobre del 1995 con Charlie Rose, disse: “Io ora ho accesso (al vice segretario di stato Strobe Talbott). Non è in dubbio. Noi realmente lavoriamo assieme (sulla politica dell’Europa dell’Est).”

La presenza mediatica di quell’orribile faccione di Soros si è di nuovo impennata nel conflitto Russia-Ucraina, che prese il via all’inizio del 2014.

In una intervista del maggio 2014 con la CNN, Soros dichiarò che egli stesso era responsabile di aver creato una fondazione in Ucraina, che alla fine condusse al ribaltamento del leader eletto dal paese e all’insediamento di una giunta scelta dal Dipartimento di Stato US, che guarda caso a quel tempo aveva a capo Hillary Clinton.

Intervista

CNN: Come prima cosa sull’Ucraina, una delle molte cose che la gente fa notare,  fu che lei, durante le rivoluzioni del 1989, finanziò molte attività dissidenti e gruppi della società civile nell’Europa dell’Est, in Polonia e nella Repubblica Ceca. Sta facendo lo stesso in Ucraina?

SOROS: Bene, io fondai una fondazione in Ucraina prima che questa diventasse indipendente dalla Russia. E la fondazione lavora da allora e ora gioca un ruolo importante negli eventi.

La guerra che dilaniò la regione ucraina del Donbass comportò la morte di oltre 10.000 persone e lo sfollamento di un altro milione e 400.000. E come “danno collaterale”, fu abbattuto un jet della Malaysian Airlines con 298 passeggeri a bordo.

E ancora una volta Soros era lì per guadagnare dal caos che aveva contribuito a creare. Il suo premio in Ucraina fu il monopolio della società energetica statale Naftogaz.

Soros fece anche lì in modo che i suoi compari americani, il segretario del tesoro Jack Lew e l’azienda di consulenza McKinsey, consigliassero il governo fantoccio dell’Ucraina di privatizzare Naftogaz.

Sebbene l’esatta quota di Soros nella Naftogaz non sia stata resa pubblica, in una nota del 2014 si impegnò ad investire fino a 1 miliardo di dollari negli affari ucraini, e sinora non sono emersi  nomi di altre società ucraine.

Il suo ultimo successo: la crisi europea dei rifugiati

Il progetto di Soros riguarda fondamentalmente la distruzione dei confini nazionali. Questo è stato dimostrato senz’ombra di dubbio dal suo finanziamento alla crisi europea dei rifugiati.

La colpa di tale crisi è stata attribuita alla guerra civile che sta attualmente imperversando in Siria. Ma non vi siete mai chiesti come faceva a sapere tutta questa gente, improvvisamente, che l’Europa avrebbe aperto i cancelli e li avrebbe lasciati entrare?

La crisi dei rifugiati non è un fenomeno naturale. Essa ha coinciso con le donazioni che l’open society foundation OSF faceva all’Istituto di Politica Migratoria con sede negli US e alla Piattaforma per la Cooperazione Internazionale su Migranti senza Documenti, tutto denaro investito da Soros. Entrambi i gruppi sostengono il reinsediamento dei musulmani del terzo mondo in Europa.

Nel 2015, un reporter di Sky News trovò dei “manualetti per i migranti” sull’isola greca di Lesbo. Si seppe poi che i libretti, scritti in arabo, erano stati dati ai “rifugiati” prima di attraversarre il mediterraneo da un gruppo chiamato “Benvenuti nella EU”.

“Benevenuti nella EU” è finanziato – già lo pensavi – dalla Open Society Foundation.

Soros non solo ha appoggiato gruppi che facilitano l’accoglienza dei migranti del terzo mondo in Europa, ma è anche di fatto l’architetto del “Piano Merkel”.

Il Piano Merkel fu creato dall’Iniziativa per la Stabilità Europea, il cui presidente Gerald Knaus è un socio anziano dell’immancabile Open Society Foundation.

Il piano si propone che la Germania possa garantire asilo a 500.000 rifugiati siriani. Afferma inoltre che la Germania, assieme ad altre nazioni europee, dovrebbe unirsi nell’aiuto alla Turchia, un paese musulmano al 98% , ad ottenere entro il 2016 che gli spostamenti all’interno dell’Europa avvengano senza bisogno del passaporto.

Il discorso politico

La crisi dei rifugiati ha creato grandi preoccupazioni in paesi europei come l’Ungheria.

In risposta ai 7.000 migranti che sono entrati giornalmente in Ungheria nel 2015, il governo ha ristabilito i controlli di frontiera per impedire l’ingresso dei rifugiati nel paese.

Ovviamente questo non ha fatto piacere né a Soros né ai suoi stretti alleati, i Clinton.

E da allora Bill Clinton ha iniziato a fare dichiaraizioni, accusando Polonia e Ungheria di pensare che “la democrazia è un problema troppo grande per loro” e di voler instaurare una “dittatura autoritaria in stile Putin.”

Comprendendo l’allusione nel commento di Bill Clinton, il primo ministro ungherese Viktor Orban ha risposto dicendo: “le osservazioni fatte su Polonia e Ungheria … hanno una dimensione politica. Non sono cose accidentalmente scappate di bocca. E tali rimproveri si sono moltiplicati da quando siamo nell’era della crisi migratoria. E tutti noi sappiamo che dietro i leader del Partito Democratico, dobbiamo collocare George Soros”.

Orban si è spinto fino a dire: “anche se la bocca è dei Clinton, la voce è di Soros.”

Riguardo la politica migratoria di Orban, Soros ha allora risposto: “Il suo piano (di Orban) tratta la protezione dei confini nazionali in quanto obiettivo e i rifugiati in quanto ostacolo. Il nostro piano tratta la protezione dei rifugiati quale obiettivo e dei confini nazionali come ostacolo.”

Più esplicito di così non poteva essere, nel comunicare le sue intenzioni globaliste.

Il motivo del profitto

Dunque, perchè Soros si impegna così tanto per inondare l’Europa con moltitudini di musulmani del terzo mondo?

Non possiamo esser certi degli importi, ma recentemente è venuto alla luce che Soros ha intrapreso una gran serie di “posizioni derivative al ribasso” contro i titoli americani. Da quanto sembra, egli pensa che causare il caos in Europa contagerà gli Stati Uniti, creando una spirale discendente a Wall-Street.

Distruggere l’Europa con l’invasione di milioni di musulmani non integrati è un piano specifico per causare il caos economico e sociale nel Continente: un altro splendido esempio di come tumulto equivale a profitto per George Soros, che sembra ormai avere le mani e lo zampino su quasi tutti gli eventi geopolitici attuali.

Sappiamo però tutti che correlazione non è causazione. Comunque, data la sua enorme ricchezza, le sue connessioni politiche e il suo lungo trascorso di saper trarre profitto dal caos, Soros è quasi certamente un importante catalizzatore  di molti dei tumulti attuali.

Il suo intento è quello di distruggere i confini nazionali e di creare una struttura di governance globale con poteri illimitati. Dai suoi commenti diretti a Viktor Orban, possiamo capire che Soros vede chiaramente i leader nazionali come suoi dipendenti, in attesa che diventino marionette che vendono poi la sua narrativa alle masse ignoranti.

Soros vede se stesso come un missionario che continua il piano globalista tramandatogli dai suoi antichi mentori. Per proseguire nel progetto, Soros usa le sue vaste connessioni politiche  influenzando le linee di governo e per creare crisi, sia economiche che sociali.

A quanto sembra, Soros cospira contro l’umanità ed è maledettamente determinato a distruggere le democrazie occidentali.

Per qualsiasi pensatore razionale, alcuni eventi globali non hanno semplicemente senso. Perchè, per esempio, le democrazie occidentali dovrebbero accogliere milioni di persone i cui valori sono completamente incompatibili con i propri?

Quando guardiamo più da vicino l’agenda globalista attivamente proposta dal mastro burattinaio, George Soros, le cose diventano però più chiare.

Ed ecco i clown

Non c’è niente di più simile alla carta “Esci di prigione” (del Monopoli ndt) di quella data dai pagliacci della FBI a Hillary, con riferimento ai suoi server privati di posta elettronica. E questo nonostante non ci sia più alcun dubbio che lei abbia infranto tutte le leggi federali, cosa che avrebbe fatto sbattere in galera qualsiasi clown di minore importanza.

Il direttore dell’FBI James Comey ha dichiarato: “Sebbene ci sia prova di potenziali violazioni dei regolamenti riguardanti il trattamento di informazioni classificate, il nostro giudizio è che nessun pubblico ministero ragionevole si impegnerebbe in tale caso.

C’è raffinatezza in tale affermazione. Per prima cosa, afferma che c’è prova di violazione. Ma è anche chiara la realtà politica che nessun “pubblico ministero assennato” farebbe in tal caso rispettare le leggi, considerando chi è il colpevole: il tipico portabandiera democratico americano che andrà ad elezioni.

Oltre a questo, schierarsi contro i Clinton significa incrociare le spade con Soros, e nessun “ragionevole pubblico ministero” vorrebbe farlo.

Tanto per dire…

Articolo originario:

http://www.zerohedge.com/news/2016-07-08/how-george-soros-singlehandedly-created-european-refugee-crisis-and-why

Condividi questo articolo

© 2024 Il mio blog

Tema di Anders NorenSu ↑